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La chiusura dei manicomi come conseguenza della legge n 180 del 13 maggio

Novità normative e giurisprudenziali in tema di trattamenti sanitari obbligatori.

2. La chiusura dei manicomi come conseguenza della legge n 180 del 13 maggio

Nel clima di conquistata libertà del dopoguerra e nella graduale presa di coscienza degli orrori della guerra, la critica antistituzionale attraversò vasti settori della società italiana, mettendo in discussione famiglia, chiesa, scuole, istituti per minori e manicomi. Questi ultimi incarnarono il paradigma di repressione e disumanizzazione da combattere con maggiore veemenza. La lotta ai manicomi divenne l’obiettivo di una intera generazione, quella del 1968; il movimento antistituzionale non è stato un fenomeno solo italiano ed i suoi collegamenti con le esperienze europee ed americane erano ben evidenti. Gli psichiatri dell’epoca si scambiavano visite e intellettuali di prima grandezza come J. P. Sartre e M. Foucault venivano spesso in Italia a sostenere la grande innovazione. Ma in Italia esso si collegò alle battaglie per i diritti civili, per il divorzio, per l’aborto, per la costruzione del Servizio Sanitario Nazionale.

Il riconoscimento del “matto”, come persona e cittadino, titolare di diritti e capace di autodeterminazione, l’attenuazione non certo la scomparsa dell’attributo della “pericolosità” e dello “scandalo” che avevano connotato necessariamente ogni ricovero psichiatrico dall’inizio del secolo scorso ed infine l’assistenza psichiatrica proiettata sul “territorio” aprirono la strada ad una tensione trasformativa nel settore dell’assistenza psichiatrica.

Nacquero in quegli anni le prime esperienze dei centri di salute mentale aperti ventiquattro ore e con disponibilità di posti letto, che avviarono il processo di costruzione di un servizio “forte”, ossia un modello di presa in carico globale del paziente tramite interventi di natura socio-sanitaria. L’ospedale psichiatrico non era più un “mondo a sé stante” separato dal contesto sociale, ma piuttosto un’istituzione in rapporto dinamico con il mondo esterno, che entrava in contatto con il territorio e con i numerosi attori sociali che su questo agivano. La follia e la psichiatria non si esaurivano all’interno delle mura del manicomio, la malattia mentale trascendeva la mera dimensione istituzionale e si collocava in altri contesti e realtà.

In questo particolare contesto, il parlamento riprese la discussione sulla riforma sanitaria, progetto che era ormai maturo per divenire realtà normativa.

Nel dicembre 1977 prese avvio la discussione sulla proposta di legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, che rappresentava la sintesi, tra le proposte dei gruppi parlamentari e il disegno di legge presentato dal governo. Per quanto concerne l’assistenza psichiatrica, cui erano dedicati due ampi articoli (artt. 30 e 54) del progetto,

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le novità più importanti erano senz’altro costituite dall’abolizione dei manicomi, dall’inserimento, in linea con l’approccio globale che connotava la riforma, della psichiatria nel contesto della medicina generale ed estendeva il diritto costituzionale della volontarietà del trattamento sanitario ai malati di mente, prevedendo infine l’introduzione dell’istituto del trattamento sanitario obbligatorio (Tso), che, in virtù di quanto stabilito dal terzo comma dell’art. 30, avrebbe potuto essere disposto dall’autorità sanitaria, previa “proposta motivata di un medico” della Usl, ma solo ove fossero esistite “alterazioni gravi dello stato di salute individuale o gravi ragioni di sanità pubblica e condizioni e circostanze” tali da giustificare il “provvedimento per l’impossibilità di adottare idonee misure sanitarie di altra natura”.

A rendere possibile la chiusura degli ospedali psichiatrici sul finire degli anni Ottanta furono essenzialmente due fatti. La minaccia del referendum promosso dai radicali per l’abrogazione della famigerata legge 36 del 1904 (quei radicali che già avevano trionfato con il divorzio e poi con l’aborto) che qualora fosse prevalso avrebbe lasciato un vuoto legislativo enorme, e principalmente la pressione della storia con l’instaurarsi del regime di “emergenza nazionale” come conseguenza del rapimento del presidente della DC Aldo Moro a Roma (16 marzo 1978) da parte delle Brigate Rosse, trucidando i cinque membri della sua scorta. Da quel momento il nostro paese cade in un limbo che dura 55 drammatici giorni, con il più triste e scontato degli epiloghi: il ritrovamento del corpo di Moro dentro il bagagliaio di una Renault 4 a due passi dalla sede della DC (9 maggio 1978).

