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JacQUeline VeUVe, croniSta Del tempo

Nel documento 51° Festival dei Popoli (pagine 140-143)

FRéDéRIC MAIRE

DirettoreCinémathèquesuisse

Nel 1955, all’epoca giovane bibliotecaria e documentalista valdese nonché amante del cinema, Jacqueline Veuve va a Parigi – come qualsiasi svizzero di lingua francese che si rispetti – per com- pletare la propria specializzazione al Musée de l’Homme. Lì collabora con il maestro del «genius loci», l’etnologo e cineasta Jean Rouch, che in realtà non ama fare il maestro bensì il compagno di strada, colui che incoraggia l’altro a trovare il proprio cammino. Non è un caso, quindi, che – di ritorno in Svizzera – la giovane Jacqueline decida di «fare» cinema. Qualche anno più tardi, nei primi anni settanta, Jacqueline Veuve si reca presso il Massachusetts Institute of Technology per lavorare a fianco di un altro etnologo e cineasta, Richard Leacock. Altro incontro che, avendo come nume tutelare Robert Flaherty, lascerà il segno sull’opera di Jacqueline Veuve.

Il film d’esordio, del 1966, è un mediometraggio a quattro mani, co-firmato dal futuro autore di Petites Fugues, Yves Yersin. Intitolato Le Panier à viande, descrive minuziosamente il lavoro di un contadino che «fa il macello», come si suol dire, andando di fattoria in fattoria per ammazzare il maiale con i propri attrezzi. Questo film semplice, quasi ovvio, già intercetta le due maggiori preoccupazioni della cineasta: da una parte l’impegno sociale e politico, dall’altra l’osservazione e la conservazione di tradizioni, gesti, figure che le sembrano essenziali.

ALLA MEMORIA DEI TEMPI FUTURI

Jacqueline Veuve ama ripetere che il suo ruolo non è altro che quello di «un ingranaggio nella memoria del paese». Difatti ha anche precisato: “Mi piace rappresentare e fissare su pellicola cose e processi che forse, probabilmente, se non sicuramente, domani non esisteranno più”1.

Ma se tutta la sua carriera è effettivamente costellata di «testimonianze cinematografiche» di quest’ordine (i piccoli mestieri in via di sparizione, le tradizioni locali che vengono cancellate), sarebbe riduttivo vedere in Jacqueline Veuve soltanto un semplice testimone che capta e re- stituisce quanto vede. Intanto perché non è così semplice, nel cinema, cogliere e restituire un processo, indipendentemente dalla sua natura. E poi perché la personalità intera della cineasta si afferma sempre, film dopo film, nella filigrana delle sue inquadrature, nelle scelte di compo- sizione, nelle articolazioni del discorso.

L’ASCOLTO E L’OSSERVAZIONE

L’opera di Jacqueline Veuve è riconoscibile attraverso due talenti che sono di norma paralle- lamente presenti in ciascuno dei suoi film: la capacità di ascolto e la capacità di osservazione. Non si tratta esclusivamente di suono e immagine: l’ascolto è ciò che le permette, già dalla fase preparatoria con i sopralluoghi, le chiacchierate con le persone, di comprendere rapidamente l’essenza di un individuo. Successivamente, con grandissima abilità, riesce a far riparlare i per- sonaggi davanti alla m.d.p., nuovamente con una giustezza impressionante. Non conosco molte donne (o uomini, se è per questo) che siano riuscite così bene a far parlare dei militari come in L’Homme des casernes.

Ma far parlare non è sufficiente; al cinema bisogna mostrare. In questo senso Jacqueline Veuve dimostra un acutissimo senso dell’inquadratura, di ciò che è opportuno o meno mostrare per- ché lo spettatore possa comprendere. In questo ambito, la serie dei film dedicata ai «mestieri del bosco» (il liutaio, il fabbricante di slitte, il tornitore e così via), la Chronique vigneronne, per non parlare della Chronique paysanne en Gruyère, sono esemplari: Jacqueline Veuve rende sì totalmente limpido il complesso processo di produzione del formaggio d’alpeggio, ma allo stesso tempo lo rende appassionante. Perché la maestria nella descrizione le permette di andare oltre: al reale viene giustapposto l’elemento finzionale, fino a creare una suspense vera e propria nella rappresentazione della produzione casearia, così come della fabbricazione dei «tavillons», le tipiche tegole del Canton Vallese.

