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Quello slogan, riportato nella relazione di accompagnamento al progetto preliminare del nuovo Codice di rito, dove si affermava “si alle maxiindagini no, ai maxidibattimenti”, volle ribadire la ferma volontà legislativa di mettere un punto sulla storia del gigantismo processuale che aveva caratterizzato la lotta alla criminalità di massa durante la vigenza del Codice abrogato. Tutti quei buoni propositi del legislatore delegato di garantire

120 Sul punto, v. M. PITTIRUTI, Illusione accusatoria e difficile gestione dei processi cumulativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 684.

procedimenti ispirati a canoni di semplicità e speditezza processuale, riposavano in un’attività investigativa più ampia e incisiva, attraverso quel coordinamento spontaneo così come disciplinato dall’art. 371 c.p.p., che avrebbe dovuto costituire il presupposto indispensabile per lo sfoltimento della sede dibattimentale, “unitamente a specifici correttivi in materia di connessione, riunione e separazione”121.

Ma la realtà dimostrerà che il legislatore si era illuso che bastasse un “tratto di penna” per estirpare in radice dalle aule giudiziarie la tipologia del gigantismo processuale122.

La veste accusatoria del nuovo rito non ha arrestato il proliferare dei maxiprocessi, con la necessaria precisazione che, nonostante le aule giudiziarie siano gravate da processi cumulativi di dimensioni irragionevoli, si è riusciti comunque a spegnere quei “ciclopi” che avevano caratterizzato l’ultima stagione del Codice Rocco, anche se permane incertezza se ciò sia stato dovuto alla bontà delle nuove norme, o a una mutata sensibilità giudiziaria nel condurre la lotta al crimine mafioso.

Sicuramente la connessione, benché ridimensionata, poteva ancora veder ridotto il proprio tessuto connettivo, così come la

121 M. PITTIRUTI, Illusione accusatoria e difficile gestione dei processi cumulativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 679.

separazione dei processi dimostrò nella prassi giudiziaria un utilizzo diretto piuttosto a evitare che nullità o impedimenti riguardanti qualche imputato o difensore comportassero rallentamenti alla celebrazione del processo (lett. c) e d) art. 18 comma 1, c.p.p.), anziché rispondere a quel favor separationis ispiratore dell’istituto e più ampiamente del nuovo rito123.

Se gli istituti della connessione, riunione e separazione non hanno rispettato le aspettative, forse ad essi non è possibile ricondurre interamente la colpa del cumulo processuale; o meglio, il loro contributo causale è da considerare in termini piuttosto ridotti, dal momento che l’indagine coinvolge anche fattori esterni al processo, come il canone di obbligatorietà dell’azione penale124 ed

esigenze di accertamento unitario di fattispecie altamente complesse come quelle associative, (la cui mera appartenenza è fonte di incriminazione).

La convergenza di tali fattori è tale da assegnare al pubblico ministero “le chiavi” di un formidabile esercizio dell’azione

123 Con riferimento alle ragioni del fallimento del Codice del 1988 di porre fine ai maxiprocessi, su tutti i punti, v. M. PITTIRUTI, Illusione accusatoria e difficile gestione dei processi cumulativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 679- 680.

124 Realtà giuridiche diverse dalla nostra, come quella degli Stati Uniti d’America, non prive di organizzazioni criminali che contano un ampio numero di affiliati, hanno mostrato che l’assenza di obbligo di esercizio dell’azione penale in capo alla pubblica accusa e di reati associativi che incriminano la mera appartenenza, sia la scelta vincente per avere processi con ridotto numero di imputati. G. FALCONE, Condizioni e limiti all’efficacia dell’azione giudiziaria nella repressione del fenomeno mafioso, op. cit., p. 23.

penale: la pubblica accusa, sulla base di scelte meramente utilitaristiche, ha la possibilità di scegliere un esercizio più o meno unitario di tale azione125.

