a cura di CHICCA BERGONZI
In che contesto hai cominciato a fare cinema?
Nel 1966, quando ho girato Le Panier à viande, c‘era una dimensione «mitica», «magica» nell’idea di fare cinema. All’inizio fu difficile trovare il coraggio per lanciarmi in questa esperienza, anche perché le cineaste donne erano rare: c’era forse giusto una segretaria di edizione per dei film di finzione e poi c’era Lorenza Mazzetti che faceva parte del gruppo del Free Cinema a Londra, ma ancora non la conoscevo.
Avevo lavorato al «Musée de l’Homme» di Parigi e già allora sapevo di voler fare cinema. Fu Yvonne Oddon, la bibliotecaria del Museo a presentarmi Jean Rouch e subito cominciai a lavorare con lui. Certo, con Rouch non facevo film, ma ne vedevo molti, li analizzavo: è così che sono entrata in con- tatto con quel mondo. All’epoca non conoscevo i documentaristi svizzeri, a parte qualcuno di nome, come Yves Yersin o Walter Marti; poi un giorno qualcuno mi presentò Yersin che cercava un sogget- to sulle tradizioni popolari in Svizzera. Io avevo in mente di fare qualcosa sulla figura del «macellaio ambulante» e sulla macellazione dei maiali nelle fattorie valdesi. Volevamo fare un grande film ma non avevamo un soldo: così girammo insieme Le Panier à viande, un cortometraggio.
All’inizio quali furono le fonti di ispirazione, i tuoi punti di riferimento?
Rouch e i film etnografici, ovviamente, ma anche il Free Cinema e diversi altri documentaristi e cineasti dell’epoca.
E come hai trovato attraverso il tuo modo di fare cinema?
Sinceramente, è venuto da solo e molto in fretta, come qualcosa di assolutamente naturale. Non volevo fare dei film che facessero il verso a Jean Rouch e sapevo che per riuscire dovevo allon- tanarmi da lui e da Parigi.
Com’é nata l’idea di Chronique paysanne en Gruyère e come hai scelto la famiglia Bapst? Ero interessata agli allevatori che traslocano anche sei volte all’anno per trovare dei buoni pascoli. Un’etnologa che aveva fatto studi sugli allevamenti in alta quota mi aveva dato un elenco di nomi, dei suggerimenti. All’epoca camminavo molto; per quindici giorni avevo fatto il giro degli alpeggi attorno a Bulle, parlando con la gente. C’era una famiglia interessante, con la madre di origine martinicana, ma avevo dovuto lasciar perdere perché avevano avuto problemi con il proprietario dell’alpeggio e stavano per partire in Canada. Io cercavo degli allevatori che facessero anche il formaggio e alla fine scelsi la famiglia Bapst perché era la più «completa»: quasi tutti i membri della famiglia stavano in alpeggio, c’erano diversi bambini con delle facce interessanti. I Bapst accettarono subito la nostra «intrusione», ma non fu sempre facile e dopo un po’ ci tollerarono a fatica. Per tre settimane siamo stati con loro, sempre. Dormivamo in uno chalet vicino. Dopo l’estate ho continuato ad andare da loro, per tutto l’anno; li ho seguiti durante la stagione della caccia, mentre facevano altri lavori, come
quando scendevano con le slitte cariche di legna trainate dai cavalli. Oggi non si fa più, ci sono gli eli- cotteri che trasportano la legna e i ragazzi non conoscono le tecniche per assemblare e stabilizzare le slitte: il film mostra anche la fine di un’epoca e di quelle usanze.
Il film inizia in modo singolare, con le voci dei bambini su degli spazi «deserti», senza presenza umana. Come mai questa soluzione?
Al cinema è indispensabile trovare un buon inizio, una buona idea per «entrare» nel film. Quella mi sembrò la scelta migliore, la più poetica e sorprendente. Oltretutto avevo l’impressione che lo chalet non ricordasse immediatamente la Svizzera e, con i ragazzini che raccontano una storia, volevo creare una sorta di «effetto sorpresa» .
Una scelta poetica che fa parte del tuo modo di fare cinema, in cui ti concedi delle nicchie di libertà che vanno aldilà del racconto.
Assolutamente, non mi ha mai interessato documentare per documentare: per me è importante trovare un po’ di poesia in ciò che mostro ed entrare in sintonia con un personaggio così che anche lo spettatore possa affezionarcisi.
Avevi in mente degli esempi cinematografici precisi mentre filmavi gli alpeggi e la montagna? Ci ho pensato, ma francamente non credo o non ricordo, quanto meno per questo film. Però ave- vo un’idea precisa di ciò che volevo mostrare di quel mondo, evitando di privilegiare un aspetto o un evento ma senza tralasciare nulla; cercando di creare una struttura comprensibile a chi non conosce quell’universo, senza dimenticarne le emozioni.
Il tuo ultimo film, C’était hier, si collega ai tuoi film cosiddetti «autobiografici». Lo consideri un capitolo del tuo diario personale?
