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è processo “giusto”?

1. Il fenomeno del maxiprocesso: breve excursus storico

“l’espressione “maxiprocesso” evoca immediatamente l’immagine di procedimenti “ciclopici”1, instaurati a carico di

numerosi imputati, per un cospicuo numero di imputazioni e con partecipazione, talora, ampia di parti lese legittimate ad esercitare l’azione civile, sullo sfondo militarizzato delle aule-bunker”2.

Con il termine “maxi” si intende indicare un fenomeno processuale le cui dimensioni sono tali da superare la regolare capienza di un procedimento cumulativo, conseguendo una spettacolarizzazione della scena processuale e un inevitabile malfunzionamento di

1 Evocativa locuzione di A. GAMBERINI, Lotta al crimine organizzato e ciclopi processuali. “Riconoscibilità” dell’intervento giudiziario e “praticabilità” della funzione difensiva, in Dei delitti e delle pene, 1986, 1, p. 63.

2 In questi termini ci riassume il quadro del maxiprocesso, L. MARAFIOTI, Fenomenologia del gigantismo processuale in Maxiprocessi e processo “giusto”, op. cit., p. 653.

quasi tutti gli istituti processuali coinvolti3.

Anche la letteratura straniera denota questo fenomeno processuale, pur sempre con accezione negativa e con locuzioni di immediato impatto, quali Mass Trial, Processos penais monstruosos o, ancora, Mammutverfahren4.

Dando uno sguardo alla realtà storica, la cronaca giudiziaria italiana colloca il primo maxiprocesso all’inizio del novecento; nel marzo 1911, di fronte la Corte di assise di Viterbo prende le mosse il processo Cuocolo, tale processo si basò sulle dichiarazioni del pentito Gennaro Abbatemaggio, le cui accuse erano state mosse nei confronti di 58 imputati. A causa delle sue dimensioni, il processo Cuocolo venne ritenuto un evento del tutto eccezionale: durò 16 mesi per un totale di 282 udienze (52 solo per raccogliere le dichiarazioni del pentito), furono escussi 252 testimoni, due pubblici ministeri sostennero l’accusa, due presidenti furono designati per dirigere il dibattimento e si computa una spesa di circa due milioni di lire (cifra considerevole per i tempi che correvano)5.

3 L. MARAFIOTI, Fenomenologia del gigantismo processuale in Maxiprocessi e processo “giusto”, op. cit., p. 653-654.

4 Si veda sul tema, L. MARAFIOTI, La separazione dei giudizi penali, Milano, 1990, p. 161; W. GRAHUAN, Bewältigung von Großverfahrem dürch Beschränkung des Prozeßstoffs, in G.A., 1976, p. 225 ss.

5 Si veda, R. ALFONSO, Il fenomeno del «pentitismo» e il maxiprocesso, in Fenomenologia del maxiprocesso: venti anni di esperienze, a cura di G. TINEBRA, R. ALFONSO, A. CENTONZE, Giuffrè, Milano, 2011, p. 1.

Il maxiprocesso vivrà una nuova stagione sotto la vigenza del Codice di procedura penale del 1930, tale strumento costituirà l’arma adottata dallo Stato per fronteggiare, con successo, negli anni '70, il dilagare del terrorismo di matrice politica. Abbattuto il progetto eversivo condotto dai terroristi, il Paese non visse anni di pace, alle porte si presentava un nuovo fenomeno, ben più violento e meno arrendevole del terrorismo che caratterizzò gli “anni di piombo”, ovvero, la criminalità organizzata.

Le espressioni più efferate di questo fenomeno criminoso sono riconducibili alla mafia siciliana denominata “Cosa Nostra”, la ’Ndrangheta calabrese e alla Camorra napoletana; anche il crimine organizzato conobbe un fattore di squilibrio già conosciuto dal terrorismo politico qualche anno prima, molti affiliati alle cosche mafiose iniziarono a collaborare con le autorità inquirenti facendo breccia in quello scudo di protezione omertoso che fino a quel momento aveva garantito l’impunità degli affiliati6.

