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Il cimitero, nel modo in cui viene inizialmente concepito dagli uomini dei Lumi, ci appare come uno spazio spoglio, disadorno, un salubre deposito verso cui fare confluire l’ordinata evacuazione dei morti dalla città. Questi nuovi recinti si presentano come uno spazio contrapposto non solo alla città, ma anche alla campagna, un terreno cioè neutro, all’interno del quale non sono ammessi i segni dell’antico rituale religioso, sospetto di superstizione.

Questa spietata, ma necessaria dimensione del nuovo mondo delle sepolture non ammette inizialmente la presenza di alberi, che con le loro masse frondose possono imbrigliare le correnti d’aria e costituire un serio pericolo per il mantenimento dell’assoluta salubrità del luogo.

Il mondo vegetale è comunemente assente anche dalla tradizione degli antichi cimiteri cristiani posti apud ecclesiam; si tratta di spazi esigui e, nel caso vi siano campi di una certa dimensione, la chiesa normalmente vi vieta la presenza di qualsiasi forma di vegetazione, per paura che subentrino forme di sfruttamento del terreno.

L’assenza di alberi nei primi cimiteri settecenteschi è dovuta in parte all’estrema essenzialità con cui si concepisce lo spazio, senza particolare interesse per l’apparato decorativo, ma è soprattutto conseguenza di una prescrizione di carattere igienico. Il cimitero deve essere spoglio e l’aria deve poter circolare libera, senza incontrare ostacoli che possono provocare ristagni e ne compromettano la purezza: né alberi

quindi, né angoli morti anche la forma circolare del recinto proposta, ad esempio, da Capron per Parigi nel 1782 è traduzione fisica di questo concetto. Sono ammessi, semmai, nei viali di accesso al cimitero, cipressi o pioppi italici che, posti fuori dai suoi confini, rammentano immagini funerarie dell’antichità classica e ci avvertono della destinazione data a quel luogo.

Occorrerà aspettare il Decreto napoleonico del 1804 per prendere atto in sede ufficiale di una misurata immissione delle piante nei cimiteri, quando ormai da tempo nelle relazioni degli architetti si cerca d’incoraggiare l’introduzione degli alberi non solo per ragioni estetiche, ma rendere familiare la morte attraverso un’immagine più amabile e gentile che elegge spesso il giardino a luogo della memoria, immettendovi sepolcri e cenotafi, siti per la meditazione, urne e tempietti.

L’idea di esorcizzare la durezza della morte e della solitudine attraverso la bellezza ambientale, di convertire un dolore in soave sentimento, entra come è noto nella cultura romantica del primo Ottocento, estendendosi dal ―giardino di pochi‖ al ―giardino di molti‖ e trovando la sua esemplificazione più famosa nel cimitero parigino del Père - Lachaise.

Un grande parco può essere la sede appropriata per offrire asilo alle sepolture di tutti i cittadini, conciliando al suo interno valori educativi,

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morali ed affettivi, inoltre la sua collocazione, fuori dalla città, costituisce una soluzione al problema urbano dell’igiene.

Il cimitero sarà infine un luogo di malinconiche passeggiate, nel corso delle quali il saggio cittadino si intrattiene dinanzi alla tomba dell’amico o di un uomo valoroso, abbandonandosi a quella ―mélancolie voluptueuse‖ che fa seguito alla vista di un monumento funerario. Nel corso di questa esperienza l’immagine della tomba, che in questo nuovo contesto raccoglie sia i segni della caducità umana che quelli della ―immortale‖

bellezza della natura, suscita nell’uomo sensazioni contrastanti, che sono origine di un sentimento malinconico. Questo gusto francese per il sentimento malinconico associato alle tombe porta alcuni ricchi proprietari alla ricerca affannosa di una sepoltura che dia lustro al proprio giardino: il conte d’Albon accoglie a Franconville la tomba del linguista protestante Court de Gébelin, morto nel 1784, a cui faranno seguito altri monumenti commemorativi; il marchese De Girardin non si ferma alla tomba di Rousseau: sistema in un’altra isola del parco quella del pittore Meyer ed altrove quelle ―simple et negligée‖ di uno sconosciuto trovato suicida nei pressi dell’sola dei pioppi. Infine Beaumarchais, non avendo morti celebri da collocare nel proprio giardino parigino, prepara in anticipo un monumento funebre per se stesso.

L’editto napoleonico di Saint Cloud (promulgato nel 1804 ed esteso nel 1806 sul territorio italiano) vietava definitivamente le sepolture intra moenia e stabiliva che i defunti, senza distinzione di censo

o di nascita, dovessero essere sepolti in appositi spazi allestiti per cura dei municipi. Un provvedimento che fu denso di conseguenze sull’architettura dei cimiteri andando ben oltre le asettiche disposizioni di polizia urbana, poiché la previsione di spazi affidati alla gestione pubblica, innescò un graduale processo di nobilitazione dei luoghi di sepoltura aprendo nuovi territori al progetto, sia di tipo socio-culturale, sia di tipo tecnico, architettonico e artistico in senso lato.