La scelta dell’unitarietà trapelava da quell’esigenza che, avendo la parte pubblica “capito guardando l’insieme, cercava di evitare che altri [il giudice del dibattimento] non capisse guardando il solo spezzone”126.

Il pubblico ministero, ricoprendo l’arduo ruolo di dimostrare al giudice in dibattimento – nel contraddittorio delle parti – la fondatezza dell’accusa, è incline a un particolare favor per il cumulo delle regiudicanda, onde evitare spiacevoli inconvenienti, come il rischio di consumazione della prova dichiarativa causata da contraddizioni che divengono maggiormente probabili quando la medesima fonte viene espiata più volte127; ancora, il cumulo

permette di valorizzare “anche elementi di mero sospetto o comunque legami relazionali del tutto equivoci”128, collegamenti

all’interno delle fitte trame delle organizzazioni criminali che la separazione potrebbe rendere del tutto vani o discutibili.

125 Sul tema v. M. PITTIRUTI, Illusione accusatoria e difficile gestione dei processi cumulativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 680.

126 Così E. FASSONE, Vorrei fare il giudice, cit., p.173.

127 Tale evenienza reca pregiudizio all’attendibilità della fonte, v. M. PITTIRUTI, Illusione accusatoria e difficile gestione dei processi cumulativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 681.

128 Così, A. GAMBERINI, Lotta al crimine organizzato e ciclopi processuali. “Riconoscibilità” dell’intervento giudiziario e “praticabilità” della funzione difensiva cit., p. 65.

Insomma, questo tendenziale agire del pubblico ministero trova punti di rottura nel caso vi sia l’esigenza e la possibilità di definire anticipatamente una o più posizioni processuali o una o più imputazioni, talvolta inducendo la difesa ad optare per riti alternativi129.

Che il processo cumulativo a carico della criminalità organizzata fosse qualcosa di non superato, ma ancora presente sotto l’egida del Codice di procedura penale del 1988, trova conferma anche il quelle modifiche normative definibili gestorie del processo cumulativo, che si pongono in controtendenza a quel vento di cambiamento garantista che il legislatore delegato intendeva portare con il nuovo asseto codicistico.

In questo quadro si colloca una nuova ipotesi di separazione nell’art. 18 comma 1, c.p.p. (lett. e) bis)130, quando “uno o più

imputati dei reati previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), è prossimo ad essere rimesso in libertà per scadenza dei termini per la mancanza di altri titoli di detenzione”. In questa accezione l’istituto perde quel favor separationis che l’aveva ispirato, declinando piuttosto nell’esigenza di evitare scarcerazioni per

129 Vedi, M. PITTIRUTI, Illusione accusatoria e difficile gestione dei processi cumulativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 680.

130 Aggiunta operata dall’art. 1 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito con l. 19 gennaio 2001, n. 4.

decorrenza dei termini di custodia cautelare; pericolo peraltro caratteristico del processo di vaste dimensioni, e tale da rende percepibile il rischio che la dilatazione dei tempi giochi a favore degli imputati con alta probabilità che le “condanne siano inflitte a gabbie vuote”131.

Secondo questa filosofia gestionale devono essere lette anche quelle norme dirette a sospendere i termini di custodia cautelate. L’art. 304 comma 2, c.p.p.132, dispone che nei procedimenti per

reati ex art. 407 comma 2, lett. a) c.p.p., i termini massimi custodiali dell’art. 303 c.p.p. restano sospesi quando sono tenute le udienze e quando viene deliberata la sentenza nel giudizio di primo grado o nei giudizi di impugnazione, qualora il dibattimento o il giudizio abbreviato presenti particolare complessità. Anche qua, è palesemente chiaro l’intento di evitare scarcerazioni automatiche a seguito della decorrenza dei termini di custodia cautelare.