In quegli incredibili giorni, in cui tutti vivono camminando su un filo sottilissimo sospeso sul baratro, anche la quotidiana attività parlamentare è duramente segnata. Quel clima di trepidante attesa e di spasmodica improvvisazione consentì il crearsi di quegli spazi politici che comportarono il varo della futura legge Basaglia che, come ricorda nel suo libro Valeria P. Babini, Liberi tutti, è “esaminata, discussa, modificata e approvata dalle due commissioni” Sanità di Camera e Senato per poi essere votata il 4 maggio alla Camera e poi, alcuni giorni dopo al Senato, senza una vera e propria discussione. Una procedura decisamente inconsueta ma in quel drammatico 1978 il mondo politico tutto desidera, tranne che passare attraverso il vaglio delle urne referendarie.

La legge 180/78, in pieno rapimento Moro e con sette mesi di anticipo sul varo della legge n. 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, è uno dei frutti dell’azione e della riflessione clinica, sociale e politica di singoli o di gruppi, attivi in diversi luoghi d’Italia, mossi dal disgusto per situazione presente e animati da una inusuale

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determinazione a perseguire un principio, etico prima che scientifico. Questi gruppi eterogenei (psichiatri, amministratori e politici) che non potevano accettare la brutalità del modello manicomiale di custodia e cura, sancito dalla Legge n. 36 del 1904, né l’identificazione della sofferenza psichica con la pericolosità sociale, sui quali il malato non poteva negoziare dopo essere stato privato, al momento del ricovero, dei diritti sociali e politici.

Il gruppo più famoso in Italia si forma intorno al prof. Franco Basaglia, direttore del manicomio di Gorizia (1961- 1969). L’idea rivoluzionaria che guidava l’operato del gruppo era quella di trattare con il paziente, non con la malattia.

Quando Basaglia iniziò a lavorare a Gorizia, la cura psichiatrica italiana è basata su un sistema fondato su:

Ø gerarchia;

Ø negazione della soggettività e dell’autodeterminazione;

Ø espropriazione: i pazienti erano privati delle proprie cose, dei vestiti, dei capelli, non avevano un armadio o un comodino propri, non potevano decidere nulla che riguardasse la propria vita quotidiana o il proprio futuro;

Ø separazione/segregazione: grate, porte chiuse, reparti femminili e maschili, ricorso abituale alla violenza, contenzione, isolamento;

Ø trascuratezza dei bisogni primari; Ø cancellazione della storia individuale;

Il “malato” viene considerato una minaccia per la società, la base legale di questo sistema è l’atto del 1904 che dava agli psichiatri la possibilità di utilizzare, senza limiti, il ricovero forzato. Negli anni sono stati rinchiusi migliaia di pazienti e gli ex pazienti sono stati inseriti in una lista speciale della polizia con divieto di svolgere alcuna professione 136.

Il loro lavoro dentro il manicomio è condotto favorendo in ogni modo l’interazione tra manicomio e mondo esterno, questo movimento antiistituzionale rimette in discussione insieme alla nuova psichiatria i principi ispiratori dell’istituzione manicomiale Italiana. Si passa a una gestione nuova: i pazienti sono considerati persone capaci e responsabili, vengono sollecitati all’incontro, alla discussione, alle relazioni interpersonali, alla condivisione delle decisioni in assemblea. Si lavora per ridare loro la libertà e il potere

