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―Poiché la morte - a veder bene - è il vero fine ultimo della nostra vita, da alcuni anni mi sono tanto familiarizzato con questa vera, ottima amica dell’uomo, che la sua immagine non solo non ha per me più nulla di terrificante, ma ha invece molto di rassicurante e confortante! E ringrazio il mio Dio d’avermi benignamente concesso la fortuna e la possibilità (voi mi capite) di conoscerla come la chiave della nostra vera felicità.

Non vado mai a letto senza considerare che forse - anche se ancor giovane – l’indomani non sarò più su questo mondo. E di tutti quelli che mi conoscono non c’è nessuno che possa dire che io sia scontroso o triste. E ringrazio ogni giorno il mio Creatore per questa felicità, che auguro di cuore a tutti i miei simili‖.

W. A. Mozart

Queste parole tratte dall’ultima lettera di Mozart scritta al padre Leopold il 4 aprile 1787 scandiscono con una nota positiva il rapporto con la morte in uno stretto legame con la musica, quel rapporto che consentiva all’uomo antico, con il suo senso religioso, di vivere accanto alla morte, acquistandone, a volte, una confidenza che è rimasta in certe società povere: per esempio nella Napoli di qualche decennio fa c’era questa confidenza con i morti e il cimitero di questa città era diverso dai cimiteri di tutto il mondo.

Anticamente lo spazio dei morti era uno spazio fondamentale nelle città, anche se in qualche

modo separato. Basti pensare alle necropoli etrusche che a volte ricoprivano un’estensione molto maggiore dei centri abitati, ed al fascino particolare del Cairo, in cui la città dei morti è una specie di seconda città, dei morti appunto, ma vissuta dai vivi in una forma ben diversamente intensa rispetto a quello che è poi la realtà della dimora dei morti nella città moderna.

Esaminare le soluzioni tipologiche date a questo problema vuol dire in fondo mettere a fuoco diversi tipi di rifiuto della morte che ci sono nella nostra società, soprattutto occidentale, e quindi scoprire la povertà della città moderna rispetto decreto napoleonico del 1804 ha trasformato radicalmente la struttura cimiteriale relegando il cimitero al di fuori del nucleo abitato secondo una rigida regolamentazione e determinate distanze di rispetto. L’espulsione dei cimiteri dalle chiese, da dentro a fuori la città è esattamente il rispecchiamento di quello spostamento di interessi che c’è nel passaggio coincidente, più o meno, con la rivoluzione francese, tra una società religiosa, sia pure giunta all’esaurimento della sua ragion d’essere, e una civiltà invece post-religiosa che vive in un certo senso nel ricordo della sua religiosità, ma in una forma alienata, scoordinata. Quindi lo sfondo in cui va vista questa analisi dettagliata, minuziosa

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delle diverse soluzioni date a questo problema va messa sullo sfondo del processo di esorcizzazione della morte: è qualcosa che si vuole dimenticare, qualcosa in cui si vorrebbe non credere.

Ci si comporta di solito come se in fondo fosse qualcosa di remoto, di inimmaginabile, di lontano.

La nostra epoca, che indica prioritari nella scala dei valori l’efficientismo e il consumismo, rifiuta il significato della morte, che è il segno forte dell’inefficienza e dell’annullamento, considerandola come elemento oppositivo ai suoi valori emblematici. L’uomo moderno, quindi, vive un rifiuto concettuale della morte, se prima si moriva in casa, si partecipava al rito della fine, oggi invece il defunto è allontanato dall’ambiente domestico, perché si preferisce non vedere, non ricordare, non partecipare.

Il disegno dell’ampliamento delle aree cimiteriali è poche volte, negli ultimi decenni, integrato con la preesistenza, quasi mai considerata area da rispettare, bensì area da non conoscere; è questa non conoscenza non solo dei luoghi, ma forse proprio il rifiuto dell’argomento. Come per le città dei vivi, esiste la necessità della salvaguardia dei nuclei antichi e del recupero della periferia cresciuta disordinatamente all’insegna dell’urgenza di soluzione per una realtà, la morte, che non ha l’eguale per possibilità reale e concreta di programmazione.

L’epoca moderna dopo aver racchiuso la morte nel ghetto tenta di organizzare questo culto in modo tale da renderlo accettabile e in qualche caso addirittura consolatorio per gli abitanti della città.

