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il cinema SVizzero e le Voci Del reale

Nel documento 51° Festival dei Popoli (pagine 120-124)

JEAN PERRET*

Secondo la tradizione, il cinema svizzero garantisce la legittimità della propria esistenza in partico- lare grazie ai documentari di produzione indipendente. Che sia dunque il documentario il marchio d’eccellenza di una cinematografia che ha alcune difficoltà, proprio come succede al cinema con- temporaneo in generale, nell’inventare storie unificatrici, scritture innovative, visioni collegate con il mondo, i suoi dubbi, le sue convinzioni e aspirazioni? Non v’è alcun bisogno di polemiche, né di semplificazione dei termini della riflessione. Resta pur sempre vero che, in Europa, la Svizzera del documentario costituisce, almeno per tre ragioni, una piattaforma di creazione esemplare. La prima ragione è l’esistenza di una politica culturale portata avanti dalle autorità pubbliche sul piano federale, regionale e cantonale, che consiste nel prestare alle produzioni un sostegno finanziario, a volte sostanziale, e nell’imporsi così sulla scena cinematografica come un partner essenziale. Bisogna anche aggiungere la presenza delle televisioni del servizio pubblico, tante quante sono le regioni linguistiche, che partecipano a detta strategia nel quadro di un Accordo audiovisivo. Certamente i professionisti auspicano una maggiore accessibilità ai mezzi e moda- lità di ripartizione riviste e migliorate! La professione, articolata in una quantità di associazioni (oggi si contano tre associazioni di produttori!), sta attraversando un periodo di vivace dibattito relativamente alla definizione di un nuovo regime di sostegno che entrerà in vigore nel 2012. Per di più va ricordato che, in Europa, la Svizzera fa parte di quel gruppetto di paesi risolutamente impegnati a sostenere l’industria audiovisiva, la quale non può avere alcun futuro – soprattutto parlando di un paese dal territorio esiguo – se non a livello europeo e internazionale nel senso più ampio. Ciò implica la messa in atto di strategie più ambiziose e meglio finanziate.

La seconda ragione sta nella storia del cinema svizzero, la cui identità si è definita a partire dagli anni Trenta sulla produzione paritetica di documentari e lungometraggi di finzione. Si aggiunga- no a ciò fattori storici e politici legati alla seconda guerra mondiale, e successivamente al decollo dell’economia negli anni cinquanta e sessanta, e infine agli anni della prosperità, segnati da disagi ideologici ed esistenziali. Senza dimenticare la fine del millennio e il principio del xxI se- colo, epoche soggette a profonde crisi nella società nel suo insieme. Da un cinema della critica sociale, che esprime punti di vista radicali, che contesta i valori consolidati (poco ci manca che vengano ancora chiamati «borghesi»), lo spettatore viene rimandato a storie più intimiste che te- stimoniano dubbi, interrogativi, un generale senso di smarrimento, con un misto di corroborante impertinenza, salutare senso dell’umorismo, per non parlare della memoria locale...

Per finire, il cinema documentario svizzero, questo «cinema del reale di creazione», ha saputo evolversi in modo eccezionale nell’arco di oltre venticinque anni, declinando una appassionante diversità di generi, di scritture, di punti di vista, di visioni... questo cinema è risolutamente sinto- nizzato con le epoche che attraversa, che contribuisce a segnare con i propri singolari racconti. È forse necessario dichiarare che questo cinema non ha più niente a che vedere con la definizione

tradizionale, polverosa, di documentario, e che se ne è definitivamente emancipato per imporsi come cinema in tutto e per tutto? Sotto queste sottili forme dell’ibridazione, che hanno assimila- to i «know-how» della finzione (a sua volta sotto il vivificante influsso del gesto documentarista), questo cinema fa parte integrante delle offerte in sala e in televisione (con delle sfumature di differenze, tuttavia). Questa diversità e questa eterogeneità sono ben consolidate!

La presente retrospettiva propone undici tappe che possano dare una misura di questo cinema, tracciando una geografia fatta di film politici e di viaggio, di preoccupazioni sociali e di propensio- ni intimiste. Ciascuna delle opere scelte, sostenuta da mani ispirate e impegnate, declina a dire il vero una parte o il tutto di queste dimensioni, felicemente contribuendo a rendere obsolete le rigide delimitazioni prestabilite fra tema, genere ed estetica.

Zero. Premier jour. In apertura di ciascuna proiezione potremo vedere uno dei dieci «primi gior- ni» di Fernand Melgar: cortometraggi esemplari. Un giorno di riprese, una macchina da presa, niente sopralluoghi, niente incontri preliminari con i personaggi, né scrittura né adattamento: un «cinéma vérité» in diretta con una «prima volta» qualsiasi nella vita della gente, della quale il film racconta, in sette-otto minuti, la sottile complessità e ricchezza di senso.

Uno. Siamo italiani. Oltre 45 anni fa la manodopera veniva importata dall’Italia in Svizzera, per sostenere il proprio sviluppo economico e la propria fiorente prosperità. Le immagini in bianco e nero di Alexander Seiler documentano in modo avvincente queste migrazioni di uomini in esilio volontario, in cerca di un riconoscimento. Uno dei film che hanno fondato il nuovo cinema sviz- zero negli anni sessanta.

Due. Pas les flics, pas les blancs, pas les noirs. Nella cosmopolita Ginevra quasi il 40% della popolazione è straniera. La vita quotidiana richiede particolari attenzioni e innovazioni per disin- nescare le derive xenofobe, quando non razziste. Ursula Meier va sul campo, incontra persone, intesse un racconto della parola. S’impone fra le figure principali un poliziotto, che si prodiga nel creare legami sociali attraverso pratiche di mediazione. Ecco la modernità di questo film, mettersi dalla parte della mediazione piuttosto che da quella della denuncia.