La pluralità di dichiarazioni, provenienti da soggetti appartenenti sodalizio mafioso, permise all’autorità giudiziaria di guardare all’interno della struttura criminale, scorgendo spettri rievocativi di un apparato somigliante a quello statale, ma non solo, le singole

6 Sul tema della lotta e al terrorismo politico e alla criminalità organizzata, si veda ampiamente, R. ALFONSO, Il fenomeno del «pentitismo» e il maxiprocesso, op. cit. p. 3 ss.

fattispecie delittuose che fino a quel momento erano state perseguite singolarmente, poterono essere ricollocate in un quadro, il cui dipinto rappresentava un preciso disegno criminoso di assoggettamento e controllo politico, economico e sociale protetto da un becero muro di omertà.

I dati provenienti dai collaboratori di giustizia andarono ad integrare, o in taluni casi, a confermare le indagini portate avanti in modo inarrendevole e perseverante dalle autorità inquirenti, e il risultato rappresentò uno Stato che attraverso i propri poteri rimarginava il tessuto sociale caninamente lacerato dal parassitismo mafioso. fu così che, a distanza di circa 70 anni dal primo grande evento giudiziario della storia italiana (processo Cuocolo), le dichiarazioni di soggetti facenti parte del medesimo sodalizio criminoso, permisero di assicurare alla giustizia, nell’ambito di un solo procedimento penale, diverse centinai di imputati e il numero dei correi che decisero di collaborare con l’autorità giudiziaria (perchè ravvedutesi, o solo per spirito di ribellione) lievitò a dismisura, facendo parlare nuovamente di un fenomeno, che già dai tempi del terrorismo politico era stato denominato, con efficace sintesi giornalistica, “pentitismo”7.

7 Si veda, R. ALFONSO, Il fenomeno del «pentitismo» e il maxiprocesso, op. cit., p. 3.

La battaglia giudiziaria caratterizzerà gli anni 80 del XX secolo, in quel decennio si moltiplicarono i maxiprocessi fondati sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che per mero ravvedimento, o per vendicare torti subiti all’interno dell’organizzazione, iniziarono a puntare il dito nei confronti dei propri sodali. Le dichiarazioni dei pentiti costituiranno la prova regina all’interno delle maxi-inchieste, in un momento dove il progresso tecnologico non aveva ancora permesso l’utilizzo di mezzi di prova altamente sofisticati, come le intercettazioni, che oggi costituiscono lo strumento probatorio per eccellenza nell’ambito dei processi di mafia.

Tra l’inizio deli anni '80 e i primi anni '90, abbiamo la celebrazione di processi altamente noti all’opinione pubblica; per la prima volta lo Stato, con convinzione e unità di intenti, condurrà una partita faccia a faccia con il male che da sempre conviveva al proprio interno.

Le battaglie giudiziarie che hanno segnato la storia del nostro Paese, e quindi, degne di essere ricordate sono: il processo di Torino contro il clan dei catanesi, dove per la prima volta vennero imputati dei magistrati ritenuti colpevoli di aver intrattenuto rapporti con l’organizzazione criminale, processo che si fondò sulle dichiarazioni del pentito Salvatore Parisi; il processo di

Milano contro gruppi criminali mafiosi composti da esponenti milanesi e catanesi, che prese spunto dalle dichiarazioni del pentito Angelo Epaminonda; il processo di Napoli contro l’organizzazione camorristica fondata da Raffaele Cutolo denominata “NCO” (Nuova Camorra Organizzata). Il processo fu promosso dalle dichiarazioni di Barra Pasquale, D’Amico Pasquale, Pandico Giovanni, Incarnato Mario, Riccio Luigi e molti altri, processo particolarmente conosciuto come “processo Tortora” (per l’ingiusta condanna inflitta a quest’uomo) che portò alla condanna di plurimi affiliati all’organizzazione per aver commesso il delitto di associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p.; infine, quello che potremmo definire il simbolo del gigantismo processuale, il maxiprocesso di Palermo; uno degli eventi giudiziari più importanti e di maggiori dimensioni della storia contemporanea, che ha rappresentato una lezione nella lotta al crimine mafioso8.

