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Chiarezza e consapevolezza dei protocolli

rivolto ai Datori di lavoro

2. Chiarezza e consapevolezza dei protocolli

La prima domanda mira a comprendere quanta chiarezza sia stata raggiunta dal Protocollo d’Intesa del Governo con le Parti sociali, pro-mosso in data 14.03.2020 (sottoscritto il 24.04.2020 e incluso nell’alle-gato n. 6 del d.P.C.m. del 26.04.2020) e successivamente aggiornato dal Protocollo del 06.04.2021.

Dai risultati emerge che l’89,3% (167 partecipanti) ritiene “chiaro”

il contenuto dei protocolli e, conseguentemente, le regole anti-contagio da applicare; un 10,7% (20 aziende o organizzazioni di lavoro in senso lato) ha, invece, espresso opinione contraria. Si tratta di un dato senz’al-tro confortevole se considerato alla luce della stratifi cazione normativa e regolamentare che si è avuta soprattutto durante le prime due fasi della pandemia.

disposizioni delle Autorità, consegnando e/o affi ggendo all’ingresso e nei luoghi maggiormente visibili dei locali aziendali, appositi depliants informativi”. Si consideri, peraltro, che la Regione emilia Romagna ha previsto, con l’Atto del Presidente (Decr. Num. 82 del 17.05.2020), tra le misure di carattere generale l’obbligo di esporre cartellonistica sia in italiano, che in inglese.

La ricerca mostra che l’82,8% dei partecipanti ha esposto cartelli informativi sul luogo di lavoro. Per la precisione, il 66,8% (125 unità) ha esposto “più cartelli”; mentre, il 16% (30 unità) un unico cartello indi-cante le diverse misure 3. Si riscontra, poi, un 17,1% (32 unità) di azien-de che dichiarano di non aver esposto alcun cartello; tuttavia, da un con-trollo incrociato dei dati si è compreso come si tratti, prevalentemente, di “aziende agricole” che, lavorando all’aperto, non aveva probabilmente senso che affi ggessero alcun cartello presso la propria sede.

3 Da contatti telefonici si è compreso come sia stata utilizzata la locandina messa a disposizione dal ministero della Salute.

4. Partecipazione

Si è poi chiesto di indicare quali figure professionali abbiano par-tecipato alla stesura dei Protocolli Anti-contagio. Al primo posto – si presume per ragioni di competenza tecnico-professionale – si colloca il

“Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP)” 4 che ha

4 In questo senso, come fatto notare da R. Blaiotta, Diritto penale e sicurezza del lavoro, cit., spec. 57 “la nomina del responsabile costituisce obbligo non delegabile del datore di lavoro. tale peculiare rilevanza dell’organismo è dovuta al fatto che esso intro-duce nell’organizzazione aziendale competenze tecniche e scientifiche di fondamenta-le importanza ai fini di una avvertita gestione del rischio; cooperando con il datore di lavoro e trasmettendogli conoscenze specialistiche” [grassetti aggiunti]. Nondimeno, si pone il problema di capire se il soggetto de quo possa essere concepito come un reale “sog-getto garante” sulla base della definizione che, in generale, ci deriva dall’art. 40 cpv. c.p.

Si tratta, in effetti, di una figura che non detiene poteri impeditivi in senso proprio ben-sì “mediato”. Pur tuttavia, come fatto notare in dottrina, quando “si è in presenza di un campo che mostra l’istituzionale agire integrato di diversi soggetti, magari con ruoli for-temente differenziati, l’assenza di autonomi poteri gestori non vale per nulla ad escludere la responsabilità, quando la violazione degli obblighi imposti all’agente si riverbera pro-prio sulle decisioni assunte da chi quei poteri gestori riveste”; ciò anche perché “l’errore del garante primario è talvolta generato in modo determinante da informazioni o indica-zioni che promanano dal servizio, cui la legge attribuisce l’indicato, importantissimo ruo-lo di consulenza” (così ancora R. Blaiotta, Diritto penale e sicurezza del lavoro, cit., 58).

