• Non ci sono risultati.

la chimera dei livelli essenziali

Nel documento il TEMPO dEi baMbini (pagine 127-134)

In Italia la politica sociale - e quella per l’infanzia in maniera particolare - è un’eterna incompiuta, e alla sua perfetta incompletezza ha contribuito il tempo perso su vari fronti anche in quest’ultimo decennio.

Da una parte si è assistito infatti allo svuotamento del Piano Nazionale di azione e interventi

per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva: previsto dalla legge 451 del

1997, predisposto nel biennio 2000-2001 e in quello 2002-2004, sparisce dall’agenda

In alto, una panoramica del Librino, quartiere di edilizia popolare di Catania. In basso, un’immagine scattata alla Sanità, in pieno centro a Napoli. la rete integrata dei servizi per l’infanzia e la tutela dei minori appare lacerata in più punti. lo Stato, in particolare, sembra aver abdicato al compito fondamentale di indicare la rotta, come previsto dalla carta costituzionale.

R ic ca rd o V en tu ri p er S a ve t h e C h ild re n R ic ca rd o V en tu ri p er S a ve t h e C h ild re n

politica per sei anni fino al 21 gennaio 2011. Il Terzo Piano è però al massimo un

‘mezzanino’, uno strumento ‘proforma’ non accompagnato dallo stanziamento di risorse economiche adeguate per renderlo operativo. E anche il Quarto Piano nazionale per l’infanzia, approvato soltanto il 6 agosto del 2016, quando gli effetti più preoccupanti della crisi si sono già manifestati e i buoi sono scappati dalla stalla, pur ribadendo l’esigenza di approvare i livelli essenziali enunciando le azioni necessarie, non sarà accompagnato dalle risorse necessarie per realizzarlo e manterrà un ruolo di mero indirizzo politico.

Dall’altra, è proseguita per tutto il decennio la farsa dei LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni, invocati a gran voce da tutti i principali documenti che hanno ridisegnato questa complessa materia, dalla legge quadro sull’assistenza (legge 328/2000), all’articolo 119 della Costituzione riformata in senso federalista, fino alla legge n. 42 del 2009, la legge quadro del federalismo fiscale… ma mai presi realmente in considerazione, né tantomeno discussi, dall’agenda politica nazionale, come ha ricordato qualche tempo fa, in un’audizione della Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale, il presidente della Commissione e deputato lombardo della Lega Giancarlo Giorgetti: «penso che ci siano pochi cultori della materia che riescano ad essere padroni di quello che è accaduto negli ultimi dieci-quindici anni in questo ambito. Il fatto che non si sia fatto nulla sui LEP sta a testimoniare che manca uno dei punti cardine su cui costruire tutto il

R ic ca rd o V en tu ri p er S a ve t h e C h ild re n

è proseguita per tutto il decennio la farsa dei lEP, i livelli Essenziali delle Prestazioni, invocati a gran voce da tutti i principali documenti che hanno ridisegnato questa complessa materia, ma mai presi realmente in considerazione, né tantomeno discussi, dall’agenda politica nazionale.

sistema» (Audizione Comm. Bicamerale attuazione Federalismo, 19 maggio 2016). Se uno degli obiettivi dichiarati della riforma doveva essere quello di contrastare gli sprechi e contenere la ‘malagestione’ delle risorse pubbliche, in un paese gravato da un debito pubblico enorme, avvicinando la responsabilità della spesa ai costi e alle esigenze reali dei territori, la definizione dei LEP appariva un necessario contrappeso a protezione e garanzia dei diritti essenziali di tutti i cittadini, «anche quelli residenti nei territori a minore capacità fiscale». un modo per garantire su tutti i territori l’esigibilità dei diritti civili e sociali ‘essenziali’, individuando per ciascun servizio e prestazione un costo efficiente e un fabbisogno (in base anche alle caratteristiche specifiche dei territori), e, qualora la capacità di raccolta fiscale dell’ente locale fosse insufficiente a coprire costi e bisogni, un intervento perequativo da parte del governo nazionale.

