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ORGANIZZAZIONE RELIGIOSA DEL TERRITORIO A SUD DI SALERNO

2.1. c Clero e popolo nell’età moderna

Pensare che ricostruire la cronologia dei vescovi policastresi di epoca moderna sia cosa semplice è, purtroppo, solo una mera illusione. I dati, principalmente quelli cronologici, il più delle volte non sono concordi; è pur vero che a volte differiscono di poco ma questa incertezza di notizie – minima ma comunque rilevante, almeno per chi s’impegna a effettuare una ricerca quanto più “scientifica” possibile – rende il compito delicato.

Alla morte di Girolamo Almensa salì sul seggio vescovile Gabriele Altilio, da Caggiano, per mezzo della nomina fatta da papa Alessandro VI il 7 gennaio 1493, appena tre giorni dopo la dipartita del suo predecessore. Nei primissimi anni del XVI secolo fu eletto Bernardino Laureo, di Spoleto. Secondo l’Ughelli costui mantenne la carica dal 1504 al 1516. Il riferimento presentato dal Fusco, invece, è leggermente diverso (1502-1514)45. A inizio Cinquecento tra i presuli di Policastro compare anche il nome di Luigi d’Aragona, ma gli anni in cui ricoprì l’incarico non sono del tutto chiari46.

Le minacce provenienti dall’esterno non cessarono, continuando a essere avvertite come il maggior pericolo per l’esistenza delle popolazioni locali. Nel 1533, durante la guerra tra l’impero turco e la Repubblica di Venezia, Policastro fu distrutta per la terza volta (dopo quelle del 915 e del 1065) da Ariadeno Barbarossa, capitano della flotta turca. Avvenimento che si ripeté nel luglio del 1552 per mano del pascià Dragut, che, dopo essere sbarcato nel golfo di Policastro in località Oliveto, distrusse anche Vibonati, Santa Marina, San Giovanni a Piro, Bosco, Torre Orsaia, Roccagloriosa, Camerota e Castel Ruggero47.

Nel corso del secolo si alternarono diverse personalità alla giuda della diocesi: Pirro Aloisio, Benedetto Accolto, Andrea Matteo Palmerio, Fabrizio Arcella, Uberto de Gambara, Nicola Francesco Massanella, Ludovico Bentivoglio; ma quella di maggior spicco fu senza ombra di dubbio quella di Ferdinando Spinelli. Nato a Napoli da un’antica famiglia di origine

44 Ivi, p. 564. 45

Ivi, p. 565; F. FUSCO, Torre Orsaia e i suoi antichi Statuti, cit., p. 146.

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Ughelli lo inserisce tra Gabriele Altilio e Bernardino Laureo, segnalando l’anno in cui terminò il suo episcopato (1504). Il Fusco, come estremi cronologici, segnala gli anni 1514-1516.

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nobiliare, Ferdinando fu assegnato a Policastro il 4 dicembre del 1581 - nel 1582 secondo Felice Fusco - da papa Gregorio XIII. La cattedra policastrense, a quel tempo, non era per nulla ambita, anzi una tale assegnazione veniva ritenuta quantomeno scomoda, e per questo gli assegnatari cercavano di evitarla. Il motivo era sostanzialmente uno: le continue prepotenze (soverchierie) del conte di Policastro. L’intera età moderna, come detto, è stata caratterizzata dai contrasti tra i Carafa, signori di Policastro, e tutti i soggetti e le istituzioni presenti sul territorio. Spinelli quando giunse in diocesi incontrò il conte Carafa: pare che il presule gli mostrò la croce e la spada, invitandolo a scegliere. L’episodio, oltre a presentare il carattere risoluto di Ferdinando, è un chiaro indicatore del clima esistente nella diocesi bussentina. Il vescovo, inoltre, ordinò ai monaci greci presenti nella sua diocesi di adottare il rito latino nella celebrazione della messa, nella recitazione del breviario e in tutti gli uffici religiosi entro il termine categorico di un anno48. Dopo la sua morte, avvenuta a Napoli - nel 1591 per il Fusco e nel 1605 secondo il Laudisio -, fu sepolto «in Ecclesia sanctae Catharinae de Funariis», dove è ricordato da un epitaffio49. Nel XVI secolo la dimora dei vescovi, forse per l’impraticabilità della sede, venne temporaneamente trasferita a Padula, nel Vallo di Diano: infatti proprio qui fu celebrato il Sinodo Diocesano del 1567.

