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L 219/2017: altre correlate questioni rilevant

Novità normative e giurisprudenziali in tema di trattamenti sanitari obbligatori.

CAPITOLO 4 – LE DISPOSIZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO (DAT)

4. L 219/2017: altre correlate questioni rilevant

La recente legge sui temi di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, n. 219 del 2017, intende regolarne gli istituti per tutelare il più ampio valore della dignità umana di cui costituiscono applicazione.

Non stupisce, perciò, che il Legislatore abbia approfittato per disporre anche in merito alle connesse questioni delle cure palliative e dell’accanimento terapeutico, nonché per introdurre un ulteriore possibilità di autodeterminazione del malato: la pianificazione condivisa delle cure.

Ebbene, ad una prima lettura del dettato normativo, quest’ultima sembrerebbe non distinguersi dalle DAT.

Il comma 1 dell’art. 5, infatti, prevede che il paziente possa avvalersi della collaborazione del professionista per escogitare la strategia terapeutica che più fedelmente risponda alle volontà del primo rispetto alla progressione patologica di una malattia “cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta”.

La legge puntualizza che il medico è vincolato altresì al contenuto della pianificazione.

207 Sul punto si segnala l’aggiornamento reso dal Ministero della Salute su www.salute.gov.it , nel focus

“banca dati delle DAT”.

208 Commissione speciale del Consiglio di Stato, “Parere in materia di consenso informato e di

disposizioni anticipate di trattamento”, n.01991, adottato il 31 luglio 2018 a seguito della richiesta del Ministero della salute del 15 giugno 2018. Si consiglia la lettura integrale del testo, contenente una serie di raccomandazioni interpretative, di carattere operativo, sulle disposizioni anticipate di trattamento.

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Tuttavia, se le DAT regolano preventivamente una situazione morbosa invalidante del tutto eventuale, la pianificazione condivisa delle cure viene formalizzata relativamente ad una malattia già intervenuta.209

Di conseguenza, le prime potrebbero non trovare mai esecuzione, ma la pianificazione condivisa muove dalla constatazione di una situazione patologica grave ed anticipa solo il momento decisionale rispetto all’inevitabile sopravvenienza dell’incapacità di intendere e di volere.

Ovviamente, la pianificazione ex art. 5 sostituisce di fatto, ove vi siano, le disposizioni anticipate redatte precedentemente.

Frequentemente le fasi terminali di numerose malattie croniche degenerative presentano un decorso assai gravoso per il paziente: non c’è dubbio che in simili ipotesi l’assistenza sanitaria debba mutare, perdere di vista la finalità curativa con cui tipicamente si rivolge al trattamento delle acuzie, e occuparsi di garantire al malato “una dignitosa qualità della vita e una fine, se inevitabile, quanto più possibile serena”210.

In tal senso, se l’art. 2 della l. 219, in previsione di una morte imminente, realizza la ragionevole aspettativa del paziente ad un’attività sanitaria finalizzata ad “alleviarne le sofferenze”, non può abdicare alla propria missione anche qualora l’irreparabilità e la sofferenza della condizione clinica dell’assistito conseguano al rifiuto o alla revoca del consenso al trattamento, quest’ultimo, sì, proposto per la cura della patologia.

La libertà di autodeterminazione trova una più decisiva garanzia proprio nell’opportunità di un’assistenza sanitaria che lasci decidere al paziente senza abbandonarlo alla sofferenza derivata dall’eventuale scelta terapeutica sottrattiva, poiché tenuta ad intervenire anche in quel caso, ma nella misura strettamente necessaria ad impedire le penose implicazioni di una morte sofferta.

Differentemente, se il sistema privasse il malato di tale conforto, limitando la presa in carico ai soli casi di adesione alle indicazioni terapeutiche proposte, risulterebbe mortificata l’effettività stessa della sua libertà decisionale: il paziente sarebbe condizionato dalle prevedibili future sofferenze nella scelta del rifiuto o dell’interruzione delle cure.

209 Circa il concetto di pianificazione delle cure, N. COMORETTO, “Testamento biologico e rispetto

della dignità umana. Una prospettiva etico-clinica”, in BioLaw Journal-Rivista di BioDiritto, fasc. 3, 2016.

210 Sul punto, si consiglia la lettura di G. PUGLISI, “Accanimento terapeutico e cure palliative: la legge

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Le cure palliative, in definitiva, consistono in concreto nella somministrazione di terapie farmacologiche in grado di alleviare il dolore e la sofferenza continui che lo stato morboso determina ed hanno lo scopo di preservare il più a lungo possibile la qualità della vita del paziente che attraversi una fase terminale a causa di processi patologici irreversibili ed ingravescenti in atto.