E invece, in un Paese segnato da diseguaglianze e baratri interni che non hanno eguali in in Europa, la legge che dava attuazione al federalismo fiscale sostenendo a parole l’importanza di garantire gli stessi livelli essenziali a tutti, nei fatti la rendeva molto ardua affermando che dal meccanismo perequativo alimentato dalla fiscalità generale «non» sarebbero dovuti «derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Concetto ribadito anche nel decreto attuativo che avrebbe dovuto istituire il Fondo Perequativo, il decreto n.23 del 14 marzo 2011, che invece introdusse il Fondo

Pescopagano, Caserta. Il mare e l’erosione costiera hanno riconquistato la battigia costruita abusivamente negli anni Ottanta.

sperimentale (triennale) di riequilibrio. E così il dibattito per la definizione dei Livelli essenziali, per garantire pari diritti fondamentali ai bambini in tutto il Paese, è rimasto appannaggio degli addetti ai lavori e delle associazioni impegnate sul fronte dei diritti dell’infanzia: dal Comitato ONu per l’applicazione della Convenzione sui diritti

dell’Infanzia, alla rete ‘Batti il Cinque’, fino all’Autorità Garante dell’Infanzia che nel 2015, al termine di un confronto con le associazioni, pubblica un documento che enuncia, per ogni area dei diritti, i Livelli Essenziali, le Azioni, i soggetti istituzionali competenti, i destinatari, gli indicatori di processo e di risultato (Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, 2015). Insieme a varie altre cose, il documento raccomanda che dei livelli essenziali debba far parte la disponibilità fin dalla nascita di servizi socio-educativi di qualità, intesi non più come servizi a carico dei comuni a domanda individuale (ai quali può accedere solo chi ne fa richiesta), ma servizi universali destinati a tutti, finanziati dallo Stato come avviene per la scuola dell’infanzia.

Congelata la discussione sui livelli essenziali, e insieme ad essa l’indicazione costituzionale di costruire politiche sociali più coese e coerenti a partire dai bisogni delle persone, il compito delicato di individuare indicatori per definire costi e fabbisogni standard in base ai quali intercettare inefficienze, ridisegnare la spesa e di conseguenza i trasferimenti a regioni e

la spendig review sugli asili

2008-2016: spesa dei comuni per i servizi per la prima infanzia in Italia (euro)

2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 1.169.429.739 1.228.066.646 1.273.434.047 1.295.748.139 1.297.345.004 1.2491.52.336 1.181.518.440 1.194.808.017 1.190.995.859

E così il dibattito per la definizione dei livelli essenziali, per garantire pari diritti fondamentali ai bambini in tutto il Paese, è rimasto appannaggio degli addetti ai lavori e delle associazioni impegnate sul fronte dei diritti dell’infanzia.

enti locali, è stato assegnato, da uno dei primi decreti attuativi della legge delega 42/2009 (il d.lgs. 216 del 26 novembre 2010) ad un’agenzia tecnica (Sose S.p.a.) che avrebbe operato in collaborazione con esperti dell’Anci (dell’Ifel). E in quella sede, malgrado il decreto avesse introdotto la necessità di definire gli ‘obiettivi di servizio’ quale tappa intermedia verso il conseguimento dei LEP, si lavorò solo a stabilire costi e fabbisogni standard e fu accettata l’idea che (almeno inizialmente) ai comuni con pochi servizi sarebbero stati assegnati fabbisogni limitati.

In molti comuni del Sud dove i servizi sono sempre stati scarsi o nulli (e dove il fabbisogno reale di servizi dovrebbe essere assai elevato), si è arrivati così al paradosso di stabilire che fosse pari a zero: zero asili nido, zero mense scolastiche, zero trasporti locali, zero servizi sociali. Eclatante l’esempio di Casoria, 80 mila abitanti per 2.200 bambini sotto i tre anni, a cui i tecnici attribuiscono un fabbisogno di zero asili nido.