2. Il maxiprocesso di Palermo

Il 10 febbraio 1986, a Palermo, si aprì il sipario del maxiprocesso alla mafia siciliana, per la prima volta, l’associazione a delinquere denominata “Cosa Nostra” – unitamente intesa – venne chiamata

8 Si veda, R. ALFONSO, Il fenomeno del «pentitismo» e il maxiprocesso, op. cit., p. 7.

a rispondere di fronte alla giustizia penale.

La straordinarietà e le dimensioni del processo “monstre”9 ci viene

testimoniata dai numeri a dir poco impressionanti: 3000 agenti delle forze dell’ordine impiegati per la sicurezza; 600 giornalisti accorsero da tutto il mondo per documentare quello che stava accadendo nella città sicula; 475 persone rinviate a giudizio; 900 tra testimoni e parti lese; 200 avvocati difensori.

Il maxiprocesso, indiscutibilmente, è una delle vicende giudiziarie più importanti del nostro Paese; per la prima volta venne data attuazione concreta alla struttura normativa della legge Rognoni- La Torre10( l. 13 settembre 1982, n. 646) che introdusse il delitto

di “associazione di tipo mafioso” ex art. 416-bis c.p..

“Tuttavia il nuovo complesso normativo, compreso il fondamentale art. 416-bis c.p., con la individuazione del metodo mafioso, non sarebbe stato in grado di produrre risultati significativi, senza l’apporto decisivo di un gruppo di uomini che decisero di adottare modalità di lavoro e di condivisione che si dimostrò rivoluzionario per l’epoca, perché capace di superare la

9 V. GERACI, Il maxiprocesso alla mafia tra mutazioni criminali e innovazioni giudiziarie, in Fenomenologia del maxiprocesso: venti anni di esperienze, a cura di G. TINEBRA, R. ALFONSO, A. CENTONZE, Giuffrè, Milano, 2011, p. 39.

10 Si veda, S. MAZZENZANA, Il maxiprocesso di Palermo, in Riv. di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata., 2016, p. 117.

frammentarietà dell’azione di contrasto alle cosche”11.

L’inchiesta palermitana prese le mosse dal lavoro di gruppo condotto dal pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, istituito dal successore di Rocco Chinnici (barbaramente ucciso da Cosa Nostra il 29 luglio del 1983), Antonino Caponnetto. La squadra di magistrati poté contare sull’apporto professionale di illustri figure come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello che già negli anni passati avevano maturato esperienze e conoscenze specifiche sul crimine mafioso, conducendo le indagini sui più efferati delitti consumati per mano di “Cosa Nostra”.

La strategia adottata era già stata rodata nella lotta al terrorismo politico, il capo dell’ufficio trattenne la titolarità del fascicolo delle indagini delegando al contempo i colleghi nel disbrigo delle investigazioni, operando una sintesi perfetta tra direzione delle indagini prima e formulazione dei capi di imputazione successivamente12.

Quel pool affiatato di magistrati riuscì a restituire credibilità allo Stato sempre più indebolito dall’eversione mafiosa, adottando una strategia fondata su quattro linee guida; la circolazione delle

11 L. FRIGERIO, 30 anni dopo, la lezione del maxiprocesso di Palermo, in liberainformazione, 10 febbraio 2016, www.liberainformazione.org.

informazioni, per evitare che il venir meno di uno di loro potesse arrestare le indagini e far disperdere preziose conoscenze; la rinuncia all’individualità per esaltare piuttosto il lavoro di gruppo, seppur il giudice istruttore si caratterizzava per essere un giudice perfettamente monocratico; il gruppo di lavoro incentrato sulla condivisione del sapere doveva costituire il perimetro esterno, per evitare che fughe di notizie potessero pregiudicare l’efficacia delle investigazioni.