La conoscenza delle antiche civiltà ci è pervenuta attraverso le immagini dei luoghi legati al culto dei morti: è quindi importante che sia mantenuto tale culto educando anche le generazioni più giovani al rispetto del passato. Infatti lo spazio che noi abbiamo riservato alla presenza dei morti è non più città ma in un certo senso quartiere o addirittura ghetto dei morti che le note urbanistiche addirittura vogliono più distante possibile dalla zona abitata, separato da una cosiddetta zona di rispetto, che in effetti non è altro che la proiezione sulla carta della paura della morte che pervade la nostra società.

Il rispetto delle aree monumentali, già presente nella tradizione culturale per le città dei vivi, deve entrare nella cultura delle aree cimiteriali che, per la loro funzione, svolgono quel ruolo di specchio della società restando come riferimento nel tempo.

La conoscenza dei luoghi della memoria, stimolata dall’idea di parco cimiteriale, di giardino dei silenziosi, dalla concentrazione di opere d’arte in questi luoghi per sviluppare il senso di museo presente nei cimiteri, si muove ancora però nel terreno poco fertile della cultura moderna.

CAPITOLO 2

Giovanni Lamedica: un percorso di

architettura laicamente religiosa

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Capitolo 2

Giovanni Lamedica: un percorso di architettura laicamente religiosa

2.1 Alle radici di una professione: la costruzione di un‟esistenza... 47

2.2 Anatomia di una città ... 53

2.3 Riferimenti alla Psicoguida ... 62

2.4 Curriculum illustrato delle principali opere ... 65

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2.1 Alle radici di una professione: la costruzione di un’esistenza

Per comprendere adeguatamente il modo di intendere l‟architettura da parte dell‟architetto Giovanni Lamedica, il suo modo di relazionare il costruito con il paesaggio, l‟idea-guida che ha ispirato un‟intera esistenza professionale, è opportuno far parlare l‟architetto, perché le sue parole possono essere di grande aiuto per una comprensione più piena delle sue scelte progettuali.

Qual è stata la sua formazione scolastica e come ha influenzato il suo “affacciarsi” al mondo dell’architettura?

Ho frequentato tutte le scuole a Fano con la sola breve, ma tragica parentesi di un anno a Montemaggiore in occasione dello “sfollamento”

per il passaggio del fronte bellico della seconda

“Fabbrica dei Gentiluomini” (o quasi), come dice Ugo Cenni dei Fratelli delle Scuole Cristiane.

Dopo aver conseguito la maturità, i miei si trasferirono a Roma dove mio padre era stato chiamato a ricoprire un ruolo di prestigio presso il ministero delle Partecipazioni Statali. Io mi iscrissi alla Facoltà di Architettura di Valle Giulia i cui docenti erano, alla fine degli anni cinquanta, i maestri indiscussi che avevano segnato la storia dell‟architettura italiana della prima metà del XX

secolo. Docenti come Fasolo, Del Debbio, Marini, Muratori, Plinio Marconi, Cestelli-Giudi, P.L. Nervi, De Angelis D‟Ossat, Zevi, Quaroni… e tanti altri… e i giovani L. Benevolo e P. Portoghesi che avevano già fatto capire, per la loro grande preparazione, cosa avrebbero poi fatto nei decenni successivi dopo quella significativa prima esperienza di docenza a Valle Giulia. Sono stati i maestri che hanno chiuso l‟epoca espressa dalla cultura razionalista e avviato il processo del post-moderno. Si andava cioè delineando il passaggio dall‟architettura razionalista all‟architettura post-moderna.

Tornato a Fano nel 1962, che cosa ha trovato?

Giancarlo De Carlo a Urbino aveva realizzato opere fondamentali e redigeva il PRG in modo magistrale. Anche Leonardo Benevolo è stato presente a Urbino e più tardi anche Arnaldo Pomodoro con il suo progetto del nuovo cimitero che aveva suscitato dibattito e critiche a livello nazionale e che mi ha suggerito il progetto per il Cimitero dell‟Ulivo.

La mia prima opera, l‟adeguamento liturgico del presbiterio della Cattedrale di Fano (vedi figura),

fu un intervento del tutto nuovo, delicato e

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difficile perché legato al cambiamento voluto dai Padri Conciliari del Vaticano II.

Come si è trovato ad operare un architetto in una città di provincia, alla fine di un millennio?