E, insieme a Casoria, altri 4.000 comuni sui 6.700 coinvolti (molti dei quali con una popolazione superiore ai 10.000 abitanti, e quindi sufficientemente grandi per ospitare asili nido) videro comparire accanto al proprio nome uno zero con altri 12 zero dopo la virgola:

0,000000000000! Il 23 dicembre 2013, furono predisposte dai tecnici le tabelle con i costi e i fabbisogni, incluse le tabelle per ‘il servizio di asili nido’, contenute in una delle 12 relazioni tecniche, dal titolo Nota metodologica fabbisogni comuni (www.tesoro.it/ministero/

commissioni/copaff/documenti/Nota_Metodologica_Fabbisogni_Comuni_FC06B_x23-12-2013x.pdf). Dopo 90 pagine di spiegazioni sul metodo di elaborazione statistico, nel lungo elenco dei comuni delle 15 regioni a statuto ordinario, nella colonna ‘coefficiente di riparto relativo al Fabbisogno Standard’ fioccavano quattro mila 0,000000000000. Destino simile era toccato anche ai servizi per l’istruzione forniti dai comuni, che includevano il servizio mensa. Centinaia di 0,000000000000. L’ingiustizia di assegnare zero fabbisogni laddove i servizi erano assenti, evitando di misurare i fabbisogni in base al numero di bambini presenti, è stata sancita solo nei calcoli relativi a queste due aree di intervento. In tutte le altre funzioni assegnate ai comuni, invece, si faceva riferimento alla popolazione residente e ad altre variabili oggettive. A dicembre 2014, la Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale approvò queste tabelle, e il 27 marzo 2015 il governo Renzi approvò il quadro completo dei fabbisogni standard, ma con l’intenzione di aggiornare quelli per i servizi alla prima infanzia già nel 2016,

introducendo un livello minimo di presa in carico del 12% (che rappresentava la media nazionale), in attesa di definire i LEP.

La concatenazione di fatti e decisioni è molto complessa da ricostruire, ma è facile capirne l’effetto finale: per un’area debole del paese è diventato sempre più difficile recuperare il terreno perduto, nel settore più strategico delle prestazioni sociali, quello dei servizi all’infanzia.

All’applicazione monca della riforma hanno contribuito ovviamente la crisi economica, i vincoli di un Paese fortemente indebitato, e le politiche di contenimento della spesa. Sull’onda della crisi del debito sovrano, il governo Monti attuò rapidamente la parte del federalismo fiscale che concedeva più autonomia alle regioni e ai comuni sulle entrate fiscali,

in molti comuni del Sud dove i servizi sono sempre stati scarsi o nulli (e dove il fabbisogno reale di servizi dovrebbe essere assai elevato), si è arrivati così al paradosso di stabilire che fosse pari a zero: zero asili nido, zero mense scolastiche, zero trasporti locali, zero servizi sociali.

«mentre finirono nel dimenticatoio le parti della riforma che dovevano garantire servizi essenziali per tutti, a partire dalla definizione dei LEP e degli obiettivi di servizio» (Marco Esposito, 2018). La legge di stabilità 2013, inoltre, lasciò in capo ai Comuni il 100% dell’IMu e l’addizionale Irpef del 50%, e sostituì il Fondo sperimentale di riequilibrio con il Fondo di solidarietà comunale, spostando l’onere del riequilibrio direttamente sui comuni: un meccanismo che metteva in diretta competizione gli enti locali, aprendo la strada a forti disparità territoriali. Intanto, già nel 2011, i tagli alla spesa nel segno del maggior rigore avevano colpito anche il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali e quello per l’Infanzia e l’Adolescenza (ex l. 285/97), e le Regioni e gli enti locali erano stati chiamati pesantemente in causa per contribuire al risanamento del Bilancio, adottando politiche all’insegna del rigore nel rispetto del patto di stabilità interno (fiscal compact). una situazione che spingeva fatalmente nella direzione opposta e contraria a quella indicata dai LEP: «tuttavia la legge attuativa di quella riforma della Costituzione [il fiscal compact]», prosegue Esposito, «prevede espressamente l'impossibilità di tagliare i LEP. Ciò appunto a garanzia dei diritti essenziali. Ecco perché non averli definiti è doppiamente grave. Molto più dei vincoli di bilancio». Senza i LEP, come presagivamo nell’Atlante 2011 «gli effetti dell’attuale crisi economica non potranno che peggiorare la situazione, contribuendo ad un drastico ridimensionamento dei servizi e ad un ulteriore approfondimento dei gap territoriali» (Save the Children 2011, p. 80). E così è stato. Nel 2015, il primo anno in cui il meccanismo di solidarietà e riequilibrio