Tre. Le Génie helvétique. Gli arcani della democrazia elvetica, sullo sfondo delle commissioni federali. Jean-Stéphane Bron va a Berna, la capitale, dove non c’è nulla da vedere! Dobbiamo ricordare che le sessioni di lavoro dei parlamentari non sono pubbliche? Così è nelle anticamere del potere che il cineasta incontrerà i protagonisti della suspense che va creando. Per fare ciò mette in scena i personaggi, fa loro ripetere le loro stesse parole, unico modo per avvicinarsi alla verità della posta in gioco.

Quattro. Genet à Chatila. È un testo di Jean Genet che fa da «fil rouge» per il viaggio intrapreso da Richard Dindo sulle tracce dei massacri dei campi di Sabra e Chatila che hanno avuto luogo a Beirut Ovest nel 1982. Il film allo stesso tempo è il ritratto di uno scrittore impegnato a descri- vere un orrore indicibile. Per attraversare questi luoghi dolenti il cineasta fa ricorso alla figura di una giovane donna. Le fila del racconto sono il fulcro di un cinema la cui legittimità è radicata nel dovere della memoria e nella necessità di denunciare le violenze della Storia.

Cinque. Les Hommes du port. Alain Tanner si cimenta con un ritratto collettivo, quello dei lavo- ratori del porto di Genova che lui stesso ha frequentato da giovane alla fine degli anni quaranta. Protagonista del film è la memoria operaia, fra un passato di lotta, dignità di mestieri in via d’estinzione, evoluzione tecnica (l’era dei container) e crisi economica. Anche qui il cinema è memoria, quella del cineasta che si confonde con quella degli interlocutori, in incontri sospesi fra ieri e domani.

Sei. War Photographer. Come rendere conto della miseria del mondo, delle sue violenze e pur- tuttavia della sua grandezza? Quale branca dell’attività umana può addossarsi un simile compi- to? Christian Frei decide di seguire da vicino e sul campo il fotografo di guerra James Nachtway, e poi di capire come funziona il commercio delle immagini nelle redazioni e nei musei. Se il

film rappresenta il protagonista come un eroe disincantato, si mette però dalla parte della sua umanità e di quella delle persone fotografate, stimolando una riflessione relativamente alla ne- cessità, o meno, di immagini del reale.

Sette. Il bacio di Tosca. I grandi ritratti d’artista sono realizzati da grandi artisti che portano in sé la nostalgia dei personaggi cui si ispira il proprio lavoro. Daniel Schmid è un uomo che ama lo spettacolo dell’opera lirica, l’ascolto commosso delle voci, cosciente che il cinema ne costitu- isca una fragile memoria evanescente. Come un fantasma, il regista attraversa la casa di ritiro fondata da Verdi, dove incontra altri fantasmi dalle voci incrinate i cui accenti e gesti, tuttavia, testimoniano delle glorie del passato.

Otto. Face Addict. È un altro fantasma, ma di New York, che decide di dedicare un film alla «downtown scene» della creazione artistica fra i tardi anni Settanta e i primi anni Ottanta. La conosceva bene, così come i suoi personaggi: Jean-Michel Basquiat, Keith Haring, John Lurie... Edo Bertoglio esuma da archivi personali le immagini di un racconto che assume le fattezze di un diario intimo. I documenti di ieri e le parole di oggi fanno da esorcismo contro un periodo d’ebbrezza e di pericoli mortali. La droga e l’AIDS hanno causato devastazioni, e il film si dedica a ricordare, fra i vivi, la memoria dei morti.

Nove. Middle of the Moment. Lontano dal clamore delle città, dal tumulto della storia dell’uma- nità, il cinema rimane in cerca di ciò che sta all’origine della zona grigia, il punto mediano di un momento, di un silenzio, di un senso da dare all’esistenza. Werner Penzel e Nicolas Humbert sono i cineasti dell’osservazione contemplativa e dell’osservazione ispirata. A volte giungono a non muoversi più pur di cogliere quella palpitazione attutita del momento giusto. Vengono messi in atto i mezzi più raffinati del cinema perché possa avere luogo l’incontro, miracoloso (?), fra uno sguardo e il reale.

Dieci. Geschichte der Nacht. Una città fatta di tutte le città, le cui architetture sono avvolte nell’oscurità, penetrate dalle luci della notte. Clemens Klopfenstein realizza un film da viandan- te solitario, che reinventa il cinema nella sua capacità poetica di mostrare universi a partire da frammenti strappati al buio. La colonna sonora, altrettanto preziosa, è articolata tramite il mon- taggio in maniera da conferire al film la dimensione di un sogno a occhi aperti per gli spettatori sprofondati nell’oscurità della sala cinematografica. Anche qui il cinema è popolato di fantasmi, inseguiti da un cineasta sonnambulo.

Undici. Requiem. Molto semplicemente, la memoria del secolo scorso. Non c’è anima viva in questi cimiteri militari, ma il ricordo delle migliaia di soldati morti sul campo d’onore. Il rigore delle inqua- drature, la maestria nei ritmi del montaggio, la dialettica fra la partitura musicale e le immagini: Reni Mertens e Walter Marti sono registi per i quali il cinema è per sempre coscienza universale.

* Direttore di Visions du Réel, Festival internazionale del Cinema di Nyon.

A partire da settembre 2010, Direttore del Dipartimento di Cinema / Cinéma du réel presso la HEAD – Haute Ecole d’Art et de Design de Genève (Università delle Arti e del Design di Ginevra)

Nel documento 51° Festival dei Popoli (pagine 120-124)