136 Maj M., Breve storia della psichiatria italiana dal 1904 alle riforme del 1978. Acta

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decisionale, ispirandosi al modello della “comunità terapeutica” e inserendosi nel flusso dei cambiamenti teorici e operativi che interessa la psichiatria europea di quegli anni. Il punto di partenza del lavoro del “gruppo di Basaglia” è semplice e innovativo nello stesso tempo: la trasformazione del rapporto tradizionale medico-paziente. Ricompaiono i pettini, le posate e i malati tornano a mangiare in maniera dignitosa, senza usare le sole mani o al massimo dei cucchiai in legno. I bagni ritrovano le porte che garantiscono un minimo di intimità e gli specchi ricollocati sopra i lavabi, restituiscono immagini di volti ormai sconosciuti. Le inferriate spariscono dalle finestre e dei semplici, comuni e colorati vestiti, sostituiscono le lugubri e informi uniformi. Nelle riunioni quotidiane fra tutto il personale sanitario e i ricoverati vige il principio della piena libertà di comunicazione: si cerca di mettere in crisi il tradizionale rapporto di autorità, gerarchico e di analizzare tutto ciò che accade nella comunità in termini di dinamica individuale e interpersonale. Il contributo di tutti, l’équipe curante e i pazienti, deve essere impiegato in maniera terapeutica per favorire il riapprendimento di adeguati ruoli sociali delle persone ricoverate, soprattutto in riferimento alla capacità di entrare in rapporto con gli altri e stabilire proficui scambi sociali.

“La comunità terapeutica si presenta come una comunità e non un agglomerato di malati. Come una comunità organizzata in modo da consentire il movimento di dinamiche interpersonali fra i gruppi che la costituiscono e che presenta le caratteristiche di qualsiasi altra comunità di uomini liberi”: queste parole di Franco Basaglia (Che cos’è la psichiatria) giungono dopo i primi anni di trasformazione istituzionale a Gorizia e rivelano subito come la sua attenzione sia fondamentalmente centrata su un “assunto di base”: il nuovo modo di lavorare in psichiatria non può che essere un confronto tra uomini liberi.

Il medico, l’infermiere, le altre figure professionali si trovano in una situazione nella quale vengono messi in discussione non solo dalla presenza del paziente, lì a testimoniare i suoi bisogni, ma dalla sua stessa voce che cresce di giorno in giorno per rivendicarli. E’ un’onda che sale inarrestabile, il medico non può più ripararsi dietro la sua scienza che ha costruito i luoghi dell’istituzione e ne ha favorito la sopravvivenza e la moltiplicazione, l’infermiere non può più stare nella sua divisa di guardiano a stringere lacci e serrare porte. E’ un’ideologia che crolla, spesso non senza drammi e conflitti personali, perdere il ruolo assomiglia a perdere l’identità, ma bisogna andare avanti, avanti, senza guardarsi indietro.

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L’esperienza di Gorizia si chiude, di fatto, nel 1968, con quello che viene ricordato come “l’incidente”: un paziente in permesso giornaliero a casa uccide la moglie. Nella città friulana che non ha mai amato Basaglia, la stampa dà ampio spazio alla notizia scatenando una dura reazione di condanna generale. In molti decidono da questo momento di andarsene, lo stesso Basaglia resterà ancora per poco. La diaspora dei triestini porterà l’immenso patrimonio umano a disseminarsi entro diverse realtà manicomiali.

Basaglia passa a dirigere il manicomio di Trieste, la sua azione è guidata dalla riflessione critica sull’esperienza di Gorizia dalla quale origina la convinzione che qualunque tentativo di migliorare la vita all’interno del manicomio l’avrebbe forse trasformato in una gabbia dorata, che però rimaneva pur sempre una gabbia, isolata in un contesto sociale e politico ostile. L’obiettivo diventa la chiusura del manicomio e il potenziamento dei servizi territoriali, per evitare che la dimissione si trasformi in un abbandono.

L’introduzione della Legge “Basaglia” fu il culmine dell’opera di Basaglia e degli antipsichiatri italiani, è stata questa la grande rivoluzione, cambiare la semantica della malattia grazie a un nuovo metodo terapeutico (la cosiddetta Antipsichiatria) che non considerava più il malato un individuo pericoloso, ma un essere del quale devono essere sottolineate, anziché represse, le qualità umane. Il malato, quindi, per guarire, ha bisogno di mettersi in relazione con il mondo esterno dedicandosi al lavoro e ai rapporti umani (Inclusione sociale come antidoto all’esclusione manicomiale).