Se pensiamo che poi vige una presunzione assoluta di custodia cautelare per i membri del sodalizio criminale, così come previsto congiuntamente dagli artt. 275 comma 3, e 299 comma 2, c.p.p.,

131 V. GERACI, Il maxiprocesso alla mafia tra mutazioni criminali e innovazioni giudiziarie, op. cit., p. 39.

132 Il testo dell’art. 304, comma 2, c.p.p. è il risultato delle modifiche operate dal d.l. 7 aprile 2000, n. 82, convertito con modificazioni dlla l. 5 giugno 2000, n. 144.

ne risulta che il maxiprocesso, nel nuovo Codice, pur sempre miete fra le proprie vittime diritti dell’imputato, che in questo caso paga un costo in termini di libertà maggiori133 rispetto ad imputati per

reati diversi da quelli enumerati all’art. 275 comma 3, c.p.p., o pur sempre per reati di criminalità organizzata che però vantino di un processo normale in termini di dimensioni.134

Se il maxiprocesso è sopravvissuto allo spirito accusatorio del nuovo Codice, l’indagine ora si sposta sulla conformità del processo cumulativo ai principi del giusto processo così come accolti all’art. 111 della Costituzione135.

Come si evince già dal primo comma contenete una riserva di legge in materia processuale, i canoni del giusto processo sono deputati a fungere da guida in ogni attività riformatrice operata dal legislatore.

La nuova veste normativa dell’art. 111 della Costituzione, non poteva non richiedere, alcune rivisitazioni al processo a carico di molteplici imputati in modo da renderlo conforme ai nuovi canoni costituzionalmente imposti; ora se il legislatore ci sia riuscito è un discorso diverso, certo che, l’intervento muoveva in questa

133 Si veda, A. GALATI, La degenerazione del maxiprocesso, cit., p. 143.

134 Sul tema della separazione e delle misure cautelari, su tutti i punti, si veda, M. PITTIRUTI, Illusione accusatoria e difficile gestione dei processi cumulativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 684-685.

135 Art. così riformato dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2., che ha inserito cinque nuovi commi.

direzione, e ha riguardato gli istituti tipici del cumulo processuale. Con la l. n. 63, del 1 marzo 2001, il legislatore ha cercato di ripristinare quei caratteri accusatori, che nei primi anni novanta, sulla base di spinte emergenziali, erano stati travolti da quell’opera riformatrice da molti appellata come riemersione del rito inquisitorio.

La legge in esame ha modificato l’art. 12 lett. c) c.p.p., espuntando le ipotesi di connessione occasionale e consequenziale, che attribuivano al giudice margini di discrezione nell’operatività dell’istituto. La modifica, peraltro, non deve essere considerata come un ritorno alle origini, dato che sono mantenuti nell’attuale formulazione dell’art. 12 c.p.p., quegli innesti operati dal d.l. 367 del 1991136.

Inoltre, si deve osservare che, quanto sottratto all’operatività della connessione viene ricompreso nell’art. 371 c.p.p. comportando un ampliamento delle ipotesi di collegamento di indagini tra uffici del pubblico ministero; questa scelta rinnega la volontà del legislatore di ridimensionare il cumulo processuale, se consideriamo che l’art. 17 c.p.p. (così come novellato dalla l. n. 63 del 2001) richiama, tra i presupposti necessari per la riunione dei processi, i citati artt. 12

136 Sul tema della connessione, v. M. PITTIRUTI, Attuazione del giusto processo e micro-ritocchi normativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 686-687.

e 371 comma 2 lett. b) del Codice di procedura penale.

Quindi una scelta discutibile, che diviene altrettanto criticabile se osserviamo come la l. 63 del 2001 abbia sostituito la causa ostativa del “pregiudizio alla rapida definizione degli stessi”, con la previsione di un “ritardo nella definizione delle stessi”. Il legislatore operando questa novella intendeva ridimensionare l’operatività della riunione richiamando un semplice ritardo, ma questa causa ostativa, così interpretata, rende del tutto inoperante l’istituto dal momento che ogni riunione comporta pur sempre un rallentamento dei tempi processuali. Quindi, onde evitare una interpretatio abrogans, questo “ritardo” deve considerarsi come “pregiudizievole” alla definizione dei procedimenti da riunire, e così facendo, rivive il criterio abrogato137.

