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Il cervello e la parola scritta Intervista di Gareth Cook

Stanislas Dehaene è il titolare della cattedra di Psicologia cognitiva sperimentale al Collège de France, ed è anche il direttore dell’INSERM-CEA Unità di neuroimaging cognitivo di NeuroSpin, il centro di ricerca di neuroimaging più avanzato della Francia. Dehaene è conosciuto soprattutto per la sua ricerca sui fondamenti dei numeri, resa nota nel suo libro The number sense: how the mind creates mathematics (Oxford University Press, 1999). In un altro suo libro, Reading in the brain: the science and evolution of a human invention (Viking Adult, 2009), descrive la sua ricerca per capire un’abilità sorprendente che molti di noi danno per scontata: tradurre segni su una pagina (o su uno schermo) in linguaggio. Il curatore di Mind Matters, Gareth Cook, ha recentemente parlato con Dehaene di come l'arte della lettura riveli il rapporto fondamentale tra le nostre scoperte culturali e il nostro cervello evoluto.

GARETH COOK: Come ti sei interessato alla neuroscienza della lettura?

STANISLAS DEHAENE: Uno dei miei primi interessi riguarda il modo in cui il cervello umano è cambiato con l’istruzione e la cultura. Imparare a leggere sembra uno dei cambiamenti più importanti che imponiamo al cervello dei nostri figli. L’impatto che ha su di noi è allettante. La lettura solleva questioni davvero fondamentali su come interagiscono cervello e cultura.

Quando ho iniziato a fare ricerca sperimentale in questo settore, utilizzando i diversi strumenti a mia disposizione (dal comportamento dei pazienti, alla risonanza magnetica funzionale [RMF], ai cambiamenti nell’attività elettrica misurati dall’elettroencefalografia [EEG] fino agli elettrodi intracranici impiantati sotto il cranio), sono stato colpito dal fatto che nel processo della lettura abbiamo trovato coinvolte sempre le stesse aree. Ho cominciato a chiedermi come sia addirittura possibile che il nostro cervello possa adattarsi alla lettura, dato che ovviamente non si è mai sviluppato a tal fine. La ricerca di

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una risposta è emersa in questo libro. Alla fine, la lettura ci costringe a proporre una visione molto diversa del rapporto tra cultura e cervello.

COOK: Cosa ha di diverso questo nuovo rapporto tra cultura e del cervello rispetto ai punti di vista più tradizionali?

DEHAENE: Un classico, anche se spesso implicito, punto di vista nelle scienze sociali è che il cervello umano, a differenza di quello degli altri animali, è una macchina di apprendimento che può adattarsi sostanzialmente a qualsiasi compito culturale, seppure complesso. Se quest’idea risulta corretta, noi esseri umani saremmo liberati dai nostri istinti passati e liberi di inventare forme culturali completamente nuove.

Ciò che propongo è che il cervello umano sia un organo molto più vincolato di quanto pensiamo e che pone forti limiti alla gamma di possibili forme culturali. In sostanza, il cervello non si è evoluto per la cultura, ma la cultura si è evoluta per essere appresa dal cervello. Attraverso le invenzioni culturali, l’umanità ha cercato costantemente nicchie specifiche nel cervello, ovunque ci sia uno spazio di elasticità che può essere sfruttato per “riciclare” una zona del cervello e proporla per un nuovo uso. La lettura, la matematica, l’uso di strumenti, la musica, i sistemi religiosi: tutti possono essere visti come esempi di riciclaggio corticale.

Naturalmente, questa idea della cultura come un “gioco LEGO” vincolato non è nuova. È profondamente legata alla visione strutturalista dell’antropologia, come esemplificato da Claude Lévi-Strauss, il quale propone che qualsiasi fenomeno culturale può essere compreso in termini di alcune strutture che sono onnipresenti in tutto il mondo. Ciò che propongo è che le strutture universali che si ripetono attraverso le culture – la mitologia, le tradizioni sul matrimonio, la lingua – sono, infatti, in ultima analisi, riconducibili a sistemi cerebrali specifici.

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Nel caso della lettura, le forme dei nostri sistemi di scrittura si sono evolute verso una progressiva semplificazione pur rimanendo compatibili con lo schema di codifica visiva che è presente in tutti i cervelli dei primati. Una scoperta affascinante, fatta dal neuroscienziato americano Marc Changizi del Rensselaer Polytechnic Institute, è che tutti i sistemi di scrittura del mondo utilizzano lo stesso insieme di forme di base. Le registrazioni dei neuroni nei macachi mostrano che parecchie di queste forme sono già una parte del sistema visivo in tutti i primati, perché sono utili, inoltre, per la codifica di scene visive naturali. Il cervello della scimmia contiene, per l’appunto, neuroni che rispondono preferenzialmente a un “alfabeto” di queste forme tra cui T, L e Y. Semplicemente “ricicliamo” queste forme (e la parte corrispondente della corteccia) e li trasformiamo in un codice culturale per il linguaggio.