Il lavoro del pool dell’ufficio istruzione di Palermo risultò efficiente, un’organizzazione nel suo complesso venne portata a rispondere di fronte alla giustizia e le condanne inflitte furono pesantissime13.

Come in tutti i maxiprocessi, anche in quello siculo, rivestirono un ruolo di primordine le dichiarazioni dei pentiti; la platea era eterogenea, da semplici “soldati” (soggetti che si collocano nel gradino più basso nella gerarchia dell’organizzazione), si passava a esponenti che avevano rivestito un ruolo dirigenziale nel sodalizio mafioso, uomini che in ragione della posizione ricoperta disponevano di un bagaglio di conoscenze altamente dettagliate, uomini che avevano preso parte alle decisioni di vita o di morte,

13 Sull’operatività del pool si veda, L. FRIGERIO, 30 anni dopo, la lezione del maxiprocesso di Palermo, cit.

uomini che detenevano le chiavi del “forziere” denominato “Cosa Nostra”.

Nel procedimento acquisirono fondatezza le dichiarazioni di Leonardo Vitale14, Giuseppe Di Cristina15, Salvatore Contorno e

Tommaso Buscetta. I primi due non parteciparono fisicamente al procedimento, poiché, qualche anno prima del suo inizio vennero barbaramente assassinati dalla stessa organizzazione di cui facevano parte, ma le loro propalazioni trovarono riscontri nelle dichiarazioni di Contorno e in particolare di Buscetta, che nel “teatro” del dibattimento puntarono il dito nei confronti dei sodali,

14 Leonardo Vitale, un modesto “uomo d’onore” fu il primo collaboratore di giustizia tra le fila della mafia siciliana; costui a causa di una crisi di coscienza per i delitti commessi, si era rifugiato nella fede in Dio. Ravvedendosi, nel 1973, aveva deposto alla Squadra Mobile di Palermo quanto egli sapesse sull’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, autoaccusandosi di plurimi omicidi commessi in correità con numerosi personaggi. Le confessioni del Vitale sortivano un esito sconfortante: gran parte delle persone accusate venivano prosciolte, mentre il Vitale stesso, dichiarato seminfermo di mente, era pressoché l’unico ad essere condannato (e dopo pochi mesi dalla scarcerazione nel 1984, veniva freddato all’uscita dalla messa domenicale). Come ricordato da S. MAZZENZANA, Il maxiprocesso di Palermo, cit., p. 120 ss. Paradossalmente gli unici a conoscere l’attendibilità delle dichiarazioni di Leonardo Vitale erano gli stessi mafiosi, che pur usciti indenni dalla vicenda giudiziaria, a causa dello scetticismo riservato alle sue dichiarazioni da parte dell’autorità giudiziaria del tempo, decisero di ucciderlo. L’omicidio di Vitale aveva un evidente significato di principio, essendo stato compiuto sul nascere un fenomeno (quello del pentitismo), che avrebbe messo in discussione la credibilità e la stessa sopravvivenza dell’organizzazione. Così facendo, Cosa Nostra, non poteva saper che quell’omicidio aveva impresso il crisma dell’attendibilità di Leonardo Vitale e di qualsiasi pentito che sarebbe arrivato dopo di lui. Su questo aspetto si veda, R. ALFONSO, Il fenomeno del «pentitismo» e il maxiprocesso, op. cit., p. 8.