Le mie prime opere, da subito, dialogano fra la lezione del “moderno” e la cultura del luogo con l‟attenzione al “genius loci” teorizzato, proprio in quegli anni, da Norbert Schults, che ebbe una grande importanza nel delineare un‟architettura contrapposta alla progettazione standardizzata, in cui si era sclerotizzato il movimento moderno.

Realizzo così il nuovo monastero delle Benedettine, alle prime propaggini di Montegiove. È un‟opera che si inserisce in un bosco di ulivi, un‟ architettura apparentemente modesta che non prevale sull‟ambiente, che resta protagonista del luogo: l‟ulivo è più alto del Monastero, predomina il prospetto.

L‟architettura, pur nella sua attualità e funzionalità, tiene in massimo conto la cultura della tradizione monastica e la storia del luogo.

La sola funzionalità è superata da una forma rispettosa dell‟ambiente. Quasi senza che me ne

accorgessi, stavo sperimentando l‟abbandono del geometrico “moderno” per realizzare un‟opera, apparentemente modesta, giacché gli ulivi secolari conservano la loro autorevolezza e la cultura del luogo non è alterata. Quindi, la mia prima esperienza, rappresentata dalla realizzazione di questo Monastero, prende forma nel rispetto dell‟ambiente e ogni materiale, ogni forma, ogni dimensione sono dettati dal luogo in cui si inserisce e nel rispetto di esso. Proprio nell‟intento di perseguire una mimesi profonda tra architettura e luogo, non lascio vedere il monastero da lontano, ma permetto che si scopra gradualmente, entrando nel bosco degli ulivi: percorrendo un sentiero pedonale si può scorgere questa forma architettonica che prende molto dalle case coloniche marchigiane (nei materiali, ad esempio, riprende l‟uso dei mattoni della tradizione locale). Ho operato quindi un‟innovazione nella composizione e funzione dell‟edificio, ma nel rispetto dell‟ambiente.

In quegli anni i maestri internazionali di riferimento erano, per me, certamente Le Corbusier, specie dopo lo “strappo” della cappella di Notre Dame du Haut di Ronchamp che segnò il passaggio dalla geometria algida all‟emozione che esalta forme evocanti (questo di Ronchamp è stato vissuto come il “tradimento”

di Le Corbusier nei confronti del razionalismo).

Poi sicuramente Michelucci, con la sua ardita e poetica chiesa dell‟Autostrada. Il gesto libero dell‟architetto si concretizza nella struttura assolutamente non più soggetta a forme standardizzate che trovano sviluppo nella chiesa sotto le pendici del monte Titano a S. Marino.

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Cappella di Notre-Dame-du-Haut di Ronchamp di Le Corbusier (1950)

Chiesa di San Giovanni Battista, chiamata anche Chiesa dell’Autostrada del Sole di G. Michelucci (1960)

Non esiste un prospetto in senso classico, la chiesa sembra un frammento di roccia staccato dal monte Titano e precipitato verso valle. La sua architettura è una continua “sorpresa”, come ad esempio la porta di ingresso che in realtà non conduce alla chiesa, ma ad un camminamento che termina in una balconata che si affaccia sull‟aula - chiesa; la composizione non appartiene più alla razionalità e alle forme geometriche pure del moderno, ma alla sorpresa e alla creatività.

Più tardi la nuova chiesa di Longarone diventa il monumento (in senso etimologico) della tragedia dello smottamento del monte Toc. La forma

della chiesa nasce proprio dal movimento circolare e impetuoso dell‟acqua che ha inondato la vallata ed è risalita verso la parte alta della sponda opposta.

Già con queste opere è necessaria la riflessione sullo spazio sacro e perché è indispensabile ricorrere a nuove tipologie. Infatti caduto il modello di chiesa, che per secoli aveva caratterizzato la sua forma con sole variazioni stilistiche legate alla cultura del proprio tempo, per le chiare indicazioni del Concilio Vaticano II, vengono definite nuove norme, nuove direttive.