Il fatto che successivamente alla somministrazione possa verificarsi un significativo peggioramento delle condizioni cliniche del paziente, fino al decesso, non rappresenta il sottaciuto riconoscimento legislativo del cd. suicidio assistito, ma un rischio probabile cui legittimamente ci si espone nel disegno legislativo di una piena tutela della dignità del malato anche negli ultimi momenti della sua vita.

La ratio della terapia del dolore vive, infatti, nella tutela della dignità individuale nella sua ampiezza e non solo nella tollerabilità fisica del dolore, tant’è che la somministrazione avviene generalmente al domicilio del malato onde aiutarlo a ‘riappropriarsi’ idealmente, per il tempo che resta, della propria confortante dimensione quotidiana, psico-affettiva e materiale.

In analoghe argomentazioni riposa la ragione del divieto legislativo di accanimento terapeutico, che l’art. 2 affida ad una differente e più efficace terminologia ed identifica come “ostinazione irragionevole nelle cure”.

Il medico deve astenersi dall’insistita somministrazione di terapie che non sortiscono gli effetti per cui sono indicate a causa di uno stato morboso particolarmente avanzato per il quale sussistano una “prognosi infausta a breve termine” o “imminenza di morte”.

L’irragionevolezza cui fa cenno il testo normativo si riferisce alla superfluità di trattamenti cui l’organismo malato non reagisce migliorando, ma soltanto protraendo un’attività biologica e non più umana.

Le potenzialità dei dispositivi medico-tecnologici dei nostri tempi consentono di tenere in vita un soggetto artificialmente, pur senza poter incidere sulla patologia in essere, per un tempo indefinito certamente superiore a quello che il solo processo degenerativo impiegherebbe per condurlo al decesso.

Ci si chiede se il diritto alla vita debba imporsi anche a costo di rendere ostile l’esistenza a chi ne vive il corso, o se invece debba considerarsi preminente il diritto di ognuno a disporne senza condizionamenti.

Limitatamente, cioè senza ancora aprirsi all’eutanasia, la legge risponde oggi con favore rispetto alla seconda ipotesi, sostenendo il valore della dignità umana:

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secondo un incedere ‘hegeliano’, l’ordinamento considera dapprima il bene giuridico della vita, poi lo discute e concepisce la possibilità per ognuno di autodeterminarsi anche negandolo ed infine ne restituisce la versione evoluta al cittadino, affermando la prioritaria considerazione della dignità della persona.

5. Ancora un messaggio dalla Corte Costituzionale: l’ordinanza sul ‘caso Cappato’

Una questione ancora aperta, che il Legislatore ha inteso escludere dai contenuti della l. 219/2017 non senza destare polemiche, è quella sull’eutanasia: riducendone la definizione ai minimi termini, per trarne l’essenzialità del suo significato, il termine indica letteralmente una ‘buona morte’, priva di turbamento.

Più in concreto e diversamente dal rifiuto alle cure poc’anzi approfondito, l’eutanasia rappresenta la possibilità per ciascuno di disporre del proprio corpo pienamente, fino alla decisione di interrompere le continue sofferenze procurate da una malattia terminale, o gravemente cronica e con prognosi infausta, beneficiando di un’assistenza socio-sanitaria che si occupi di indurre la morte, anziché aspettare che lo spontaneo decorso patologico conduca in modo travagliato e dopo un intollerabile periodo di agonia al medesimo epilogo.211

La ragione per cui numerose associazioni, larga parte dell’opinione pubblica e le famiglie di molti malati gravi sostengono la necessità di un intervento legislativo in merito fa leva su argomentazioni concettuali che, lungi dal nutrirsi di astrazioni asfittiche, hanno un rilievo quantomai pragmatico.

In altri termini, l’eutanasia completerebbe il processo già in atto di realizzazione del principio costituzionale all’autodeterminazione dell’individuo, rendendo effettiva una libertà di scelta che oggi, in realtà, è possibile esercitare nel solo già delimitato novero di opzioni legislativamente riconosciute e recentemente implementate con l. 219/2017.

L’introduzione normativa delle DAT fornisce uno strumento operativo per rifiutare o interrompere i trattamenti sanitari, tutelando sia il rispetto di quanti valutino preziosa l’assolutezza del diritto alla vita, sia il rispetto della dignità di pazienti che

211 In merito alla distinzione tra eutanasia passiva ed attiva, si veda S. CANESTRARI, “Principi di

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reputino invece dequalificante permanere ad libitum in una condizione di sopravvivenza biologica incosciente che i soli dispositivi terapeutici in funzione consentono.