L’IMPEGNO

A proposito del suo lavoro, il padre spirituale della Cinémathèque suisse Freddy Buache ha scrit- to: “La macchina da presa coglie ciò che lei vede, il registratore incide, la cronaca si ordina: chiara, oggettiva, senza partito preso. A ciascuno spettatore la libertà di leggervi il dritto o il ro- vescio”2. In realtà, dietro questa apparente oggettività non c’è una cineasta distaccata dal mondo

che la circonda, una sorta di «testimone» distante che guarda al reale senza prendere posizione. Jacqueline Veuve privilegia soggetti che, per il solo fatto di finire sotto un riflettore, svolgono la funzione di manifesto. Nel corso del suo lungo soggiorno negli Stati Uniti la regista ha realizzato due film sul movimento femminista. Ma anche quando sembra inquadrare con occhio nostalgico la tradizione del mercato a Vevey (in Jour de marché) scopre un condensato delle leggi economi- che, e svela delle pratiche scarsamente sostenibili dal punto di vista ecologico.

Nel suo primo lungometraggio, La mort du grand-père, ou Le sommeil du juste (1978), viene raccontata la fabbrica dal punto di vista dei padroni. Ma con il suo ultimo film in ordine di tempo, C’était hier, ritorna con mordente su questo tempo che non evolve o evolve troppo poco, o troppo male, lasciando operai e padroni come una volta, gli uni contro gli altri.

Neanche il suo unico film di finzione vera e propria, Parti sans laisser d’adresse (1982), è inno- cente! Ispirato a un fatto di cronaca, racconta la storia di un tossicodipendente in detenzione preventiva che finisce per suicidarsi.

L’UOMO E IL SUO AMBIENTE

Se vi è un elemento che collega tutta l’opera di Jacqueline Veuve, e che rivela (parzialmente) la modalità del lavoro, è il rapporto sempre molto stretto che si instaura fra l’uomo e la natura. In Parti sans laisser d’adresse, appunto, il prigioniero evade mentalmente sognando il Grande Nord di Jack London. Nel penultimo film, Un petit Coin de Paradis, tale rapporto diventa il tema centrale, attraversando epoche e generazioni. Ma la regista non è interessata né all’individuo in sé né alla natura in sé, bensì alla descrizione del rapporto che si crea fra l’uno e l’altra, fra il fabbricante di staja e il bosco, fra l’ortolano e i suoi prodotti, fra il padrone e la fabbrica. Non è nella contemplazione, ma nel «fare» che trova la materia del proprio cinema.

Jacqueline Veuve non si ritrae neanche quando si tratta di parlare di se stessa. O magari di fare della propria storia, del proprio vissuto, il punto di partenza di un racconto. Al pari del nonno e della famiglia, o del suo cuore che un giorno l’ha quasi tradita. Il che l’ha spinta a realizzare La Nébuleuse du cœur, viaggio al centro di questo organo che è anche un simbolo sociale e cultu- rale onnipresente.

Basta incontrarla, Jacqueline Veuve, per rendersi conto che sta sempre in agguato, lo sguardo penetrante, attenta a tutto ciò che la circonda e a qualsiasi cosa che possa trasformarsi un giorno in una storia interessante. Ma sa anche stare in attesa, paziente, che arrivi il momento di impugnare la macchina da presa e il microfono. Né troppo presto né troppo tardi. Come un agricoltore che aspetta che un frutto maturi, per coglierlo al momento giusto.

NOTE

1. Intervista a cura di Sandrine Fillipetti, in Repérages, novembre 1998. 2. Freddy Buache sul quotidiano Le Matin, 27 marzo 1994.

Nel documento 51° Festival dei Popoli (pagine 140-143)