Nel 1601 a Policastro fu terminata la costruzione di un seminario vescovile, istituzione adottata dalla nuova Chiesa controriformata che doveva servire a combattere la dilagante ignoranza del clero, soprattutto in quelle aree periferiche che erano lontano dai grandi centri. Ma l’inizio del XVII secolo fu investito da una forte regressione economica che raggiunse il suo apice alla fine del secolo. Come sempre furono le classi meno abbienti, in primis i contadini, a soffrire di più per questa situazione, specialmente per la drastica diminuzione dei salari. Le quattro maggiori risorse su cui poggiava l’economia del Regno, il grano, la seta, il vino e l’olio, subirono un tracollo produttivo. Per uscire indenni dalla crisi la vecchia classe nobiliare, su cui si faceva sentire il peso di investimenti sbagliati e della smania ancestrale di una selvaggia e continua accumulazione della “roba” - per dirla alla maniera verghiana -, decise di svendere baronie e terreni.

Il 20 giugno del 1656 scoppiò la peste che decimò la popolazione della diocesi di Policastro. Dopo l’epidemia sul territorio si abbatté anche una pesante carestia. Altre sciagure, come le alluvioni del 1659 o il terremoto dell’8 settembre 1694, contribuirono a peggiorare le condizioni di vita degli abitanti.

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Ivi, p. 24; R. RAELE, La città di Lagonegro nella sua vita religiosa, rist. anast., Zaccara, Lagonegro 1988, p. 49; F. FUSCO, Torre Orsaia e i suoi antichi Statuti, cit., p. 111.

49 «Ferdinando Spinello Ferd. Ducis filio posthumo, cui tractanti arma Tribunus Militum a Philippo II.

Hispaniarum Rege delectus est ad sacram militiam adeenti Neocastrensis primum, deinde Policastrensis a Gregorio XIII. Pont. Max. Carolus Spinellus major natu contra votum superstes fratri unanimi F. C.» (F. UGHELLI, Italia Sacra sive de Episcopis Italiae, et insularum adjacentium, cit., pp. 565-566).

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I dati sulla cronologia dei vescovi durante il XVII secolo iniziano a farsi più concordi, mantenendo sempre delle piccole incongruenze. Il primo presule eletto nel nuovo secolo fu Filippo Spinelli, in carica, secondo Fusco, dal 1591 al 1604. Ughelli ci informa che fu vescovo di Policastro e che nel 1605 salì sul seggio di Aversa. Venti anni dopo la sua morte fu scolpito un «monumentum» funebre in marmo nella chiesa di san Domenico. L’iscrizione porta la data del 1636, quindi la morte dovrebbe risalire agli anni intorno al 1616. Papa Paolo V nominò Ilario Cortesi, «Neapolitanus Clericus Regularis Theatinus doctrina», successore di Filippo Spinelli il 6 giugno 1605. L’Ughelli lo descrive come esempio di integrità nel comportamento e come esperto di diritto. Nel settembre 1608 fu costretto a lasciare la diocesi a causa delle sue gravissime condizioni di salute. Abbastanza lungo fu l’episcopato di Antonio Santonio (26 aprile 1610-1629), in carica per quasi un ventennio. Il vescovo Santonio, originario di Taranto, a Policastro curò il restauro del vescovato e del seminario50. Suo successore fu l’aquilano Urbano Feliceo, monsignore policastrese dal 1630 al 1635. La nomina fu decretata il 4 marzo da papa Urbano VIII. Feliceo, «amoenique ingenii vir», riunì il Sinodo diocesano nel 1632. Il Sinodo è una di quelle fonti importanti non solo per tracciare un profilo strettamente religioso di un determinato territorio, ma, allo stesso tempo, può essere molto utile per ricostruire, per esempio, un quadro della realtà socio-economica. Monsignor Feliceo volle che gli atti sinodali, redatti consuetudinariamente in latino, fossero tradotti in volgare: questo avvenne l’anno dopo, nel 1633. Il documento contiene molti riferimenti a consuetudini popolari, come quello che racconta la credenza popolare che si manifestava durante il Sabato Santo. In questo giorno le donne, al suono delle campane, impastavano il pane; gli ammalati di lebbra e gli scabbiosi, nella speranza di ricevere la guarigione dei propri mali, andavano a bagnarsi nelle acque marine. Il vescovo condannò fermamente queste superstizioni, minacciando addirittura di scomunicare coloro che si fossero abbandonati a queste pratiche51. Il Sinodo Feliceo si sofferma molto sul problema delle pratiche magiche e sulle superstizioni: infatti un capitolo, il quinto, è intitolato “De magicis artibus, veneficijs, incantationibus, sortilegijs, et vanis superstitionibus”52. Urbano Feliceo resse la diocesi «laudabiliter» per cinque anni.

