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ORGANIZZAZIONE RELIGIOSA DEL TERRITORIO A SUD DI SALERNO

2.1. b L’epoca basso-medievale

Dopo l’anno Mille, terminate le superstizioni e l’attesa della fine di un ciclo storico che doveva essere segnato dalla fine del mondo e dalla stipula di un nuovo patto tra Dio e gli uomini, secondo quanto diffuso dalla dottrina cristiana millenaristica, ci fu una ripresa delle attività umane e un ritorno graduale alla normalità. Nell’Ottocento la critica storiografica di matrice romantica ha molto enfatizzato lo stretto legame tra l’attesa escatologica del Mille e la rinascita che poi ne seguì. Ma la critica moderna ha ridimensionato questa connessione, definendo la ripresa avvenuta dopo l’XI secolo una fase avanzata di un processo che vide il suo stato embrionale già nell’VIII secolo.

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N. M. LAUDISIO, Sinossi della diocesi di Policastro, cit., p. 69.

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L’entrata nel nuovo millennio fece registrare un incremento demografico, testimoniato dall’aumento dell’estensione dei territori messi a coltura. Con contratti, stipulati tra l’XI e il XII secolo, i feudatari concedevano vantaggiose condizioni di affitto per coloro che avessero coltivato le terre in stato di abbandono. Un’ulteriore prova del miglioramento delle condizioni di vita è riscontrabile nell’aumento delle decime che la Chiesa riceveva dai contadini.

Nel territorio della diocesi, con il miglioramento delle condizioni economiche e politiche, aumentarono le donazioni che furono favorite dalla diffusione su larga scala del sentimento della morte che aveva pervaso la popolazione. La paura del giudizio universale convinse molti uomini, soprattutto in punto di morte, a redigere testamenti con i quali lasciavano parte dei loro averi agli enti ecclesiastici.

La rinascita dell’XI secolo apportò miglioramenti anche alle tecniche agricole: è in quest’epoca che furono introdotti l’uso dell’aratro con la punta in ferro e fornito di ruote, nuovi sistemi di aggiogamento di buoi e cavalli, il sistema di rotazione triennale dei terreni da coltivare e si diffuse l’uso del mulino ad acqua. Allo sforzo di migliorare la produttività del suolo fece seguito, soprattutto nel XII secolo, l’espansione delle zone coltivate: grandi estensioni di terre vennero dissodate e sottratte alle foreste e alle paludi.

Con l’arrivo dei Normanni nel 1034 Policastro subì una nuova distruzione per mano di Roberto il Guiscardo (1065). Questo avvenimento provocò un esodo degli abitati superstiti, i quali si diressero verso l’interno in cerca di una zona provvista di maggiori difese naturali come quelle fornite dall’inaccessibilità di alcuni luoghi che favorirono la formazione dell’abitato di Bosco32. Altri abitanti fondarono il villaggio di Santa Marina che rimase sotto la giurisdizione di Policastro, al contrario di quello di Bosco che poco tempo dopo se ne staccò.

L’elezione papale di Gregorio VII (1073) segnò un periodo di rinascita della cattedra episcopale policastrense che iniziò nel 1067 con la nomina a vescovo di Policastro concessa dall’arcivescovo di Salerno Alfano al monaco benedettino Pietro Pappacarbone, proveniente dalla Badia di Cava dei Tirreni33. Questo monaco nacque a Salerno alla fine degli anni Trenta o nei primi anni Quaranta dell’XI secolo da una nobile famiglia di origine longobarda. Nipote di sant’Alferio Pappacarbone, fondatore e primo abate di Cava (1011-1050), soggiornò a Cluny, dove apprese gli insegnamenti di sant’Ugo (1024-1109), abate cluniacense che resse l’ente monastico – appartenente all’Ordine benedettino – per sessant’anni, essendo entrato in carica dal 1049. Il Pappacarbone non restò in carica a lungo, poiché, dopo pochissimo tempo,

32 F. UGHELLI, Italia Sacra sive de Episcopis Italiae, et insularum adjacentium, t. VII, apud Sebastianum

Coleti, Venetiis MDCCXXI, p. 758.