Il problema è che, quando la legge 180 è stata approvata, i “pazzi” si sono trovati nella condizione di trovarsi “nudi” in un mondo che non conoscevano e soprattutto all’interno di una società culturalmente non pronta ad accoglierli.

“Il 13 maggio non si è stabilito per legge che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che in Italia non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione. Il che non significa che basterà rispedire a casa le persone con la loro angoscia e la loro sofferenza”: Franca Ongaro Basaglia, 19 settembre 1978.

Il pensiero e il lavoro di Basaglia, e la legge 180 che ne costituisce l’approdo, vanno letti come la prosecuzione di un pensiero lungo, che ha la sua origine nella Costituzione e che tenta di portarne lo spirito nel territorio del manicomio e della follia da cui era stato escluso per trent’anni. D’altra parte lo stesso Basaglia definì la 180, ormai

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confluita nella legge n. 833/78, «soltanto l’inserimento nella normativa sanitaria di un elemento civile e costituzionale che sarebbe dovuto esservi implicito».

La legge 180 del 1978 venne approvata nel maggio del 1978, ma l’intenzione del legislatore era quella di approvare una normativa di carattere transitorio, in attesa dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale, nel cui ambito la disciplina avrebbe potuto trovare una più armonica e definitiva collocazione come parte di un più ampio progetto di riforma e di attuazione del dettato costituzionale137.

Nel dicembre 1978 il parlamento varava il testo definitivo della riforma sanitaria, con la legge n. 833 del 23 dicembre 1978 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”, nel cui contesto le disposizioni della legge 180 venivano assorbite e integrate, consentendo alcune ulteriori modifiche: integrando l’originario art. 6 della legge 180, veniva attribuito alle regioni il compito di fissare il limite massimo di posti letto dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC); si prevedeva che i servizi e presidi territoriali extraospedalieri, insieme a quelli ospedalieri fossero ricompresi in strutture dipartimentali con funzioni preventive, curative e riabilitative nell’ambito della salute mentale e dell’assistenza psichiatrica, facenti capo alle unità sanitarie locali che le regioni avrebbero dovuto istituire. Veniva altresì introdotto un ulteriore comma nella disciplina dei trattamenti sanitari, prevedendo l’obbligo per le Usl di operare al fine di ridurre il ricorso a tali misure, “sviluppando le iniziative di prevenzione e di educazione sanitaria ed i rapporti organici tra servizi e comunità” (art. 33, 6° co.); si definiva la fine della separatezza tra legislazione psichiatrica e legislazione sanitaria.

La legge 180 del 1978 ha segnato in maniera incisiva la storia normativa del nostro paese, determinando un cambio nella visione, comprensione ed approccio al problema della salute mentale. Esempio di questo cambiamento lo si evince all’art. 1 della legge “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” (ora art. 33 legge n. 833/1978) con il quale viene imposto il principio generale secondo cui gli accertamenti e trattamenti sanitari sono volontari, stabilendo, quale eccezione, che essi ai sensi dell’art. 32 Cost. possano essere, nei casi previsti dalla legge, disposti dall’autorità sanitaria, con il limite del rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla scelta del medico e del luogo di cura.

137 E. FERRARI, Art. 33, in F.A. ROVERSI MONACO (coord. da), Il Servizio sanitario nazionale.

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Se ne deduce un rovesciamento di prospettiva rispetto alle normative precedenti: la volontarietà del trattamento diviene la regola, traducendo in termini positivi il principio affermato ai sensi del secondo comma dell’art. 32 Cost.: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Peraltro il rilievo del principio volontaristico emerge, per un verso, dalla situazione di libertà che è alla base dell’esercizio di ogni diritto soggettivo, e, per l’altro, dal riconoscimento della salute quale diritto sociale esigibile da parte dei cittadini: l’accesso ai trattamenti psichiatrici, dunque, non può più connotarsi come strumentale alla custodia e alla difesa sociale, emarginando l’aspetto sanitario, ma viene ad integrare un possibile percorso volto a garantire quella condizione di benessere individuale in cui si esprime il diritto alla salute. Come richiamato dall’art. 13: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. E poi ancora: “E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.