Ciascun progettista si è dovuto porre il problema di come interpretare le nuove istanze. Nascono nuove forme, ben lontane dalla forme consolidate della tradizionale pianta a croce greca o a croce latina, che per circa duemila anni sono rimaste essenzialmente le stesse. Tutti i più grandi architetti furono costretti a riflettere su cosa volesse dire progettare una chiesa in quel tempo di forte e deciso cambiamento, non solo liturgico, ma anche socio-culturale. Infatti il rifiuto dei modelli già storicizzati riguarda anche l‟architettura civile e la pianificazione urbanistica che proprio in quegli anni fu protagonista nei piccoli e grandi comuni. Il D.M. 21 agosto 1965 fornì l‟elenco dei Comuni che, a partire da quella data, furono obbligati a redigere il piano regolatore o i programmi di fabbricazione. È così che ebbi l‟incarico di redigere il P.R.G. di Fossombrone e tanti Piani di Fabbricazione di comuni della valle del Metauro. Furono anni di grandi cambiamenti di usi e di costumi della società che è già del benessere e del consumismo illimitato.

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Cosa è successo a Fano?

L‟eco del dibattito internazionale giunge anche nella nostra città. Nella mia attività professionale, sia pure in una condizione di solitudine per la mancanza di un dibattito culturale locale, era viva, tuttavia l‟attenzione e lo stimolo per inserire le mie proposte architettoniche nella nuova realtà. Hans Sharon realizza in quegli anni la Philharmonie di Berlino puntando su forme apparentemente disarmoniche, dinamiche senza nessun riferimento a luoghi analoghi del passato.

Aveva già realizzato il liceo di Lunen, negli anni del dopo guerra, volutamente disarmonico, lontano da un ordine formale, senza corridoi e le aule sono disposte in maniera non ortogonale tra loro, per stimolare la crescita di sentimenti liberi dove l‟architettura appoggia lo sviluppo democratico delle coscienze.

Avviene cioè un cambiamento delle forme che non è mai stato così violento, così forte e viene a cadere ogni riferimento formale alla progettazione del passato; è la prima volta che i progettisti si trovano a realizzare opere diverse, non più standardizzate. Si può sospettare, prevedere, sentire cosa è necessario fare, senza

tuttavia conoscere né l‟immagine né la forma di ciò che alla fine giungerà, che non avrà una forma conosciuta, sarà diverso da tutto ciò al quale siamo stati abituati.

Questo nuovo modo di fare arte e architettura è un fenomeno internazionale, condiviso anche da poeti, scultori, pittori come Calder, Moore, Burri,… che lasciano le vie più consolidate per avventurarsi in forme e contenuti fortemente innovativi. Analogamente l‟urbanistica contemporanea, le nuove abitazioni non sono uguali a quelle del passato e questo spesso porta la maggior parte di noi a dire : “non ci piace”, ma il “non ci piace” è solo una povertà nostra; non abbiamo la grammatica per poter leggere gli edifici contemporanei. La nuova espressione architettonica risulta diversa; non la capiamo e, non avendo il linguaggio per governarla, diciamo che non ci piace, ma si tratta di un giudizio frettoloso e inadeguato.

Parlando di un nuovo quartiere, ad esempio quello di Fenile, si è solito dire che è una bella frazione di Fano, ma che c‟è però un distributore di benzina al suo ingresso…, io vorrei togliere quel però, per dire che c‟è un ingresso caratterizzato da una “stazione di posta”, e pensare questo nuovo luogo, come punto di riferimento di entrata e di uscita che non è poi così diverso da ciò che in passato ha rappresentato l‟ingresso, la porta da oltrepassare per giungere all‟interno del nucleo abitativo.

Quindi bisogna cercare di riconoscere questi nuovi luoghi e questo tentativo nasce da lontano:

Baudelaire, infatti, parla di questi luoghi della modernità, Benjamin parla di questi nuovi luoghi

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della città… I nuovi luoghi della città vengono esaltati anche dai pittori, basti pensare a Sironi, con le sue periferie, autobus, camion, ciminiere,… o allo statunitense Hopper che dipinge un bar notturno, la stazione di benzina, la stazione ferroviaria, scene semplici della quotidianità che vengono esaltate e vengono vissute come fatti importanti. Seguendo queste indicazioni date da altre forme d‟arte, è possibile capire con più facilità la contemporaneità.

Marc Augè, sociologo urbano francese, parla dei “non luoghi” della modernità: gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, i grandi supermercati… e questo concetto di “non luoghi” mi ha sempre affascinato. Tuttavia oggi dobbiamo confrontarci anche con questi non luoghi, che devono essere metabolizzati dalla società contemporanea, pur essendo diversi, lontani dai luoghi consolidati dalla consuetudine e dalla intimità urbana.