COOK: Nel suo nuovo libro descrive una parte del cervello chiamandola letterbox (buca delle lettere). Cortesemente, ci può spiegare cosa vuole dire con questa espressione?

DEHAENE: La letterbox, che nella letteratura scientifica è chiamata anche visual word-form area (area preposta al riconoscimento visivo della parola), è il nome che ho dato a una regione del cervello che reagisce sistematicamente ogni volta che leggiamo le parole. Si trova nell’emisfero sinistro, nella parte inferiore, e appartiene alla regione visiva che ci aiuta a riconoscere il nostro ambiente. Questa specifica zona è specializzata per i caratteri scritti e le parole. Ciò che è affascinante è che si trova nella stessa posizione in ognuno di noi. Sia che leggiamo il cinese, l’ebraico o l’inglese, sia che abbiamo appreso con il metodo globale o fonematico, un’unica regione del cervello sembra avere la funzione di riconoscere l’immagine della parola.

COOK: Ma la lettura è un’invenzione relativamente recente, quindi qual era la funzione della letterbox prima dell’avvento della lingua scritta?

DEHAENE: Un’ottima domanda, in realtà non lo sappiamo. L’intera regione in cui è inserita questa zona è coinvolta nel riconoscimento visivo invariabile, ci

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aiuta a riconoscere gli oggetti, i volti e le scene (indipendentemente dal grado di illuminazione o da altre variabili esterne).

Stiamo iniziando a fare esperimenti di brain imaging su persone analfabete, e constatiamo che questa regione, prima di reagire alle parole, ha una preferenza per le immagini di oggetti e volti. Abbiamo anche constatato che questa regione è particolarmente in sintonia con piccole caratteristiche presenti nei contorni delle forme naturali, come la forma a “Y” dei rami degli alberi. La mia ipotesi è che le nostre lettere siano emerse da un riciclo di quelle forme a livello culturale. Il cervello non ha avuto abbastanza tempo di evolvere “per” la lettura, così i sistemi di scrittura si sono evoluti “per” il cervello.

COOK: In che modo le capacità e i limiti del nostro cervello potrebbero fare sviluppare altre attività come la matematica?

DEHAENE: Ho dedicato un intero libro, The number sense, alle intuizioni innate sui numeri e a come si sviluppano le abilità matematiche. In sostanza, dal processo evolutivo ereditiamo solo un senso elementare per i numeri. Lo condividiamo con gli altri animali, e anche i bambini lo possiedono già nei primi mesi di vita. Ma è solo approssimativo e non simbolico, non ci permette di distinguere con precisione 13 oggetti da 14. Eppure, ha dato all’umanità il concetto di numero, e poi abbiamo imparato a espanderlo con simboli culturali come le cifre e contando le parole, ottenendo così un modo più preciso di fare aritmetica.

Possiamo trovare ancora tracce di questo vecchio sistema evolutivo ogni volta che facciamo un’approssimazione, talvolta in modo piuttosto irrazionale, per esempio quando cediamo settecento euro per un appartamento in vendita (perché sembra una piccola percentuale del totale), mentre contrattiamo fino allo stremo per ottenere un tappeto a 30 invece di 40 euro!

La matematica superiore deve essere regolata in modo simile dai nostri strumenti evolutivi. I numeri complessi, per esempio, sono stati considerati

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“immaginari” e impossibili da capire fino a quando un matematico ha constatato che potevano essere descritti intuitivamente su un piano, un concetto facile da afferrare per il cervello.

COOK: Cosa ci dice questa ricerca su come dovrebbe essere insegnata la lettura? E ci dice qualcosa, più in generale, sul modo migliore per dare un’istruzione?

DEHAENE: Entrambi i miei libri, The number sense e Reading in the brain, sottolineano il fatto che i bambini sono più competenti di quanto pensiamo. L’apprendimento non è l’arredamento della mente, come fosse un foglio bianco, come ha detto John Locke. Anche per un’attività nuova come la lettura, non impariamo da zero, ma in minima parte cambiamo i circuiti cerebrali esistenti e sfruttiamo la loro struttura preesistente. Così, gli insegnanti e i metodi di insegnamento dovrebbero prestare maggiore attenzione alla struttura esistente della mente e del cervello del bambino.