Il principio della volontarietà si propone inoltre come termine di paragone, di interpretazione, di integrazione del rapporto tra medico e paziente in cui la ricerca della composizione e della misura del “nuovo” rapporto fa riemergere in piene nitidezza il diritto fondamentale come valore incomprimibile anche nel campo psichiatrico, al medico si deve richiedere che il proprio impegno nell’ascolto e nell’accompagnamento della decisione abbia una misura sostenibile, ben sapendo che la scelta di libertà del paziente consapevole è un valore assoluto, in quanto fondato sulla congruenza totale tra salute e identità della persona138.

In questo nuovo contesto dove “l’offerta di assistenza è legata all’effettiva conoscenza dei bisogni umani e fondata sui risultati di terapie seriamente sperimentate e la richiesta, d’altro canto, è cosciente e consapevole, il consenso finisce dunque per perdere il suo tradizionale carattere di elemento formale o di manifestazione di un incontrollato dato individuale, per assumere il valore di una compiuta volontà partecipativa all’intervento

138 F. BASAGLIA, La distruzione dell’ospedale psichiatrico, in F. BASAGLIA, P. TRANCHINA (a cura

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sanitario e quindi strumento particolarmente efficace di tutela reale della personalità del paziente”139.

È indicativo in tal senso che il legislatore della riforma abbia voluto integrare la disciplina in commento prevedendo espressamente l’obbligo a carico degli operatori dei servizi e presidi sanitari di accompagnare le misure “imposte” con “iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione” del paziente. In questo contesto infatti la volontarietà del trattamento autorizza il pieno dispiegamento del diritto alla salute, declinabile nella sua struttura complessa di diritto di libertà e di diritto sociale. Connesso a tale ultima considerazione è il richiamo, nell’art. 33 della legge n. 833/1978, al “rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici”, che si rappresenta come un limite, ovvero come un “controlimite”140 alla condizione di eccezione del

trattamento obbligatorio.

Si possono pertanto considerare contrarie al principio di dignità la mancanza di appropriatezza dell’intervento sanitario o delle sue modalità esecutive, l’uso di terapie non idonee o inefficaci, la somministrazione di farmaci non testati, la mancanza di rispetto per la privacy del paziente e, più in generale, tutti quei principi che si declinano in regole operative volte a valutare l’operato e la condotta posta in essere dai professionisti sanitari nell’attuazione dei trattamenti sanitari.

Le risposte alle sfide della 180 non saranno altre leggi che ribadiscano ancora gli stessi principi, illudendoci che questo basti a realizzarli, ma cambiamenti realistici e concreti nel nostro modo d’essere e di lavorare.

“Bisogna tenere ben salde nella memoria le leggi che hanno segnato conquiste sociali e diritti civili. Bisogna rinunciare a ogni forma di autocompiacimento e adesione fideistica alla funzione salvifica di una legge, di un modello o di un algoritmo. Sono sempre coperte troppo corte o inadeguate. Non aver timore di promuovere idee innovative e di lavorare su progetti e obiettivi ambiziosi, allineare le evidenze scientifiche con la pratica del mondo reale, implementare un’informazione scientifica equilibrata e controllata; ridurre la distanza tra le persone che necessitano di un trattamento e quelle che realmente lo ricevono; ridurre la distanza tra efficacia ed efficienza, applicare concretamente il modello dell’assunzione di decisioni condivise e,

139 L. BRUSCUGLIA, Art. 1, in ID., Commento alla legge 13 maggio 1978, n. 180, in Nuove leggi civ.

comm., 1979.

140 R. ROMBOLI, I limiti alla libertà di disporre del proprio corpo nel suo aspetto “attivo” e in quello

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infine, contrastare l’oscurantismo pseudoscientifico spesso alimentato da pregiudizi ideologici…Abbattere ogni forma di stigma e di discriminazione” (S. De Giorgi, gennaio 2018).

Infine, bisogna monitorare e valutare gli interventi preventivi, terapeutici e riabilitativi considerando non solo adeguatezza, appropriatezza, efficacia ed efficienza ma anche e sempre rispetto e dignità, di pazienti e operatori.