Purtroppo, le DAT non bastano a chi vive, invece coscientemente, le sofferenze indicibili di patologie terminali e trova sollievo nella sola idea di una morte anticipata e senza dolore, che tuttavia si scontra con l’approssimativa associazione dell’eutanasia ad un atto omicidiario.

L’argomento ha ultimamente trovato occasione di dibattito con riferimento al caso di Fabiano Antoniani (“Dj Fabo”): cieco e tetraplegico a causa di un incidente stradale, nel 2017 sceglie il suicidio assistito, ma deve recarsi nella clinica svizzera Dignitas; ad accompagnarlo è Marco Cappato, sostenitore dell’eutanasia legale con l’Associazione Luca Coscioni, di cui è tesoriere.

Cappato, dopo aver accompagnato Antoniani in Svizzera, autonomamente decide di costituirsi alle autorità, denunciando di aver posto in essere la fattispecie di reato che l’art. 580 del codice penale rubrica e punisce come ‘istigazione o aiuto al suicidio’.

Sebbene la Procura di Milano decida di procedere all’archiviazione, sostenendo che la condotta di Cappato di fatto avesse solo agevolato Fabo nell’esercizio del proprio diritto ad una morte dignitosa, l’imputazione coatta del Gip innesca un procedimento penale che la Corte d’Assise consegna ai giudici della Consulta, affinché decidano se l’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p. possa considerarsi conforme o contrario al dettato costituzionale e se, in subordine, possa essere equiparato al reato di istigazione al suicidio ed accedere al medesimo trattamento sanzionatorio, presumendosi un identico disvalore.212

Nell’ordinanza di remissione i giudici della Corte d’Assise hanno sostenuto la manifesta fondatezza della questione di legittimità argomentando che Cappato non ha esercitato un ruolo determinante nella maturazione della volontà di Dj Fabo rispetto alla morte, influenzandolo o persuadendolo, ma ne ha, anzi, rappresentato solo la sua longa manus, e che la libertà di ognuno di decidere come e quando morire è già insita nel dettato costituzionale.

212 P. Bernardoni, “Tra reato di aiuto al suicidio e diritto ad una morte dignitosa: la Procura di Milano

richiede l’archiviazione per Marco Cappato”, in Penale contemporaneo, fasc. 5, 2017; Id., “Aiuto al suicidio: il Gip di Milano rigetta la richiesta di archiviazione e dispone l’imputazione di Marco Cappato”, ivi, fasc. 7-8, 2017; R. E. OMODEI, “L’istigazione e aiuto al suicidio tra utilitarismo e paternalismo: una visione costituzionalmente orientata dell’art. 580 c.p.”, ivi, fasc. 10, 2017.

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Pertanto, l’aiuto al suicidio sostanzierebbe un’ipotesi irragionevolmente delittuosa alla luce degli stessi principi costituzionali di volontarietà dei trattamenti, autodeterminazione e dignità umana, di cui il codice penale comprensibilmente non tiene conto, giacchè precedente all’entrata in vigore della Costituzione.

Rinunciando apparentemente alla tipicità delle proprie funzioni, la Corte Costituzionale si è pronunciata sul ‘caso Cappato’ con l’ordinanza n. 207 dello scorso novembre 2018, rinviando la decisione di un anno per consentire al Parlamento il tempo necessario ad intervenire ed, ovviamente, protraendo la sospensione del processo a quo.

Nell’ordinanza si legge che non è, di per sé, contrario alla Costituzione il divieto sanzionato penalmente di aiuto al suicidio.

Tuttavia, occorre considerare specifiche situazioni, “inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”.

Per questa ragione, l’aiuto al suicidio “può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare”

E’ evidente la vicinanza delle posizioni dei giudici alle ragioni dell’autodeterminazione del malato e del rispetto della sua dignità personale, ma la Corte ha preferito consegnare al Legislatore queste argomentazioni, evitando opportunamente di spingersi fino a dichiarare incostituzionale l’art. 580 c.p., nell’intuizione della dimensione più ampiamente politica delle implicazioni insite in una simile pronuncia.

In definitiva, occorre aspettare, ma indubbiamente delude che la giurisprudenza abbia dovuto porre un termine ad un organo dello Stato, sollecitarne il recupero delle sue funzioni e ricordare che è compito del Parlamento decidere come l’ordinamento debba porsi rispetto all’eutanasia, consentendo implicitamente di giudicare la condotta di Marco Cappato.

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