33 Il Laudisio riporta un’altra data, quella di ottobre 1079, che, come ha giustamente evidenziato Ebner, pare

essere inesatta, poiché in quell’anno Pappacarbone era già abate della badia di Cava. P. EBNER, Chiesa, baroni

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decise di lasciare la guida della diocesi e di ritornare al suo monastero di origine: ma prima di tornare a Cava resse il cenobio di Sant’Arcangelo di Perdifumo in due momenti, nel 1068 e nel 1071. Tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII Pietro fu il terzo abate della Badia di Cava (1079-1123). Visse qui fino al termine della sua vita, avvenuta il 4 marzo 1123, e il suo corpo fu seppellito nella grotta Arsicia, all’interno della cattedrale della SS. Trinità di Cava, vicino quello di sant’Alferio34.

A partire da questi anni ci sono pervenute notizie più precise e attendibili su tutti gli altri vescovi che, in seguito, si successero. Già al tempo di papa Giovanni XV (986) essi iniziarono a dipendere dall’arcivescovo di Salerno, il quale ottenne da papa Stefano X, nel 1057, anche il diritto di nominare e consacrare dieci vescovi suffraganei tra i quali compariva quello policastrese. Pare che l’istituzione della diocesi di Policastro avvenne proprio in quegli anni, con la bolla papale del 24 marzo 1058 emanata da Stefano X.

La lettera dell’arcivescovo Alfano del 1079 conteneva anche importanti norme riguardanti le ordinazioni sacerdotali: fu imposto il divieto di diventare sacerdote a coloro che si fossero sposati due volte o che non avessero sposato una donna onesta, una “virginem” (non era vincolante il celibato), a coloro che dovessero scontare una pena grave, ai condannati dalla curia vescovile, agli “illitterati”, ai viziosi. Inoltre stabiliva che il vescovo dovesse dividere le rendite in quattro parti: una per sé, una per i chierici, una per i poveri e una per la conservazione degli edifici ecclesiastici. Venivano anche delineati i confini della diocesi ed elencati i paesi che ne facevano parte: oltre Policastro la diocesi amministrava le località di Camerota, il castello di Mandelmo, Arriuso, Caselle in Pittari, Tortorella, Torraca, Sapri, Lagonegro, Rivello, Trecchina, Lauria, Seleuci, Latronico, Agromonte, S. Attanasio, Viggianello, Rotonda, Laino Borgo, Trosolino, Avena, Regione, Abatemarco, Mercurio, Orsomarso, Scalea, Castrocucco, Tortora, Aieta e Maratea35. Quindi la diocesi era composta da centri abitati che attualmente si trovano in tre diverse regioni – Campania, Basilicata e Calabria –; proprio quelle zone, ai confini campano-calabro-lucani, erano caratterizzate da una notevole presenza di monaci basiliani e, di riflesso, di chiese di rito greco. In quest’area,

34 L’Ughelli scrive che «[…] ejus corpus in sacra cripta beati Alpherii patri sepultum est» (F. UGHELLI, Italia

Sacra sive de Episcopis Italiae, et insularum adjacentium, t. VII, apud Sebastianum Coleti, Venetiis MDCCXXI,

p. 543). Sul Pappacarbone e sulla badia cavense cfr. anche: S. LEONE, Dalla fondazione del cenobio al secolo

XVI, in La badia di Cava, edizioni Di Mauro, Cava de’ Tirreni 1985.

35 L’abate Vincenzo D’Avino ha lasciato l’elenco dei nomi di quei centri abitati sui quali nell’Ottocento si

estendeva la giurisdizione episcopale della diocesi di Policastro. Tra loro non sono presenti paesi della Calabria settentrionale, confluiti nella diocesi di Cassano. Le località che, nella prima metà del XIX secolo, componevano la diocesi policastrese, sono ubicati - eccetto sei centri lucani - quasi tutti nell’attuale Campania. Essi sono: «Acqua della Vena, Bosco, Battaglia, Camerota, Capitello, Casaletto, Celle, Lagonegro, Latronico, Lauria, Lentiscosa, Morigerati, Poderia, Policastro, Rivello, Roccagloriosa, Rocchetta, San Costantino, San Cristoforo, San Giovanni a Piro, Santa Marina, Sapri, Sicilì, Torraca, Torre Orsaja, Tortorella, Trecchina e Vibonati» (V. D’AVINO, Cenni storici sulle chiese arcivescovili, vescovili e prelatizie (nullius) del Regno delle Due Sicilie, cit., p. 539).

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come già ricordato, si era fatta sentire tutta la forza delle cittadelle monastiche, formidabili centri di irradiazione di spiritualità e cultura orientale. La diocesi amministrava tutti i beni appartenenti ai suddetti abitati, tutte le loro pertinenze, ovvero tutte le loro case, i vigneti, le terre, i prati, i campi, i boschi, le fonti, i ruscelli, i mulini, le fattorie con i servi, e anche tutte le chiese, i sacerdoti, i diaconi, i subdiaconi, e i chierici presenti in questo territorio.