Sì, in parte, ma lo considero soprattutto come il seguito di un altro mio film, La mort du grand-père ou Le sommeil du juste. Nel film mostravo la fabbrica di mio nonno, ma non i suoi operai. Qualche tempo più tardi qualcuno mi chiese il perché di quella scelta. Allora mi dicevo semplicemente che non si può raccontare tutto e che è necessario imporsi delle scelte, ma sotto sotto un po’ mi vergognavo di non aver fatto parlare gli operai, gente che ha avuto una vita dura e solo qualche piccolo momento di felicità. C’était hier è nato dalla necessità di dire delle cose che non avevo detto prima. Era un film che dovevo fare. Monod, il premio Nobel, parlava di «caso e necessità» nel suo lavoro. Per me è la stessa cosa: tra i tanti che potresti trattare finisci su un soggetto per caso; e poi è la necessità a guidarti. La mort du grand-père è del ’78. Perché attendere così tanto tempo prima di dar la parola agli operai della fabbrica?
Avevo bisogna di un’idea, una buona introduzione per rifare un film sulla fabbrica. È stato veden- do le foto del passaggio del Tour de Suisse a Lucens nel ‘37 – il caso – e rivedendo volti famigliari, operai della fabbrica del nonno o di altre fabbriche che è scattato qualcosa in testa.
Dove hai trovato quelle foto?
Un fotografo ambulante aveva lasciato le foto per venderle a un mio amico di infanzia che era ta- baccaio, giornalaio e barbiere allo stesso tempo. Il fotografo non venne mai a ritirarle e così il mio amico, collezionista nel tempo libero, le ha custodite e ha insistito per anni perché le vedessi.
Come hai sviluppato la struttura del film?
È stato complicato, ma per fortuna ho una buona esperienza alle spalle. Rispetto ad oggi con il video, girare in pellicola richiedeva tempi di preparazione e di riflessione più lunghi. Per C’était hier ci ho messo tre anni a trovare il giusto equilibrio e una buona struttura narrativa, scrivendo un canovaccio di sceneggiatura, pensando al montaggio tra i diversi soggetti del film: la biciclet- ta, il tour, il pubblico del Tour, la storia della fabbrica e dei suoi operai, le testimonianze… Com’è evoluto il tuo modo di lavorare nel corso della lunga stagione che ti ha vista protagonista? Tra tempi di ricerca e preparazione, riflessione, scrittura, «mise en scène» e riprese, il mio me- todo di lavoro non è cambiato negli anni, ma mi sono dovuta adattare al video. Prima del video, ero abituata a pensare a lungo prima di girare; con bobine di 12 minuti non potevamo certo girare
tutto il tempo. Oggi, quest’apparente libertà offerta dal video mi perturba: io non ho bisogno di filmare tutto. È una perdita di tempo e di denaro perché ho già ben in mente la sequenza o l’in- quadratura che voglio.
Come definisci il tuo cinema?
So che in molti non amano questa definizione, ma la più appropriata mi sembra quella di docu- mentario di creazione. Nei miei film esiste una parte di regia e di «mise en scène» attraverso i quali creo momenti e luoghi ideali per permettere ai personaggi di esprimersi liberamente.
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Il tempo è trascorso, cinquant’anni o quasi! E tu continui. Ogni anno o quasi si attende il nuovo «Jacqueline Veuve». Lei affina la sua macchina da presa e il suo linguaggio. Chi ha realizzato il commento? Tu? Ebbene, per me, tu ritrovi la lingua di Esiodo e lo stile di uno dei miei greci preferiti, Le opere e i giorni. Si potrebbe dire, facendo una panoramica sui tuoi film, quelli passati, i presenti e i futuri, che tu sei una sorta di Esiodo della Svizzera di oggi. È una cosa rara per gli Svizzeri.
È un complimento ed è una verità. E nel testo di commento e in tutto il resto, si ritrova una lingua semplice, sempre la stessa. Non è Omero. È un brav’uomo che sa cosa vuol dire avere dei calli alle mani e, al contempo, che non bisogna bere troppo. Cito a memo- ria una pagina di Esiodo: “Quando un lavoratore, a mezzogiorno si ferma, sceglie l’om- bra di un albero vicino ad un ruscello dall’acqua limpida. Tira fuori la sua borraccia con il vino, mescola un terzo di vino e due terzi di acqua per essere sicuro di poter continuare con la stessa lena fino al calare del sole”. Detto meravigliosamente. È così. Da allora, anch’io spesso metto dell’acqua nel mio vino per poter terminare la mia impresa. C’è in questo una bella semplicità che io ritrovo in tutti i tuoi film… Non credo che ci siano degli esempi così nel cinema. Si può citare senza dubbio il nostro maestro Flaherty. Nei tuoi film, c’è sempre lo stesso luogo, la stessa azione. Unità di tempo, unità d’azione, unità d’amore, perché per filmare così bisogna amarle le persone. Hai mostrato loro il film? Piangevano di gioia? È molto bello. Questo è il cinema così come lo si sogna, quel cine- ma che anno dopo anno porta dei documenti nuovi, degli elementi nuovi, delle macchine per sognare e per lavorare.
Jean Rouch Villefranche-sur-Saône, ottobre 1999