50 Ivi, p. 566; N. M. LAUDISIO, Sinossi della diocesi di Policastro, cit., p. 26. 51

G. M. VISCARDI, Tra Europa e “Indie di quaggiù”. Chiesa, religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno

(secoli XV-XIX), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005, pp. 61-63, 106.

52 Synodus diocesana Polycastrensis ab Urbano Feliceo eiusdem Ecclesiae Episcopo celebrata anno

MDCXXXII, Typis Vaticanis, Romae 1632. Gli atti sinodali, tradotti in volgare, furono stampati l’anno dopo: cfr.

Archivio Diocesano di Policastro (d’ora in poi ADP), Sinodo diocesano dell’ill.mo et Rev.mo Monsignor Urbano (Feliceo), per la Dio gratia et Santa Sede Apostolica Vescovo di Policastro tradotto da latino in volgare in conformità del suo decreto et à comune utile delli diocesani, 1633. La versione in volgare del sinodo è

consultabile in G. DE ROSA (a cura di), Clero e mondo rurale nel Sinodo di Policastro del 1633, Edizioni Osanna, Venosa 1987.

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Il 1° ottobre 1635 Pietro Magri fu eletto vescovo di Policastro da papa Urbano VIII. Sulla torre campanaria di Torre Orsaia è ancora visibile il suo stemma, mentre tramite il Laudisio apprendiamo la notizia della costruzione di un episcopio a Lauria commissionata dal Magri. Il presule resse la diocesi, molto probabilmente, fino al 1650-51. Nella sua relazione ad limina del 1650 il Magri spiegò di aver spostato la sua residenza a Torre Orsaia per evitare il pericolo rappresentato da alcuni «facinorosi»53. Morì nel 1652. La seconda metà del Seicento si aprì con il vescovato di Filippo Giacomo, «Nobilis Messanensis, et s. Theologiae Magister». L’elezione avvenne il 26 agosto 1652 a Torre Orsaia, dove s’impegnò nel rifacimento del palazzo episcopale, che venne ampliato. L’usanza di abbandonare Policastro - caratterizzata dall’aria malsana, troppo vicina al mare e quindi esposta ad attacchi esterni - e di optare per dimore situate in Terre dell’interno, naturalmente protette dalla conformazione dei luoghi, è ormai una consuetudine, specialmente nel corso del XVII secolo, periodo storico caratterizzato da grosse difficoltà di ordine economico, sociale e ambientale. Monsignor Filippo Giacomo dovette fronteggiare anche le prepotenze e le ingerenze in materia giurisdizionale perpetrate dai conti Carafa: le liti tra questi due “poteri forti”, interessati a fortificare le loro posizioni e la presa che esercitavano sul territorio, duravano ormai da 150 anni e continuarono a lungo54. Perciò non è un caso se l’Ughelli definisce il presule «Immunitatis Ecclesiasticae acerrimus defensor»55. Sugli estremi cronologici dell’episcopato di Vincenzo Maria de Silva c’è piena concordanza: il presule napoletano fu a capo della diocesi dal 4 maggio 1671, giorno della sua nomina, al 10 aprile 1679, quando fu eletto vescovo di Calvi. Quando giunse a Policastro de Silva poté constatare l’abbandono in cui si trovavano le strutture della diocesi, ormai fatiscenti, forse perché i suoi immediati predecessori avevano spostato le loro residenze in altri centri abitati (Torre Orsaia, Lauria), trascurando gli edifici religiosi policastresi: ma il nuovo vescovo non si perse d’animo e ricostruì il seminario e l’episcopio. Anche il de Silva si scontrò con il conte di Policastro, ma stavolta si toccarono accenti mai visti prima, poiché il presule fu assediato per due giorni nel suo palazzo di Torre Orsaia da un manipolo di uomini capeggiati da Antonio di Franza, luogotenente criminale del conte. L’assedio fu ritirato dal Carafa dopo che costui cadde da