Nel caso della lettura, molto concretamente, come spiego nel libro, adesso abbiamo abbondanti prove che il metodo globale – attraverso il quale ai bambini vengono insegnate le parole per intero invece dei grafemi (le lettere) e dei fonemi (i suoni fondamentali come l’inglese “th”) – non ha nulla a che fare con il modo in cui il nostro sistema visivo riconosce le parole scritte. Il nostro cervello non si basa sui contorni delle parole; piuttosto scompone tutte le lettere in parallelo, in modo subliminale e ad alta velocità, dandoci così l’illusione della lettura di tutta la parola. Gli esperimenti suggeriscono, inoltre, che il metodo globale può orientare l’apprendimento verso la regione del cervello sbagliato, una regione nell’emisfero destro, che è simmetrica alla visual word- form area dell’emisfero sinistro, la letterbox.

Abbiamo bisogno di impostare l’insegnamento in base alla migliore scienza del cervello e abbiamo bisogno, inoltre, di sviluppare la ricerca dell’istruzione basata sull’evidenza, utilizzando esperimenti in aula per verificare che le nostre deduzioni, sui metodi di insegnamento, funzionino effettivamente nella pratica.

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La teoria, la sperimentazione sui circuiti cerebrali per la lettura e la ricerca educativa attualmente puntano sulla superiorità dei metodi di insegnamento grafema-fonema.

COOK: Cosa accade nel cervello di un dislessico? Leggono in modo diverso o solo più lentamente?

DEHAENE: Il cervello di un dislessico presenta un circuito disorganizzato nel lobo temporale sinistro. Nella maggior parte dei bambini dislessici, il circuito fonologico dell’emisfero sinistro sembra leggermente disorganizzato, e questo sembra provocare un’incapacità nell’imparare a collegare correttamente il riconoscimento delle lettere con i suoni del linguaggio. Come conseguenza, la loro visual word-form area non si sviluppa completamente, o non alla velocità normale. Continuano a leggere in serie, lettera per lettera o pezzo per pezzo, a un’età in cui la lettura parallela è già ben consolidata nei lettori normali.

Non dovremmo mai dimenticare, però, che c’è una grande eterogeneità nella dislessia, infatti alcuni bambini probabilmente hanno altre difficoltà, legate per esempio all’organizzazione spaziale della parola. Alcuni bambini sembrano confondere sinistra e destra, o non sono in grado di concentrarsi sulle lettere in sequenza da sinistra a destra senza errori, e questo potrebbe essere un’ulteriore causa della dislessia, anche se un po’ meno frequente rispetto al problema fonologico.

COOK: E se il cervello di un dislessico è organizzato in modo diverso, questo ci suggerisce che potrebbe avere altre capacità o la dislessia è semplicemente un handicap?

DEHAENE: La risposta non è completamente nota, ma sono rimasto affascinato da una recente ricerca che denota che i bambini e gli adulti dislessici possono risultare migliori nei compiti di rilevazione della simmetria, hanno una maggiore capacità di notare la presenza di modelli simmetrici. La ricerca

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suggerisce, inoltre, che questa capacità è stata utile in un gruppo di astrofisici per rilevare lo spettro simmetrico dei buchi neri!

La mia idea è che il riconoscimento allo specchio sia una delle funzioni che dobbiamo parzialmente “dimenticare” quando impariamo a leggere; è una caratteristica universale del cervello del primate che, purtroppo, è inadeguata per il nostro alfabeto, dove le lettere p, q, d e b abbondano. In qualche modo, riuscendo a mantenere questa capacità, i dislessici potrebbero avere qualche vantaggio nei compiti visivi, spaziali o addirittura matematici.

Più in generale, stiamo trattando un tema molto interessante, ovvero se il “riciclaggio” culturale delle zone cerebrali ci faccia perdere alcune abilità che un tempo sono state utili per la nostra evoluzione. Il cervello è un sistema finito, quindi anche se esistono benefici infiniti da parte dell’istruzione, ci potrebbero anche essere alcune perdite. Attualmente stiamo facendo degli esperimenti con gli indiani amazzonici, in parte per testare quali siano le loro capacità innate se, in alcuni settori come la geometria e la navigazione spaziale, potrebbero essere migliori di noi.

COOK: Dopo aver fatto questa ricerca, adesso considera la lettura diversamente, o la vive in modo diverso?

DEHAENE: Non proprio. La lettura è diventata così automatica da essere poco percepibile: da lettore esperto, ti concentri sul messaggio e non ti rendi conto dei miracoli che vengono elaborati dal cervello. Mi stupisco sempre, però, quando guardo i bambini decifrare le loro prime parole, l’orgoglio sul loro viso è una testimonianza vivente delle meraviglie della lettura.

Pubblicato nella rivista «Scientific American Mind» 21(2), pag. 62-65 (Marzo/Aprile 2010)

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