La suddetta lettera, inoltre, negava al vescovo di Policastro e ai suoi successori la possibilità di emettere scomuniche, punizioni o di ordinare sacerdoti senza l’autorizzazione del vescovo pestano pro-tempore Maraldo e dei suoi successori. La spiegazione a questo provvedimento la si trova nel fatto che i villaggi citati nella lettera, appartenenti in parte alla diocesi di Policastro e in parte a quelli di Blanda, fino a quel momento erano rimasti sotto l’amministrazione apostolica dei vescovi pestani36.

Nell’XI secolo gli abitanti del meridione subirono diverse carestie, come quelle del 1005- 1006, che indebolirono la già malnutrita popolazione. Nello stesso periodo la situazione fu aggravata dall’alternarsi di inverni rigidissimi (1076-1077) e di siccità estive di grandi proporzioni. Tutto questo giustifica la definizione di secolo delle “grandi paure” che è stata data all’undicesimo secolo. In questo arco di tempo il Cilento e il Mezzogiorno italiano in generale subirono ancora gli attacchi dei saraceni, ormai da diversi anni scacciati dal loro rifugio agropolitano. Un tale stato di cose creava una condizione di paura e disagio che si ripercuoteva sulla popolazione e sul clero: i grandi proprietari continuarono, anzi intensificarono il loro avido accumulo di beni e la Chiesa toccò l’apice del degrado morale con la compravendita delle cariche ecclesiastiche, delle cappelle, degli altari.

Dopo il Pappacarbone la diocesi di Policastro restò con la sede vacante per alcuni anni: infatti, le notizie del suo successore risalgono al 1110, più precisamente Arnaldo, il secondo vescovo della ricostituita diocesi policastrense, fu eletto prima del 17 febbraio di quell’anno. Nel 1211 si verificò un episodio degno di nota. L’imperatore Federico II decise di intervenire nell’elezione del nuovo vescovo di Policastro, cercando di favorire la nomina del suo medico personale, Giacomo. Così, sebbene il capitolo di Policastro avesse già scelto l’arciprete di Saponara, Federico si rifiutò di ratificare la conferma dell’avvenuta elezione. Inoltre, leggendo la cronaca dell’Ughelli, pare che il medico di corte non fosse nemmeno un uomo dal comportamento irreprensibile:

[…] cum assensum Federici Regis Sicil[iae] expetiissent Canonici, et ex ipsis aliquos in Siciliam destinassent nuncios, Rex quemdam Medicum suum Jacobum virum indignum contra caninicas sanctiones intrudere volens, minis et indignatione ab ipsis extorsit, ut Iacobum eligerent Episcopum […]37.

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P. EBNER, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, cit., p. 50.

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Il capitolo si piegò al volere del sovrano ma il tempestivo intervento papale ribaltò la situazione: il papa non poteva certamente stare a guardare in modo passivo mentre il potere temporale tentava di mettere a segno un’ingerenza così diretta nell’ambito della sfera spirituale. Il 17 giugno papa Innocenzo III da Roma informò il vescovo di Capaccio, il capitolo di Policastro, l’arcivescovo di Salerno e l’abate di Cava di aver invalidato l’elezione di Giacomo a vescovo38.

Nel novembre del 1254 toccò al salernitano Giovanni Castellomata ricevere l’incarico della reggenza della cattedra policastrese da parte di papa Innocenzo IV. Sul Castellomata non si hanno altre notizie precise, sappiamo che restò alla guida della diocesi fino alla sua morte oppure fino al giorno del suo trasferimento in un’altra sede: «Paululum Pontifex fuit, vel morte oppressus, vel ad aliam dignitatem translatus»39. Ci sono giunti i nomi di altri vescovi del XIII secolo: Mario, eletto nel 1256, che però «paucoque tempore hanc rexit Ecclesiam»; un certo Fabiano o “Farritius”, successore di Mario che entrò in carica nel corso dello stesso 1256; e Bartolomeo. Alla fine del secolo ricoprì la carica Pagano (dal 1294 al 1330, anche se il Laudisio fissa la data della sua elezione, forse più verosimilmente, al 1301): egli fece costruire il palazzo vescovile di Torre Orsaia40, in modo che da quel momento i vescovi,

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P. EBNER, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, cit., pp. 335-336.