53 Archivio Segreto Vaticano (d’ora in poi ASV), Relazione ad limina 8 marzo 1650: ex revolutione in Regno

Neapolis plures invaserint et per vim eripierunt frumenta, quam plurimi debitores frumentorum, fame perierunt. Ideo montes ipsi depauperati sunt. Pro reparatione optime essent si concederetur in restitutione loco lemosina ultra sortem aliquid posse recepi.

54 A tal proposito è sintomatica la causa scoppiata nel Seicento tra l’università di San Giovanni a Piro, i cui

interessi vennero curati dall’avvocato Pietro Marcellino Di Luccia, e i conti e i vescovi di Policastro, non più antagonisti ma alleati: il motivo della discordia fu rappresentato dal possesso di alcuni benefici, da tempi lontanissimi assegnati al cenobio basiliano sangiovannese. Lo scontro giudiziario fu lungo e pare che non giunse a conclusione, poiché manca una sentenza definitiva a riguardo: il Decennio francese fu lo scossone che chiuse definitivamente la disputa.

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cavallo mentre attraversava il letto di un fiume e rimase illeso: lo scampato pericolo venne interpretato come un segno divino e convinse il conte a deporre le armi56.

L’8 maggio 1679, dopo aver ricoperto il seggio vescovile a Sant’Angelo dei Lombardi e a Bisaccia, Tommaso De Rosa fu eletto a capo della diocesi policastrese. Il nuovo presule, per prima cosa, affrontò il problema dei difficili rapporti con il conte: il vescovo dimostrò di possedere lungimiranti doti diplomatiche, strinse un accordo con Fabrizio Carafa e ritornò la pace. Riparò la cattedrale di Policastro che «ruinam minabatur». De Rosa morì il 9 ottobre 1695, all’età di 69 anni, a Torre Orsaia; e qui fu sepolto, nella chiesa parrocchiale. Giacinto Camillo Maradei fu vescovo della diocesi di Policastro a partire dal 2 aprile 1696 per nove anni, fino al giorno della sua scomparsa, avvenuta a Torre Orsaia il 2 settembre 1705. Il presule, nella sua relazione ad limina del 29 marzo 1700, espresse le sue rimostranze contro le usurpazioni di diritti perpetrate da alcuni baroni ai danni della Mensa vescovile e contro gli abusi di alcuni sacerdoti di San Giovanni a Piro e di Lagonegro (contro gli ecclesiastici sangiovannesi, assenti ingiustificati durante la visita vescovile, chiese addirittura l’intervento della Sacra Congregazione). Per fronteggiare questa situazione emise alcuni decreti, come quello contro il clero di San Giovanni a Piro, documenti che dimostrano lo stato d’abbandono in cui versavano chiese, cappelle e luoghi pii della diocesi57. Il Maradei, uomo di ingegno e di molteplici capacità, «donò i suoi beni alla chiesa di Policastro […] e i suoi libri al cenobio dei Cappuccini di Camerota»58. Durante tutto il XVII secolo i vescovi di Policastro scelsero di dimorare a Torre Orsaia, più sicura dal punto di vista difensivo-militare, essendo lontana dai pericoli provenienti dal mare, ma soprattutto per la migliore qualità della sua aria rispetto a Policastro. Ma il prestigio della città bussentina, almeno simbolico, sopravviveva ancora, infatti il Maradei fu sepolto nella cattedrale policastrese, ricordato da un’epigrafe. Il napoletano Antonio De Rosa fu il successore del Maradei, elevato alla cattedra vescovile il 14 dicembre 1705. Aggiustò la chiesa e restaurò il seminario. Un morbo che dilagò per tutta la diocesi colpì anche il De Rosa. Il presule lottò a lungo, ma la malattia ebbe la meglio: morì a Torre Orsaia il 28 novembre 1709 e fu sepolto lì, vicino suo zio paterno.