Per cui, in relazione alla figura del RSPP pur mancando, in effetti, una posizione di garan-zia in senso stretto, si potrebbe comunque giustificare un addebito sub specie di concorso (anche omissivo) nel reato commesso da altri, nell’ottica di evitare la messa in pericolo e/o la lesione di beni giuridici di elevato rango in relazione ai quali il Responsabile del Servi-zio di PrevenServi-zione e ProteServi-zione assume un ruolo senz’altro chiave e infungibile (appunto, di consulenza tecnico-specialistica). Sul punto di fondamentale importanza è Cass., Sez.

un., 24.04.2014, n. 38343 in cui è stata riconosciuta la responsabilità penale del RSPP, in quanto non avrebbe assolto “l’obbligo […] di svolgere in autonomia, nel rispetto del sapere scientifico e tecnologico, il compito di informare il datore di lavoro e di dissuader-lo da scelte magari economicamente seducenti ma esiziali per la sicurezza”. L’accusa era, quindi, incentrata su una omessa informazione-segnalazione (art. 113 c.p.). In generale, sul ruolo del RSPP, v. L.m. Pelusi, Competenza per il rischio e responsabilità penale all’in-terno del sistema della sicurezza sul lavoro: le figure del committente, dei coordinatori per la sicurezza e del rspp, in Cass. pen., 2014, 2610 ss. Quanto alla giurisprudenza, v. Cass. pen., Sez. IV, 10.03.2021, n. 24822 secondo cui “[i]l responsabile del servizio di prevenzione e protezione, può essere ritenuto responsabile, anche in concorso con il datore di lavoro, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, doven-dosi presumere che alla segnalazione faccia seguito l’adozione, da parte del datore di lavo-ro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione”. Più in generale, sulla posizione

(si fa riferimento al c.d. “Datore di lavoro auto-referenziato” nei compiti del servizio di prevenzione e protezione, in acronimo “DL-SPP”) 5.

di garanzia in materia di sicurezza sul lavoro, v. D. micheletti, La posizione di garanzia nel diritto penale del lavoro, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2011, 153 ss.

5 L’art. 34 co. 1 prevede, infatti, che “Salvo che nei casi di cui all’articolo 31, com-ma 6, il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di preven-zione e protepreven-zione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenpreven-zione incendi e di eva-cuazione, nelle ipotesi previste nell’allegato 2 dandone preventiva informazione al rap-presentante dei lavoratori per la sicurezza ed alle condizioni di cui ai commi successivi”. I casi in cui, pertanto, non è possibile ricorrere a questo tipo di modalità sono espressamen-te previsti ex art. 31 co. 6. Oltre a ciò si prevede comunque, sempre all’inespressamen-terno dell’art.

34, quelle che sono le condizioni affi nché si possa ritenere validamente presente all’inter-no di una realtà aziendale un DL-SPP. In questo senso, risulta indispensabile che il datore di lavoro frequenti una serie di corsi di formazione, nonché di aggiornamento.

minore, ma comunque interessante, la partecipazione del “Medico competente” che si attesta al 20,3% (38 professionisti), seguito dalla figura del “Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza” (RLS) 6 con un 13,9%.

In questo senso, si può ricordare quanto previsto al punto 12 (Sorve-glianza sanitaria/medico competente/rls) dei Protocolli Anti-contagio in cui si dispone che “nell’integrare e proporre tutte le misure di regolamen-tazione legate al COVID-19 il medico competente collabora con il datore di lavoro e le RLS/RLST”. Da tale formula si comprende il ruolo chiave di questi soggetti nell’ambito dell’integrazione e/o predisposizione delle misure di gestione e prevenzione.

Seguono, poi, i “preposti” (12,3%, ovverosia 23 unità); i “dirigen-ti” con il 7,5%, superati leggermente da “altri lavoratori privi dei ruoli di cui sopra” (8%).

6 tale figura è stata, per la prima volta, introdotta dal d.lgs. n. 626 del 1994 al fine di realizzare una maggior coinvolgimento attivo, nonché partecipazione concreta dei lavoratori nella gestione della sicurezza sul lavoro; ciò considerando anche l’orientamento dottrinale secondo cui i lavoratori non sono più solo “creditori della sicurezza” ma anche