territoriale doveva essere attuato, sulla base dei calcoli (discutibili come abbiamo visto) dei fabbisogni standard e della capacità fiscale di ogni singolo comune, con il Fondo di solidarietà comunale finanziato dai comuni (con una parte dell’IMu raccolto), il meccanismo è stato ulteriormente indebolito: «la falsa partenza del meccanismo di solidarietà previsto dal federalismo è risultata evidente con un accordo tra Governo e Anci del 30 marzo 2015 in cui è stato deciso di dimezzare al 45,8% il contributo perequativo che il Fondo di solidarietà doveva coprire in base ai calcoli, in via temporanea per il 2015, ma poi, come è spesso accaduto, ‘lo sconto alla solidarietà’ o ‘solidarietà dimezzata’ è rimasta anche negli anni successivi» - spiega Marco Esposito - seppur in contrasto con il dettato costituzionale e le norme sul federalismo fiscale. «E visto che il Sud continuava a non reagire, si è andati avanti con altre formule via via più perniciose, ad esempio, una misura del 2017 sui servizi ai disabili secondo cui nelle regioni che offrono meno servizi (generalmente al Sud) anche i comuni virtuosi si sono visti riconoscere un fabbisogno ridotto e inferiore al livello erogato». Lungi dal diventare un’occasione per ridisegnare le politiche e attenuare le diseguaglianze interne al Paese, l’applicazione incompiuta e ragionieristica del federalismo si è tradotta così in uno scontro tra opposti localismi: da una parte le ragioni e le Regioni povere del Sud, per le quali il tema dell’esigibilità dei diritti appariva una chimera, dall’altra le ragioni e le Regioni del Nord, mediamente assai più ricche di servizi e di infrastrutture, ma già alle prese con una contrazione di risorse e di prestazioni, e niente affatto intenzionate a pagare un ulteriore dazio in favore di un riequilibrio territoriale. Complice una cultura politica che nel Sud

lungi dal diventare

un’occasione per ridisegnare le politiche e attenuare le diseguaglianze interne al Paese, l’applicazione incompiuta e ragionieristica del federalismo si è tradotta così in uno scontro tra opposti localismi.

continua a sottovalutare l’importanza di garantire servizi e prestazioni sociali e assistenziali soprattutto destinate ai minori e alle loro famiglie, i decisori, gli amministratori e i tecnici meridionali hanno così finito per ottenere molto poco nei molteplici tavoli di concertazione rispetto ai loro corrispettivi settentrionali, trasversali agli schieramenti politici, che hanno occupato tutte le posizioni strategiche e fatto fronte comune. Negli ultimi mesi, però, bisogna segnalare che 70 comuni di Campania, Puglia, Calabria e Molise hanno reagito facendo ricorso e, soprattutto, sono stati compiuti dei passi avanti dalla stessa Commissione tecnica fabbisogni standard, che ha cancellato dal 2020 gli zeri sui fabbisogni di asili nido riconoscendo una copertura minima che dipende dalla dimensione del comune e che in ogni caso non va sotto il 7%.

negli ultimi mesi, però, bisogna segnalare che 70 comuni di campania, Puglia, calabria e molise hanno reagito facendo ricorso e, soprattutto, sono stati compiuti dei passi avanti dalla stessa commissione tecnica fabbisogni standard, che ha cancellato dal 2020 gli zeri sui fabbisogni di asili nido riconoscendo una copertura minima che dipende dalla dimensione del comune e che in ogni caso non va sotto il 7%.

400 350 300 250 200 150 100 50 0 Calabria Molise Campania Basilicata Puglia * Sicilia Abruzzo Veneto * Sardegna Marche Lombardia Umbria Piemonte Toscana * Friuli-Venezia Giulia Lazio * Valle d'Aosta Liguria * Trento Emilia-Romagna +42 +3 +50 +134 +111 +28 +60 +117 +55 +51 +24 +73 +40 +93 +30 +37 +52 +36 +16 +41 266 248 199 197 170 158 157 156 152 144 110 109 92 73 52 50 46 38 71 23 Anno 2008 Incremento 2008-2016

Nel documento il TEMPO dEi baMbini (pagine 127-134)