Andrea De Robertis fu vescovo dal 1713 al 1747, un periodo lunghissimo. Egli, infatti,

detiene un primato: il suo fu l’episcopato più lungo di tutta l’età moderna – nessuno si è

56 Il vescovo de Silva, nonostante la seria minaccia che incombeva su di lui e “la sua famiglia”, non esitò a

battersi per il rispetto e il riconoscimento dei diritti giurisdizionali spettanti alla Chiesa. Ecco come racconta l’episodio l’Ughelli: «cumque a Fabritio Carrafa tunc Policastri Comite in Episcopali Ursacae palatio fuisset obsessus, Fabritium, ejusque asseclas diris innodavit, et totam Comitis ditionem Ecclesiastico subjecit interdicto: atque inde armata hominum manu ab Afflicta gente ereptus, ut etiam ab insidiis, quae illi ab hostibus parabantur […]» (Ivi, p. 568). Si veda anche G. DE ROSA, Vescovi popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-

religiosa dal XVII al XIX secolo, cit., p. 159 e ss; F. FUSCO, Torre Orsaia e i suoi antichi Statuti, cit., pp. 111-

112.

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P. EBNER, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, cit., p. 344.

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avvicinato ai trent’anni come periodo passato alla guida della diocesi – e, forse, il primato potrebbe estendersi anche all’epoca medievale se si riuscissero a conoscere gli estremi cronologici dell’episcopato di Pagano. Il De Robertis, «Petri, ac Hippolytae Fortunata de Gifonibus filius», intraprese gli studi importanti per la sua formazione culturale a Roma, dove conseguì la laurea in diritto. In seguito fu nominato «Visitator Apostolicus», carica che prevedeva la diretta conoscenza di tutte le chiese di Roma. Il 27 novembre 1713 fu assegnato alla sede policastrese, nella quale era ancora presente e concreto il problema delle ingerenze dei conti, sempre pronti a sconfinare in sfere giurisdizionali che non erano di loro competenza. Il presule ordinò l’immediata distruzione di due palchetti personali che il conte Ettore Carafa aveva fatto erigere nel presbiterio della cattedrale; il feudatario rispose con la stessa moneta e, nella notte precedente la Pasqua del 1714, fece abbattere il baldacchino del vescovo. Ma il De Robertis dovette fronteggiare anche le proteste del capitolo di Policastro, «che accusava il presule di appropriazione di beni della chiesa»59. Gli ultimi tre vescovi che guidarono la diocesi nella seconda metà del XVIII secolo furono Marco Antonio Minucci (1747-1761), Francesco Pantulliano (1762-1775) e Giuseppe De Rosa (1775-1793). Alla fine del secolo le condizioni della diocesi migliorarono leggermente, come si evince dalla relazione ad limina del vescovo De Rosa, in cui il prelato non fa più cenno alle incursioni turche, a problemi di ordine pubblico che potevano minacciare l’incolumità del vescovo, a forme di protesta avanzate da un clero litigioso60.