15 Giuseppe Di Cristina, diversamente da Vitale, era a capo della famiglia di Riesi e rivestiva un ruolo di primo piano all’interno dell’organizzazione mafiosa. Nel 1978, il boss di Riesi decise di collaborare con le autorità inquirenti sentendosi braccato dal fuoco dei corleonesi, raccontando ai Carabinieri il ruolo svolto da quest’ultimi all’interno di “Cosa Nostra”. Nella vana speranza che l’intervento tempestivo da parte degli organi statali potesse proteggerlo, il 30 maggio 1978, a “Passo di Rigano”, Di Cristina venne ucciso. Sul punto ampiamente, S. MAZZENZANA, Il maxiprocesso di Palermo, cit., p. 131-132.

alcuni dei quali, si trovavano ad ascoltare dietro le sbarre che percorrevano, quasi interamente, il perimetro dell’aula bunker. La “punta di diamante” di cui disponeva l’accusa, indiscutibilmente, fu Tommaso Buscetta; il “boss dei due mondi”16, nel luglio 1984 sbarcò in Italia, estradato dal Brasile

dopo un lungo iter procedurale. Buscetta rivestì un ruolo verticistico all’interno del sodalizio mafioso siciliano, egli decise di collaborare con la giustizia perché ormai si trovava isolato all’interno di “Cosa Nostra” e braccato dall’ala più feroce all’interno dell’organizzazione (quella dei corleonesi), che per stanarlo gli fece terra bruciata attorno, uccidendogli numerosi congiunti. La decisione di riporre il destino nelle mani della giustizia, confessando tutto il suo sapere, era anche l’unico modo per consumare la propria vendetta, e maturò la scelta, in un momento in cui lo Stato mostrava con i fatti la volontà di perseguire i crimini mafiosi. Fu la prima volta in cui un mafioso di primo rango affidava la propria ritorsione all’azione dello Stato, mettendo al riparo la propria vita; pertanto, Buscetta non si riconosceva più in quell’organizzazione, non aveva più senso mantenere fede alla legge dell’omertà17.

16 Così denominato per il suo trascorso in Brasile.

17 Sul tema Buscetta, S. MAZZENZANA, Il maxiprocesso di Palermo, cit., p. 153- 154.

Le parole di Buscetta accesero la luce su un mondo fino ad allora conosciuto in parte, deponendo il suo sapere su quella macchina omicida che ormai da decenni seminava terrore in Sicilia, offrendo una chiave di lettura ai fatti di mafia.

Il collaboratore descrisse agli inquirenti, in particolar modo a Giovanni Falcone, gli “architravi” di quella “struttura” denominata “Cosa Nostra”; parlò di un’associazione disciplinata da regole rigide tramandate oralmente che ne regolano l’organizzazione e il funzionamento. Una struttura verticistica, le cui fondamenta sono costituite dalle “famiglie” (circoscrizioni territoriali che controlla una zona della città o un intero quartiere da cui prende il nome), proiettandosi verso l’apice dove vi è la “commissione” o “cupola”, organo collegiale composto dai rappresentati delle famiglie, avente la funzione di coordinare la loro attività ricoprendo una zona d’azione coincidente con l’ambito provinciale18.

Buscetta, attraverso le sue propalazioni, mise a nudo l’organigramma, per certi versi “democratico”, di quello “Stato” che ormai da decenni conviveva infiltrato nel tessuto sociale siciliano, facendo notare la sua presenza ogni qualvolta la “lancia” della giustizia tentava di scagliarsi contro. Ma ancor più importanti

18 Per ulteriori approfondimenti sul punto, S. MAZZENZANA, Il maxiprocesso di Palermo, cit., p. 155 ss.

le sue dichiarazioni risultarono dal punto di vista processuale; per la precisione, chiarezza e la presenza di riscontri esterni, anche in quei risultati già acquisiti dagli inquirenti, la narrazione del pentito venne valutata attendibile sulla base dei canoni dettati dalla giurisprudenza, ormai consolidata, in materia di chiamata di correo19.