Potremmo anche dire che dopo quest’evento il progetto di un cimitero uscì dall’ambito degli esercizi, delle idee e delle prefigurazioni, per entrare in quello dell’architettura praticabile, ereditando gran parte delle teorie, dei tipi, delle istanze settecentesche, ma adattandole ai contesti reali.

Il panorama italiano è a questo riguardo assai significativo a partire dai primi anni della Restaurazione fino a tutto il secolo XIX e il primo decennio del XX e il paese sembrava del resto nutrire una particolare vocazione all’arte cimiteriale, poiché qui gli antichi avevano già grandemente sviluppato la civiltà dei sepolcri, qui si trovava il fulgido esempio del trecentesco Camposanto di Pisa e qui una città come Bologna aveva istituito, per cura della municipalità già dal 1801 (anticipando quindi l’editto di Saint Cloud e anche i più celebri cimiteri parigini), un nobile luogo di sepoltura nei chiostri della Certosa soppressa nel 1799.

La situazione era inoltre in movimento, evolvendo mano a mano che il tema del cimitero si definiva nei programmi municipali e si insinuava nelle coscienze sia come misura di

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civiltà collettiva, sia come conquista di libertà individuale. Ha quindi inizio un’intensa attività progettuale scandita dal rapido succedersi di proposte e realizzazioni in città come Genova, Brescia, Parma, Torino, Verona, Napoli, Roma, Firenze e ancora Cremona, Como, Modena, mentre per Milano, dove pure si erano avvicendate proposte e idee, bisognerà attendere gli anni dopo l’Unità per avere esiti concreti.

Si tratta di cimiteri che già i contemporanei definivano ―monumentali‖ per le intenzioni solenni che essi incarnavano, dei cimiteri che costituivano vanto e prestigio per l’intera città, tanto da diventare gli indici più espliciti di una buona e moderna amministrazione. Non a caso i commenti dell’epoca parlavano del camposanto di Bologna qualificandolo tra i ―più magnifici monumenti cittadini‖, del Verano di Roma considerandolo ―utilissimo e necessario adornamento della città dei Papi‖, mentre del camposanto di Verona si sottolineava il significato di ―autentico monumento patrio‖ che avrebbe procurato al suo architetto Giuseppe Barbieri ―fama e gloria perpetua‖ anche se questa fosse stata la sua unica opera.

È inoltre interessante notare come, in diversa misura, questi cimiteri della prima metà dell’Ottocento, sembrino effettivamente ereditare l’epos delle proposte settecentesche, ivi compresa la grandiosità, la drammatizzazione, certa energia visionaria. Lo dimostra il cimitero di Brescia, il primo costruito ex novo con intenti monumentali (su progetto dell’architetto Rodolfo Vantini a partire dal 1815).

Il suo recinto ospita una vera tomba a piramide, destinata al curato beato Bossini, e una colossale colonna dorica alta sessanta metri e dedicata a tutti i defunti che, da un lato rievoca la tradizionale ―lanterna dei morti‖ medievale, ma che, dall’altro, è sintomo dell’ambizione a eguagliare le meraviglie del faro alessandrino.

Lo dimostra anche il cimitero di Verona con i suoi ordini austeri, il linguaggio scarno, le geometrie marcate e i peristili infiniti; lo dimostra il Pantheon di Staglieno a Genova (architetti Carlo Barabino e Giovanni Battista Resasco, dal 1835), con il suo dorico - pestano che perviene ad una tra le declinazioni più eroiche e solenni del neoclassicismo.

L’arte funeraria ottocentesca recupera dal vasto repertorio della storia ogni possibile immagine con uno spirito eclettico analogo a quello riscontrabile in architettura. I cimiteri divengono così una sorta di museo, una città di pietra, una successione contratta, quanto mai suggestiva, di statue, piramidi e obelischi: i gruppi marmorei vengono inquadrati dall’architettura delle cappelle, isolate ma poste l’una accanto alle altre in una sequenza che

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richiama il ritmo delle navate laterali delle chiese.

La morte borghese si propone attraverso opere rese realistiche sino all’ossessione: il defunto e i suoi familiari sono raffigurati con una minuziosa cura di ogni più piccolo particolare. La pietra diviene morbido tessuto, finissimo merletto vibrante di un immobile moto perenne.

La moderna cappella funeraria appare dunque il prodotto delle graduali, lentissime elaborazioni della tomba ipogea etrusca arricchita degli elementi propri dell’architettura e dell’arte scultorea rinascimentale e barocca.