Si chiuse così un secolo in cui, grazie alla circolazione delle idee che provenivano dalla Francia, l’istituzione Chiesa subì fortissimi scossoni che diedero vita a un cambiamento che, dopo il 1815 e la Restaurazione, si dimostrò effimero. Nel Settecento anche il Regno di Napoli fu investito dalla temperie scatenata dalla diffusione del nuovo pensiero illuministico: qui il giovane re Carlo promosse, con l’appoggio del suo uomo di fiducia Bernardo Tanucci, un governo anticuriale. Di questo indirizzo politico è sintomatico il decreto del 17 settembre 1738, con cui il governo impedì alla Chiesa di continuare a impossessarsi degli averi che erano intestati a persone decedute, iniziò a controllare e limitare le costruzioni ecclesiastiche e intimò alla Chiesa di cominciare a denunciare i propri beni. La politica anticuriale, diretta conseguenza di quella stagione politica definita “dispotismo illuminato”, continuò anche dopo l’abdicazione di re Carlo (8 ottobre 1759), chiamato come III a sedere sul trono di Spagna dopo la morte senza eredi di Ferdinando VI. A Napoli, per la minore età del figlio di Carlo,

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Ibidem. Inoltre si veda N. M. LAUDISIO, Sinossi della diocesi di Policastro, cit., p. 33; R. RAELE, La città

di Lagonegro nella sua vita religiosa, cit., pp. 48-50; G. DE ROSA, Vescovi popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, cit., p. 164 e ss.

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ASV, Relazione ad limina 28 settembre 1789: Ad populi quoad attinet, Deo plurimae a seu agendae sunt

gratiae, Pietatem colunt correptionem non fastidiunt, et ea sunt praediti animi docilitati uti quoad inter eos vitium incepit, opportuni adhibitis remedis de facili eliminantur.

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Ferdinando, fu costituito un consiglio di reggenza. Il personaggio di spicco di questo governo fu il primo ministro Tanucci, che contribuì alla diffusione delle idee illuministiche nel regno. Tra i provvedimenti adottati si cercò di limitare gli abusi e i privilegi della classe feudale, in special modo quelli del potere ecclesiastico. Fu ridotto a dieci e poi a cinque il numero degli ecclesiastici ogni mille abitanti, fu impedito ai figli unici di intraprendere la carriera ecclesiastica, s’impose il divieto di ordinare preti e diaconi coloro che non avessero patrimoni propri.

Le pessime condizioni stradali del regno, le barriere daziarie e la miseria conseguente alla carestia del 1764 condizionarono in modo negativo il commercio nell’intero Settecento. Nella seconda metà del secolo ci fu, tuttavia, una ripresa del settore primario favorita dalle richieste estere di prodotti agricoli e semilavorati. In questo periodo crebbe anche la produzione delle altre colture fondamentali del Cilento: il vino e l’olio. Nonostante il parziale miglioramento dell’agricoltura la maggior parte della popolazione viveva in condizioni difficili. Il malcontento aumentò dopo la promulgazione dell’editto di Ferdinando IV nel 1798, con il quale si ordinava ai cittadini del Regno e alla Chiesa la consegna dei metalli nobili (detti anche “metalli da conio”) che in un secondo momento dovevano essere convertiti in moneta. Questa fu la risposta del governo alla mancanza di denaro liquido a causa della riduzione degli scambi commerciali. In questi anni, sulla scia della Rivoluzione francese e prima ancora di quella americana, il popolo incominciò ad alzare la testa e a contrapporsi con tenacia a quei feudatari e borghesi che usurpavano le terre demaniali.

Agli inizi del XVIII secolo si erano inaspriti i rapporti tra feudatari e vescovi e lo scontro tra questi due “poteri forti” non contribuì di certo alla stabilità politica del Regno. Ma la diocesi era travagliata anche da un problema interno, rappresentato dallo stato del clero e del suo livello culturale e soprattutto morale. La Chiesa dovette fronteggiare il concubinaggio e