“debitori della sicurezza”: questi hanno pertanto il compito di collaborare e intervenire attivamente al fine di assicurare un ambiente sano e sicuro in azienda (tale aspetto che verrà maggiormente ripreso nel prosieguo). tale ruolo è stato, poi, confermato anche nel-la normativa attuale che definisce, all’interno dell’art. 2, co. 1, lett. f) del d.lgs. n. 81 del 2008, il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza come “la persona eletta o designa-ta per rappresendesigna-tare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicu-rezza durante il lavoro”. Svolge, invero, funzioni solo consultive (art. 50) e, di fatto, fun-ge da “raccordo” tra i lavoratori e i vari vertici aziendali. Quanto alle modalità di elezio-ne, occorre considerare quanto previsto ex art. 47 che dispone che “[i]l rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è istituito a livello territoriale o di comparto, aziendale e di sito produttivo. L’elezione dei rappresentanti per la sicurezza avviene secondo le moda-lità di cui al comma 6. In tutte le aziende, o unità produttive, è eletto o designato il rap-presentante dei lavoratori per la sicurezza. Nelle aziende o unità produttive che occupa-no fioccupa-no a 15 lavoratori il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è di occupa-norma eletto direttamente dai lavoratori al loro interno oppure è individuato per più aziende nell’am-bito territoriale o del comparto produttivo secondo quanto previsto dall’articolo 48. Nel-le aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è eletto o designato dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda. In assenza di tali rappresentanze, il rappresentante è eletto dai lavoratori del-la azienda al loro interno”.

tomeno a ridurre il rischio di contagio, considerando, peraltro, la possibi-lità di avere a che fare anche con soggetti asintomatici) si è cercato di capi-re quali azioni di “triage” sono state capi-realizzate. La concentrazione maggio-re dei risultati è a favomaggio-re del “controllo sul cormaggio-retto utilizzo della mascherina”

(96,3%, 180 risposte); al secondo posto si colloca, poi, “l’igienizzazione del-le mani al momento dell’ingresso nei locali” (77,5%, 145 risposte) 7.

Anche la “misurazione della temperatura” ha ritrovato buon riscon-tro, ottenendo una percentuale pari al 36,4% (68 unità). Si tratta, inve-ro, di una misura che, nonostante l’importanza, è sempre stata concepi-ta, almeno alla luce di quanto emerge all’interno dei Protocolli (sia quel-lo del 14.03.2020, che quelquel-lo del 06.04.2021), come oggetto di una mera facoltà e non anche di un obbligo in senso proprio. All’interno del punto 2 si prevede, infatti, che “[i]l personale, prima dell’accesso al luogo di lavoro potrà essere sottoposto al controllo della temperatura corporea. Se tale tempe-ratura risulterà superiore ai 37,5o, non sarà consentito l’accesso ai luoghi di lavoro”. tutto ciò probabilmente in ragione delle conseguenze che si pos-sono avere in termini di tutela della privacy 8.

Nulla era, invece, previsto all’interno dei Protocolli in riferimen-to alla c.d. richiesta di “auriferimen-tocertificazione” che, in effetti, ha ottenuriferimen-to un riscontro piuttosto basso (11,2% dei casi, pari a 21 aziende) 9. Potrebbe,

7 Si specifica che si la risposta era multipla. Gli intervistati avevano quindi la pos-sibilità di indicare più di un’opzione.

8 Non a caso, all’interno del protocollo dell’aprile 2021, si prevede la seguente dicitura “[l]a rilevazione in tempo reale della temperatura corporea costituisce un tratta-mento di dati personali e, pertanto, deve avvenire ai sensi della disciplina privacy vigente”.

9 Si tratta di una modulistica utilizzata solo all’inizio della pandemia e successiva-mente caduta in disuso.

invece, essere stata utile – soprattutto agli inizi della pandemia, quando si pensava di realizzare il c.d. “tracciamento dei contagi” 10 – la soluzione

10 Invero, si pensava di utilizzare questo tipo di tecnica sostanzialmente per due motivi: da un lato al fine di tracciare la “catena di contagio” e, conseguentemente, per iso-lare i soggetti a rischio di contrazione del virus in quanto entrati in contatto diretto con soggetti affetti dalla patologia; dall’altro, anche al fine di “controllare” il rispetto delle misure di contenimento che si è visto come, soprattutto nella prima fase della pandemia, fossero essenzialmente volte a ridurre al minimo il “rischio di contatto” (e contagio), con conseguente limitazione della libertà di circolazione della popolazione. Nondimeno, in dottrina penalistica si è addirittura proposto di fare ricorso a tecniche di c.d. contact tra-cing (tracciamento tramite telefoni, social, droni ecc.) per dare corpo e sostanza ad even-tuali studi epidemiologici da utilizzare nei casi di contestazione di reati contro la salute pubblica (es. delitto di epidemia). Si tratta, tuttavia, di tecniche che possono condurre (recte: conducono) a delle ingenti e indebite compromissioni sulla (sfera della) libertà (e riservatezza) personale. Limitazioni e compromissioni che potrebbero nondimeno esse-re giustificate, in un’ottica di bilanciamento di inteesse-ressi. In quest’ultima diesse-rezione – e in specie avendo riguardo al bilanciamento che, di fatto, si è svolto tra “libertà” (personale, di circolazione, di iniziativa economica ecc.) e “vita e salute” – si può, in effetti, sostene-re che malgrado teoricamente (o, probabilmente, solo in appasostene-renza) non debbano esiste-re “beni giuridici tiranni” si è, tramite la pandemia, in concesiste-reto accordata maggior tutela nei riguardi dei secondi “vita e salute”. Sul punto, si ricordi la sentenza della Corte Cost., del 9.05.2013 n. 85 che, chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale del d.l. n.