Queste considerazioni dimostrano come la novella dell’art. 17 c.p.p., non abbia assecondato le finalità deflattive del cumulo processuale perseguite dal legislatore, rimanendo il provvedimento di riunione nella più ampia discrezionalità del giudice, così come lo era prima della riforma del 2001.

L’istituto della separazione, diversamente, non è stato oggetto di modifiche e continua a considerarsi un atto solo tendenzialmente

137 V. M. PITTIRUTI, Attuazione del giusto processo e micro-ritocchi normativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 687.

obbligatorio, permanendo in capo al giudice, una volta avveratesi i presupposti di cui all’art. 18 c.p.p., il bilanciamento tra contrapposte esigenze di speditezza processuale e di necessaria valutazione unitaria della regiudicanda cumulativa.

Se così stanno le cose, il giudice ha un margine di discrezione circa l’operatività degli istituti della riunione e separazione, ne l’art. 19 c.p.p. appare risolutivo nel prevedere che: riunione e la separazione deve essere disposta “sentite le parti”; se poi consideriamo l’orientamento giurisprudenziale sul punto, il presupposto si ritiene integrato attraverso la mera informazione delle parti processuali del provvedimento che il giudice intende adottare138. A ciò si aggiunga, in ossequio al principio di

tassatività, l’impossibilità di comminare nullità dei provvedimenti in esame, così come l’impossibilità di esperire mezzi di impugnazione, e il risultato evidenzia la collocazione dell’imputato in una situazione di inerzia e di soggezione alla voluntas iudicis139.

Se connessione, riunione e separazione, così come aggiornate, non consentono una rottura della regiudicanda cumulativa, nell’attuale ordinamento processuale penale, forse, gli unici strumenti per

138 Cfr. Cass., sez. VI, 20 aprile 1995, Aglieri, in Mass. Uff. 233093.

139 V. Cass., sez. III, 11 febbraio 1993, Pittori, in Cass. pen., 1994, p. 2715; Cass., sez. I, 3 luglio 1996, Moccia, in Cass. pen., 1998, p. 604.

arginare il proliferare dei maxidibattimenti possono essere rinvenuti nei procedimenti speciali140 a causa della separazione

“automatica” che essi comportano141.

I riti speciali possono costituire quell’“antidoto” assente nel Codice del 1930, sotto la cui vigenza le maxiistruttorie si veicolavano in un canale vincolato, sfociando nel maxidibattimento. Ora la previsione nel tessuto normativo, di riti alternativi a quello ordinario, permette di percorrere corsie parallele evitando un’inesorabile consequenzialità tra maxi indagini e giudizio cumulativo.

Considerazioni devono essere fatte in merito al rito abbreviato che prevede la definizione, in udienza preliminare, della posizione di uno o più imputati o per una o più imputazioni. Rito particolarmente divenuto appetibile da un gran numero di imputati di criminalità organizzata, a seguito della riforma operata dalla legge Carotti (l. n. 479 del 16 dicembre 1999), che ha epurato l’istituto del consenso necessario della pubblica accusa142.

Discorso analogo deve essere fatto per il giudizio immediato “cautelare”, così come previsto all’art. 453 comma 1-bis c.p.p.,

140 Sul tema, cfr. F. GIUNCHEDI, La tutela dei diritti umani nel processo penale, Padova, 2007, p. 101 ss.

141 Vedi, L. MARAFIOTI, La separazione dei giudizi penali, cit., p. 330 ss.

142 Sul tema, M. PITTIRUTI, Attuazione del giusto processo e micro-ritocchi normativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 689-690.

adottato dal pubblico ministero in un’ottica di speditezza processuale, per scongiurare il rischio di rimessioni in libertà per decorso dei termini massimi di custodia cautelare, ma che al contempo, permette una scrematura del numero di imputati e imputazioni143.