39 F. UGHELLI, Italia Sacra sive de Episcopis Italiae, et insularum adjacentium, cit., p. 563.

40 Il paese di Torre Orsaia – ricordato nei documenti anche con i nomi di “Turri”, “Torre inferiore”, “Turris

Petrusiae”, “Turris Ursaye”, “Torre Ursaia” – è uno dei casali del golfo di Policastro che ha i legami più stretti con le vicende della diocesi policastrese, che influenzò notevolmente la storia del centro collinare. Sull’origine del toponimo “Torre Orsaia” ci sono giunte due spiegazioni: il Laudisio ci informa che vicino la torre del castello di fondazione ruggeriana erano stati avvistati diversi orsi, probabilmente proprio da quei policastresi che andavano cercando un nuovo sito su cui stanziarsi. E la scelta ricadde su questo luogo per la possibilità di dedicarsi alla caccia. La seconda interpretazione riguardo al toponimo - riportata dal Troyli, il quale l’aveva desunta da un passo di Plinio il Vecchio - suggerisce che la fondazione del villaggio sia stata opera del popolo lucano degli Ursentini (cfr., PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, III, 11, 98). Di recente il Fusco ha sostenuto l’esistenza di un legame tra “Orsaia” e il cognome Sursaya (presente anche nella forma Ursaya). Secondo lo studioso sanzese “Torre” non deriva da Turris (=fortificazione, torre difensiva) ma, bensì, debba essere inteso con il significato di “casa di campagna”. In definitiva il toponimo Torre Orsaia va inteso come «casa di campagna della famiglia Sursaya (Ursaya)». Nel XIII secolo l’abitato fu riconosciuto come “franco allodio” dei vescovi di Policastro: iniziava così ad affermarsi la loro signoria, a Torre e sui casali vicini. Antonello Petruccio acquistò Torre Orsaia nel 1471 e s’impegnò nel recupero e nel restauro di alcune strutture difensive, come la torre. Fu proprio il dominio del Petruccio che diede all’abitato anche il toponimo di “Turris Petrusiae”, in riferimento al borgo (in seguito detto Castel Ruggero, oggi frazione di Torre Orsaia) fondato, a poca distanza, dal feudatario. Nel 1479 re Ferrante concesse il titolo di “Terra” a Torre Orsaia: inoltre mise fine alla dipendenza dell’abitato dalla Mensa vescovile di Policastro, decreto confermato anche da Carlo V nel 1550. L’attribuzione di questo privilegio pose fine ad alcune consuetudini spettanti agli abitanti torresi, come quella di dover “donare” ogni domenica alla Mensa vescovile un canone in natura non ben specificato. Nel corso del XVI secolo si arrivò anche a una precisa definizione delle competenze riguardanti la sfera giurisdizionale: ai conti Carafa di Policastro spettava la sola giurisdizione criminale, mentre quella civile era prerogativa dei vescovi policastresi. Grazie ai dati fornitici dal Giustiniani possiamo avere un quadro dell’andamento demografico durante il ‘500: nel 1532 sono stati registrati 161 fuochi, nel 1545 c’è stato un lieve miglioramento (192 fuochi). La crescita continuò anche nella seconda metà del secolo: nel 1561 e nel 1595, infatti, i numeri ci dicono della presenza di, rispettivamente, di 201 e 268 fuochi. A fine Settecento Torre Orsaia era una “Terra regia”, in cui le strutture ecclesiastiche del palazzo vescovile e del seminario versavano in uno stato di abbandono, a causa dell’«aria malsana». Vi risiedevano circa 2.000 abitanti, dediti specialmente alla produzione di grano, vino, olio e lino. In questo periodo la giurisdizione civile spettava al Fisco, mentre quella criminale era ancora competenza

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qualora fossero stati minacciati dalle incursioni straniere, avrebbero potuto rifugiarsi nella nuova residenza, sorta in un centro lontano dal mare e posto a 295 metri sul livello del mare, situato in una posizione elevata che consentiva di controllare una buona porzione di territorio circostante; tale soluzione testimonia come il problema della sicurezza fosse sempre all’ordine del giorno, specie per le popolazioni che abitavano nelle vicinanze del litorale. In quest’ottica ci appare molto chiaro il motivo per cui il mare non era più visto come un’opportunità – economica e di sviluppo – per gli abitanti di Policastro, i quali iniziarono a valutare le nuove possibilità offerte dall’area collinare dell’interno41.