207 del 2012, evidenziava la necessità di “un ragionevole bilanciamento tra diritti fonda-mentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzio-nalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzio-ni pubbliche di spiegare ogistituzio-ni sforzo in tal senso”, precisando, peraltro, che “tutti i dirit-ti fondamentali tuteladirit-ti dalla Cosdirit-tituzione si trovano in rapporto di integrazione recipro-ca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fos-se, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”. Sicché, è neces-sario garantire “un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamen-tali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacri-ficati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto”. Nondimeno, la terza sezione del Consiglio di Stato (Cons. St., Sez. III, dec., 30.03.2020, n. 1553) ha affermato che “per la prima volta dal dopoguerra, si sono definite ed applicate disposizioni fortemente com-pressive di diritti anche fondamentali della persona – dal libero movimento, al lavoro, alla privacy – in nome di un valore di ancor più primario e generale rango costituzionale, la salute pubblica, e cioè la salute della generalità dei cittadini, messa in pericolo dalla

zione del “green pass”; strumento, questo, che esula dall’oggetto della pre-sente ricerca.

permanenza di comportamenti individuali (pur pienamente riconosciuti in via ordinaria dall’Ordinamento, ma) potenzialmente tali da diff ondere il contagio, secondo le evidenze scientifi che e le tragiche statistiche del periodo” [grassetti aggiunti].

6. Igiene (personale, respiratoria, ambientale)

Prima di analizzare i risultati relativi all’igiene è opportuna una pre-messa.

La locuzione “norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” è stata introdotta dalla L. 11 maggio 1966, n. 296 (“Modifiche degli artico-li 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni personaartico-li colpose) del Codice pena-le”), allorquando la legislazione in materia di Protezione dei lavoratori era incentrata sui decreti presidenziali emanati tra il d.P.R. 27 aprile 1955, n.

547 (“Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”) e il d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (“Norme generali per l’igiene del lavoro”). La diversa titolazione attribuita ai due testi costituiva espressione del chiaro inten-to legislativo di mantenere distinte e separate le discipline: da un lainten-to, pertanto, vi erano le norme dedicate alla “prevenzione”; dall’altro quelle in tema di “igiene”. In senso opposto si è, tuttavia, espressa la giurispru-denza che ha, fin da subito, esteso l’ambito applicativo delle “norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” sino a ricomprendervi non solo le “norme per l’igiene del lavoro”, ma anche tutte quelle disposizioni che, pur non essendo collocate nei decreti presidenziali esplicitamente dedi-cati alla materia, perseguivano comunque il fine di evitare incidenti sul lavoro e/o malattie professionali. tale tendenza è stata, dapprima, accol-ta dal d.lgs. n. 626 del 1994 ed è saccol-taaccol-ta successivamente ripresa anche nel d.lgs. n. 81 del 2008, per cui attualmente tra le “norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” si ricomprendono anche quelle volte ad assicu-rare l’igiene del lavoro.

L’importanza dall’igiene è stata, certamente, compresa anche dai Protocolli Anti-contagio. Altrettanto, invece, non può dirsi probabil-mente in relazione alle realtà aziendali che si sono analizzate. Al netto, infatti, delle risposte fornite ai primi due quesiti (che palesano dei dati confortanti), il resto dei risultati ottenuti è, infatti, certamente preoccu-pante. ma procediamo per gradi.

Per quanto concerne i protocolli, si può ricordare come, oltre che nel punto 4 (che è interamente dedicato alla Pulizia e Sanificazione in azienda), il concetto di igiene venga a più riprese richiamato sia nel punto 1 (relativo all’Informazione) in cui si prevede “l’impegno a rispettare tutte le disposizioni delle Autorità e del datore di lavoro nel fare accesso in azien-da (in particolare, mantenere la distanza di sicurezza, osservare le regole di

parte delle aziende, del “gel disinfettante”.