Se i riti speciali permettono una scomposizione del cumulo di imputati e imputazioni, è anche vero che, l’opzione gravita attorno a scelte operate dalla parte in conformità a propri interessi, e rimettere a tali scelte la funzionalità del sistema, ne connota una certa precarietà144.

Assodato il fatto che i procedimenti in materia di criminalità organizzata comportano dibattimenti con plurimi imputati, accertamenti di particolare complessità, oltre a difficoltà nella gestione della sicurezza, un istituto non risolutivo del cumulo processuale, così come non lo sono i riti speciali, ma che può comportare benefici ai problemi gestori di tali procedimenti, deve essere rinvenuto nella partecipazione a distanza al giudizio ex art. 146-bis disp. att. c.p.p..

L’articolo in esame è frutto della recente riforma operata dalla l.

143 Si veda, M. PITTIRUTI, Attuazione del giusto processo e micro-ritocchi normativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 690.

144 Sul punto si veda, M. PITTIRUTI, Attuazione del giusto processo e micro-ritocchi normativi in Maxiprocesso e processo “giusto”, op. cit., p. 690.

23 giugno 2017 n. 103 (legge Orlando) che ha ampliato i casi di operatività dell’istituto, facendo leva su una miglior fruizione, anche in termini economici, degli strumenti tecnologici che permettono di instaurare un collegamento audiovisivo tra postazione remota e aula di udienza.

La disciplina attuale permette di scindere due tipologie di partecipazione a distanza, una prima definibile “discrezionale”, e la seconda “obbligatoria”. Le ipotesi di partecipazione a distanza discrezionali, sono rimesse a una valutazione operata dal giudice che deve pronunciarsi con decreto motivato; peraltro, già presenti nella disciplina previgente, oggi trovano la propria ancora nel neonato comma 1-quater dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p., che richiama “ragioni di sicurezza”, ragioni di efficienza dovute a “dibattimenti di particolare complessità”, o ancora, quando “sia necessario evitare ritardi nel suo svolgimento”, senza che rilevi, diversamente al passato, il titolo di reato che viene contestato, e indipendentemente dallo status libertatis o detentionis dell’imputato145.

Le ipotesi obbligatorie di partecipazione a distanza al giudizio

145 Sulle tipologie di partecipazione a distanza, e segnatamente sulle ipotesi discrezionali, si v. ampliamente, M. DANIELE, La partecipazione a distanza allargata. Superfetazioni e squilibri del nuovo art. 146-bis disp. att. c.p.p., in Riv. Diritto Penale Contemporaneo, 14 dicembre 2017, p. 2.

sono disciplinate ai così riformulati commi 1 e 1-bis dell’articolo in esame, e si riconnettono al titolo di reato contestato, a prescindere dallo stato detentivo dell’imputato, facendo richiamo ai delitti ex artt. 51 comma 3-bis, e art 407 comma 2, lett a) n. 4 c.p.p.; inoltre, la partecipazione a distanza è qualificata come obbligatoria, indipendentemente dal titolo di reato, ogni qualvolta la persona è ammessa a programmi o misure di protezione, comprese quelle di tipo urgente o provvisorio.

In queste ipotesi, la decisione del giudice è esentata da specifiche formalità, residuando in capo all’organo un mero obbligo di comunicazione “alle autorità competenti nonché alle parti e ai difensori” di avvalersi dello strumento della videoconferenza. Ma l’art. 146-bis disp. att. c.p.p., come attentamente osservabile al comma 1-ter, permette al giudice di disporre quando lo ritenga “necessario” e con decreto motivato, anche su istanza di parte, la presenza fisica alle udienze per quelle persone la cui partecipazione a distanza viene qualificata come obbligatoria, con l’unica eccezione rinvenibile nel caso in cui sia applicato il regime detentivo ex art. 41-bis ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354).