L’Ottocento, segnato dall’affermazione degli ideali borghesi, darà un nuovo senso alla sepoltura: non più tombe individuali per uomini illustri, le cappelle sono luoghi privati posti all’interno del recinto cimiteriale, dedicate il più delle volte ad una sola famiglia, recintate e chiuse, dove il defunto trova riposo per sempre, al riparo dal tradizionale trasferimento negli ossari, e dove i familiari possono riunirsi per pregare e per assistere alle funzioni religiose.

Lo spazio in cui l’architetto concepisce cappelle o tombe di famiglia nei cimiteri di nuova fondazione è generalmente ampio, e lo spirito del progettista è libero di poter soddisfare le esigenze di colui che, in vita, predispone la sua ultima dimora. Ecco allora apparire, soprattutto sul finire del XIX secolo, templi funerari dall’apparato decorativo e simbolico ridondante nel tentativo di inseguire il sogno superbo e vanitoso del suo committente. La presenza pervasiva di piramidi, obelischi, sarcofagi, sfingi caratterizza la gran parte dei cimiteri europei ottocenteschi. I resoconti delle spedizioni e i

rilievi eseguiti in Egitto da viaggiatori inglesi settecenteschi come Norden, Pocock o Dalton, quindi divulgati attraverso specifiche pubblicazioni in tutta Europa, contribuiscono alla conoscenza e alla diffusione di elementi decorativi e architettonici "all’egiziana" che, nel migliore dei casi, troveranno completa interpretazione nell’architettura come organismo, ma che, per la maggior parte, verranno interpretati, in una tipica operazione di

"saccheggio", come fonti da cui dedurre didascalicamente singoli episodi.

Motivi egizi, neogreci, neoromani, neogotici, ma anche neoindiani, neomoreschi, vengono impiegati - spesso pasticciati tra loro - tanto nell’architettura civile e religiosa, quanto nell’architettura delle cappelle funerarie, quando si intende sottolineare un carattere ed evidenziarlo rispetto agli altri.

Forme perenni, atemporali, silenziose ma eloquenti della memoria della vita definiscono l’immagine della città dei morti che dall’Ottocento torna ad essere, come lo era stata nel passato, lo specchio, il doppio della società dei vivi e, contemporaneamente, l’analogon urbis, lo scenario dell’evento del lutto, in cui si collocano le rappresentazioni eterogenee delle singole cappelle private.

Tra le due città, quella sotterranea dei morti e quella superiore dei vivi si pongono le tombe,

"monumenti - come scrive Bernardin de Saint - Pierre nel 1784 - posti alla frontiera di due mondi".

Mondi complessi che riecheggiano nei motivi funerari di tombe e cappelle, da una parte attraverso l’adozione di forme tratte

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dall’architettura domestica e dall’altra mediante l’uso pervasivo di elementi allegorici e riferimenti simbolici al lugubre, all’oscuro.

La morte, che nella maggior parte delle culture è rappresentata da uno scheletro che libra una falce e porta con sé una clessidra, simbolo del lento scorrere del tempo infinito, nell’antica Grecia ha le sembianze di un giovane dalle ali nere, Thanatos, figlio della Notte e gemello di Hypnos, il sonno. A volte appare invece come un bambino scalzo, come un anziano o come una donna vestita di nero, alata e con una grande rete.

L’allegoria dell’eternità è un serpente che si morde la coda, simbolo ambivalente che collega la vita e la morte. La figura circolare generata dal serpente evoca allo stesso tempo la volta celeste e la sfera terrestre: i due mondi al limite dei quali è posta la sepoltura.

Il dolore viene raffigurato in forme distinte:

come un uomo anziano, assorto a guardare una torcia spenta eppure ancora fumante o come una donna che tiene al collo un piccolo o che abbraccia la stessa tomba.

E poi ancora: ali aperte a simboleggiare la capacità di sapersi sollevare dal peso della vita;

ancore intrecciate con reti o delfini come simboli della fede e della speranza; insetti quali l’ape, simbolo dell’anima, o lo scarabeo, simbolo della resurrezione; animali delle tenebre come la civetta che rappresenta la prudenza e la saggezza, o il pipistrello simbolo della notte e dell’aldilà;

cani, guide delle anima nell’aldilà, simboli della fedeltà e della vigilanza; galli, simboli, secondo l’interpretazione cristiana, della resurrezione;

pesci, il cui termine greco Ichthys è un acrostico di ―Iesous Cristos Theou Hyios Soter‖, ovvero Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore; e quindi:

porte socchiuse, simbolo del confine; spirali e labirinti associati all’idea di un difficile percorso che porta alla resurrezione; sole e stelle splendenti simboli delle divinità, dell’immortalità.

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1.10 XX secolo: verso un’architettura