Fatta questa lunga, ma doverosa, serie di premesse, è opportuno dipanare la matassa del lungo procedimento giudiziario che prese piede quel 10 febbraio di trentatré anni fa. Il luogo di celebrazione doveva essere Palermo – in ossequio alla volontà del giudice Falcone – perché si voleva dare la dimostrazione di uno Stato presente, che attraverso l’arma della giustizia avrebbe sfatato l’invincibilità della mafia siciliana20. Esigenze di sicurezza e

dimensionali resero necessaria la costruzione di un edificio ad hoc; l’aula bunker, giornalisticamente appellata “astronave verde”, a causa delle sue dimensioni geometriche e del colore dell’arredamento, venne edificata in prossimità del carcere dell’Ucciardone per evitare la paralisi della città che sarebbe derivata per i vari blocchi stradali, resi necessari per il quotidiano

19 Spunto preso da, R. ALFONSO, Il fenomeno del «pentitismo» e il maxiprocesso, op. cit., p. 10.

20 Sul tema vedi, L. FERRARO, La gestione e la conduzione del maxiprocesso sotto il profilo organizzativo: aule giudiziarie, personale, strutture e mezzi in generale, in Fenomenologia del maxiprocesso: venti anni di esperienze, a cura di G. TINEBRA, R. ALFONSO, A. CENTONZE, Giuffrè, 2011, p. 54.

trasporti dei detenuti. La realizzazione avvenne in tempi record, bastarono dieci mesi dall’approvazione del progetto di massima e dall’individuazione dell’impresa incaricata, e fu consegnata il 31 dicembre del 1985, circa un mese prima dall’“apertura delle danze”21.

Il dibattimento rappresentò la fase dove si mostrarono con forte evidenza le difficoltà nella gestione di un procedimento di tali dimensioni condotto contro il terrore mafioso. Non fu affatto agevole comporre l’assise chiamata a pronunciarsi sui 438 capi di imputazione, mossi nei confronti dei 475 imputati. Il presidente della corte, Alfonso Giordano, che faceva parte della sezione civile, accettò l’incarico dopo i plurimi rifiuti da parte di altri giudici del tribunale di Palermo; in gioco c’era la vita, si necessitava di una cospicua dose di coraggio. Il ruolo di giudice a

21 Sul tema si veda, L. FERRARO, La gestione e la conduzione del maxiprocesso sotto il profilo organizzativo: aule giudiziarie, personale, strutture e mezzi in generale, op. cit., p. 55-56. L’aula doveva contenere un numero enorme di imputati, di cui 273 detenuti, era necessario non prevedere solo le gabbie, ma anche le stanze-cella per i periodi in cui i detenuti non erano in aula ma non potevano ancora rientrare all’Ucciardone. Si doveva predisporre i posti in aula per gli imputati non detenuti, per i loro difensori, considerando anche il diritto degli imputati di averne due. Si doveva riservare un’area per le parti civili. Ovviamente i banchi per i difensori delle parti civili. La Corte aveva necessità di tenere riunioni continue e complesse anche per lo studio degli atti. Il periodo per la pronuncia della sentenza si prevedeva lungo. Era indispensabile, quindi, attrezzare un posto di ristoro, una sala da pranzo, un numero adeguato di stanze letto. la cancelleria aveva bisogno di spazzi adeguati per custodire la gran mole di atti, per ospitare le attrezzature necessarie. Vi erano le esigenze dei familiari, delle forze di polizia, della stampa. Un’indiscrezione apparsa sui giornali parlava di un possibile attentato; dei sacchi impermeabili contenenti tritolo potevano essere fatti risalire dal mare e attraverso il sistema fognario raggiungere le fondamenta dell’aula. Per evitare questa evenienza, vennero installate nelle fogne delle griglie sufficientemente larghe per permettere il defluire del liquame, ma che al contempo, dovevano ostacolare il passaggio di oggetti solidi.

latere fu ricoperto da Pietro Grasso, l’accusa era sostenuta da due pubblici ministeri, Giuseppe Ayala e Domenico Signorino e per evitare inconvenienti di sorta, che avrebbero arrestato l’ordinario sviluppo del dibattimento, ogni membro togato e laico del collegio, compresi i rappresentati dell’accusa, disponevano di sostituti. Ma il problema dei problemi era sostanzialmente uno, il tempo.