Altresì, si convalida l’utilizzo delle “mascherine”. In particolare, si conferma l’impiego della “mascherina chirurgica” (96,8%) (di cui l’86,5%

per la tipologia “a tre veli”), nonché di quella FFP2 (44,4%, pari ad 83 intervistati). minori le percentuali riguardanti l’impiego delle mascheri-ne FFP3 (2,7%), e delle “mascherimascheri-ne in tessuto o altre simili anche se auto-realizzate” (4,3%). Percentuali del tutto irrisorie si sono, infi ne, ottenu-te in riferimento alle “mascherine personalizzaottenu-te con marchio aziendale”

(0,5%) e a quelle in “lycra naso-bocca impermeabili” (0,5%). Praticamen-te pari a zero, invece, la percentuale di soggetti che ha risposto al quesito con “mascherine in plastica trasparente o simili”.

Si registra, poi, un positivo aumento (rispetto all’originaria prassi aziendale) delle pulizie di superfi ci (78,1%). Probabilmente ancora trop-po alta è, però, la percentuale di soggetti che ha ristrop-posto in senso contra-rio: il 21,9% degli intervistati ha, infatti, dichiarato che non è aumen-tata la frequenza nella pulizia delle superfi ci rispetto a quanto avveniva pre-Covid-19.

Si è poi domandato se fosse, in generale, aumentata la pulizia degli ambienti di lavoro e in particolare delle superfi ci (es. scrivanie, maniglie delle porte, materiale in uso condiviso, ecc.). ebbene, se il 40,6% degli intervistati ha dichiarato che sono state eseguite pulizie “per più di due volte al giorno”; il 19,8% ha, invece, risposto “meno di una volta al gior-no”. Il 29,9% ha indicato la media di “una volta al giorno”; il 9,6% le ha infi ne eseguite “due volte al giorno a seconda dei turni di lavoro”.

Non così rassicurante il dato concernente l’eventuale aumento del-le pulizie nei bagni. Solo il 62,6% (117 aziende su 187) ha dichiarato di averle aumentate. Il 37,4% degli intervistati ha, invece, dichiarato che non è aumentata la frequenza della pulizia dei bagni 11.

11 Sul punto occorre ricordare che l’Istituto Superiore di Sanità aveva, già agli inizi della pandemia, specifi cato che tra “le possibili vie di trasmissione del virus

SARS-Da ciò emerge un aspetto chiaramente critico e su cui andrà posta maggiore attenzione in ipotesi di future pandemie con “rischio biologi-co generibiologi-co” 12, in relazione alle quali è noto come l’igiene giochi un ruo-lo fondamentale.

Stesse considerazioni possono essere svolte anche in relazione al grafi co concernente “la frequenza delle pulizie dei bagni”: il 33,2% degli intervistati ha, infatti, dichiarato che le pulizie dei bagni vengono rea-lizzate “meno di una volta al giorno (ma con disinfezione in occasione d’u-so)”. Si tratta di una percentuale, invero, equiparabile a quella che si è espressa nel senso di dire “due volte al giorno (a seconda dei turni di lavo-ro)” (31,6%). Il 7% degli intervistati ha, peraltro, addirittura dichiarato che le pulizie vengono realizzate “meno di una volta al giorno (senza misu-re igieniche accessorie)”.

CoV-2 vi sono, le goccioline (droplet), il bioaerosol (droplet nuclei) di origine respira-toria e, potenzialmente, il bioaerosol originato dagli impianti di scarico fecali” (così il Rapporto ISS COVID-19 n. 33 del 2020, “Indicazioni sugli impianti di ventilazio-ne/climatizzazione in strutture non sanitarie e in ambienti domestici in relazione alla dif-fusione del virus SARS-CoV-2. Gruppo di Lavoro Ambiente-Rifi uti COVID-19” (ver-sione del 25.05.2020) reperibile al seguente indirizzo: https://www.iss.it/docu- ments/20126/0/Rapporto+ISS+COVID-19+33_2020.pdf/f337017e-fb82-1208-f5da-b2bd2bf7f5ff ?t=1590775337366).

12 Si ricordi, in questo senso, come siano gli stessi Protocolli Anti-contagio a dire che “[i]l COVID-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione”.