Aalto è stato il mio più forte riferimento; la sua architettura supera il moderno con forme e contenuti materici, più liberi e che, paradossalmente, sono assai vicini alle architetture storiche dei territori del centro Italia.

Centro parocchiale di Riola di Alvar Aalto (1965)

Chiesa di S. Maria a Calmazzo di Fossombrone, di G.

Lamedica (1980)

Ho subito anche il fascino della forte e possente progettazione di Kahn e della sua grande attenzione alla materia di cui era fatta l‟opera.

La First Unitarian Church and School di Louis I.

Kahn, a Rochester, New York (1969)

Centro comunitario a Bellocchi, Fano (1970) di G.

Lamedica

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In una conversazione con lo psicoterapeuta Hillman diceva che prima di progettare si chiedeva e chiedeva ai vari componenti la sua opera...”… tu sei mattone? Cosa vuoi essere…

voglio essere arco!”… forse nel rispetto di queste singole vocazioni nasce l‟opera vera, autentica.

In Germania, all‟inizio degli anni ‟80, si pubblica la Grune Carte e il prof. Grebe a Herlanghen ne realizza i principi fondamentali. A Fano la mia “Carta del verde” esprime la risposta alla crescita disordinata della città e dà delle indicazioni puntuali ed innovative per l‟organizzazione del territorio dove lo spazio vuoto disegna il pieno. È una progettazione urbanistica dove non si dà importanza alla zonizzazione, ma si dà valore e attenzione a realtà diverse da quelle che siamo abituati a considerare, come i venti dominanti, il verde, i percorsi pedonali e ciclabili, il connettivo urbano per organizzare la città. Cervellati definì questo mio documento “un nuovo modo di fare urbanistica”.

La mia attività professionale è stata prevalentemente di committenza pubblica, quella privata è stata assai limitata. Questo, tuttavia, mi ha permesso di avere una storia professionale attenta al bene e ai bisogni collettivi. Ne sono una testimonianza il nuovo Cimitero dell‟Ulivo di Fano, l‟ampliamento di quello di Mondolfo e di Mombaroccio e, per gli spazi più piacevoli, il lungomare di Sassonia, novità assoluta per gli anni ‟80, la grande zona sportiva della Trave.

Lungomare di Sassonia, Fano (1982) di G. Lamedica

Mi sono speso in un radicamento forte nella realtà di Fano animando convegni, conferenze, scritti, articoli sulla stampa locale con la convinzione che la progettazione è conseguenza di forme e archetipi nuovi in un contesto di una società e di un paesaggio che cambia. Ogni epoca è un‟epoca di cambiamento, ma il XX secolo vede un‟accelerazione del cambiamento sconosciuta ai secoli precedenti. In questi ultimi anni l‟interesse mostrato nei confronti delle mie opere dall‟Università di Urbino, Pescara, Ancona, Venezia, che si è concretizzato in tesi di laurea su alcune opere da me realizzate, è stato da me vissuto come coronamento di una vita professionale che, vissuta nell‟orizzonte ristretto di una città di provincia, in realtà ha avuto eco anche in ambiti più autorevoli e più vasti.

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2.2 Anatomia di una città

“Più è ricco il nostro vissuto, il nostro passato, più la nostra capacità di vedere è ampia e pregnante di segni: la città è ricca di potenzialità, è ricca di indicazioni, la città rende desti”.1

Così esordisce l‟architetto Giovanni Lamedica nel suo libro “Anatomia di una città _ Fano”.

E nella premessa continua scrivendo: “Gli animali […] hanno un ambiente, ma non lo producono. (J.L.Pinillos). Per l‟uomo la situazione è profondamente diversa, sollecitato continuamente da nuovi bisogni è spinto a soluzioni sempre diverse adattando la realtà alle sue esigenze invece di adattarvisi. Una città è una

“struttura vivente” che è di supporto alla vita associativa di un gruppo, man mano che le situazioni ambientali e culturali in genere cambiano, la città si adatta; la città recupera, riusa, non abbandona e ricostruisce. Per poter capire Fano nella sua evoluzione storica è importante tener presente questa concatenazione

“struttura vivente” che è di supporto alla vita associativa di un gruppo, man mano che le situazioni ambientali e culturali in genere cambiano, la città si adatta; la città recupera, riusa, non abbandona e ricostruisce. Per poter capire Fano nella sua evoluzione storica è importante tener presente questa concatenazione