Quindi, anche le ipotesi obbligatorie sono defettibili, essendo imposto al giudice una valutazione da operarsi ex officio, o su

istanza di parte, circa la necessaria presenza in aula dell’imputato o della persona sottoposta a misure sicurezza. Ora dubbi esegetici muovono attorno alla formula adottata dal legislatore, che fa riferimento alla presenza qualificata come “necessaria”; e questo presupposto si ritenere integrato, non già quando non vi siano strumenti tali da “assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi i luoghi e la possibilità di udire quanto viene detto”, (come richiede il comma 3, dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p.), ma in particolare, quando non vi siano pericoli per la sicurezza o l’efficienza, così come previsto al comma 1-quater dell’articolo, facendo concludere per qualificare come discrezionali anche le ipotesi obbligatorie, fatto salvo per l’unica eccezione insindacabile del regime detentivo ex art. 41-bis ordinamento penitenziario146.

Rinvenire nel “pericolo alla sicurezza” una causa ostativa “alla necessaria” partecipazione fisica all’udienza, per tutelare beni primari come la il diritto alla vita suscettibile di assoluta protezione ex art. 2 CEDU, e inderogabile ex art. 15 CEDU147,

necessiterebbe di individuare rispetto al caso concreto, elementi

146 Cfr. M. DANIELE, La partecipazione a distanza allargata. Superfetazioni e squilibri del nuovo art. 146-bis disp. att. c.p.p., cit., p. 3-4.

147 Cfr. S. ZIRULIA, Diritto alla vita, in Corte di Strasburgo e giustizia penale, a cura di G. UBERTIS-F. VIGANÒ, Giappichelli, 2016, p. 58.

tali da poter dimostrare che la presenza in aula dell’imputato possa essere per lui pericolosa, o lo possa essere per le altre persone, intimidite o minacciate dall’imputato stesso oppure, ancora, che la presenza dell’imputato possa essere fonte di illeciti penali, si pensi ad es. ai processi di mafia dove l’imputato possa interloquire con i propri correi.

Quindi, se così stanno le cose, nei procedimenti in materia di criminalità organizzata le esigenze di sicurezza renderebbero del tutto remota la possibilità di presenza in aula degli imputati, anche perché, la maggior parte vedono ristretta la propria libertà in regime di “41-bis”, e l’art. 146-bis disp. att. c.p.p. non permette, in questo caso specifico, di operare valutazioni empiriche, facendo leva su una sorta di presunzione legale assoluta di pericolo alla sicurezza.

La l. n. 103 del 23 giugno 2017, così facendo, ha allontanato dalle aule di udienza tutti gli imputati a cui sono stati contestati quei reati di particolare allarme sociale a cui fa riferimento il comma 1, dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p., anche nel caso – come precisa l’ultimo inciso del comma in esame – siano sentiti come testimoni in qualsiasi udienza civile o penale148.

148 Con la necessaria considerazione, che quella che nella previgente versione della norma era una possibilità, ora invece è un obbligo imposto al giudice di acquisire, mediante videoconferenza, la testimonianza di persona detenuta presso un istituto

Non è difficile comprendere come l’istituto presentava, e oggi presenta ancor di più, criticità che appaiono insuperabili.

L’uso di strumentazioni tecnologicamente avanzate per le videoconferenze (alta definizione delle immagini, tridimensionalià e perfetto sincronismo tra suoni e immagini), non sono prive di ricadute sul diritto di difesa149, poiché, come dimostrerà la prassi,

la mancata partecipazione fisica dell’imputato al giudizio impedisce ad esso di interagire con la scena processuale e di interloquire con il proprio difensore150.

Ne l’opzione per il difensore di rimanere presso la postazione remota deve considerarsi una scelta risolutiva, dato che si vede ridotto il raggio d’azione del medesimo, e la designazione di un