La guerra angioino-aragonese fece sentire tutta la sua asprezza nel Cilento soprattutto tra il 1294 e il 1299. Gli angioini concessero terre a nuovi feudatari pensando di poter instaurare buoni rapporti con questa classe, ma il tentativo fallì e non fece altro che peggiorare i rapporti con la masse contadine schiacciate da nuovi oneri fiscali. L’ultraventennale lotta angioino- aragonese costrinse i sovrani a emanare leggi speciali per far fronte alle pesanti carenze alimentari e a imporre la riduzione e, a volte, la sospensione della riscossione delle tasse. Tutto questo malessere non si tradusse nell’area cilentana in sommosse e rivolte, come quella dei Ciompi che si verificò a Firenze, anche perché nel Mezzogiorno, come è stato evidenziato da Marx e da Engels, mancavano le grosse città che nel centro-nord riuscirono a vincere il feudalesimo, fenomeno che ebbe una maggiore durata e un endemico radicamento al sud grazie alla presenza di forti poteri individualistici interessati alla salvaguardia delle loro autonomie42.

Una delle personalità di maggiore rilevanza che diresse la chiesa policastrese nel Trecento è senza dubbio Francesco Capograssi, di origine salernitana. Il Capograssi da decano della chiesa di Capua fu promosso a vescovo di Policastro nel 1356 e andò a prendere il posto lasciato scoperto dalla scomparsa del suo predecessore Tommaso.

Ormai quasi tutte le famiglie possedevano un pezzo di terra, come si rileva da una Prammatica del 19 novembre 1497 di re Ferrante. Questo rescritto imponeva a tutti i cittadini, esclusi gli ecclesiastici, di contribuire fiscalmente agli oneri delle Universitas civium in relazione al valore dei loro immobili.

del conte di Policastro. P. EBNER, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, cit., pp. 667-671; N. M. LAUDISIO,

Sinossi della diocesi di Policastro, cit., pp. 17, 19; P. TROYLI, Istoria generale del reame di Napoli, vol. I, pp.

2, 171 e ss; F. FUSCO, Torre Orsaia e i suoi antichi Statuti, Larmini, Sala Consilina 2004, pp. 5, 14, 20-21; G. DE ROSA, Il Sinodo di Policastro del 1784 e la censura napoletana, in IDEM, Vescovi popolo e magia nel Sud.

Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, 2ª ediz., Guida editori, Napoli 1983, p. 174 e ss; L.

GIUSTINIANI, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, tomo IX, presso Vincenzo Manfredi, Napoli 1805, p. 215.

41 V. D’ARIENZO, Economia e politica di controllo del territorio. Policastro nella prima età moderna, cit., p.

14.

42 Il feudalesimo è resistito nel Mezzogiorno fino all’inizio del XIX secolo, quando, durante il cosiddetto

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Alfonso d’Aragona favorì un incremento della produzione zootecnica, ma l’indirizzo di molti contadini verso la pastorizia finì per svantaggiare l’agricoltura.

Il 3 marzo 1417 il Capitolo di Policastro elesse al seggio vescovile Nicola, archimandrita del monastero basiliano di San Giovanni a Piro. Fu l’ultima volta che un ecclesiastico italo- greco resse la chiesa policastrese: il motivo non va ricercato nel fatto che il cenobio sangiovannese aveva ormai raggiunto da tempo il punto massimo della sua parabola ascendente e si stava avviando verso il periodo più difficile della sua storia - prima il passaggio in commenda e poi le liti giurisdizionali -, ma piuttosto nella realtà storica del pieno Cinquecento. Difatti a partire da questo momento la Chiesa cattolica iniziò il lungo cammino di riforma, o controriforma, con l’intento di osteggiare tutte le persistenze di rito greco presenti sul territorio e di assorbirle all’interno del processo di latinizzazione. Dal 1438 al 1445 la giuda della diocesi, dopo la morte del vescovo Nicola, toccò a Giacomo Lancellotto, decano della chiesa di Troppa, in Calabria43.

La seconda metà del XV secolo vide avvicendarsi, in un arco temporale abbastanza ristretto, diversi vescovi diocesani a Policastro: nel marzo del 1445 Carlo, «sacrae Theologiae eximium doctorem»; nel 1455 “Hieronymus” de Vinea; dall’ottobre 1468 fino al 1471 fu vescovo Enrico “Languardus”. Pare interessante soffermarsi brevemente sul profilo dell’ “uomo di Dio” che resse la chiesa policastrese tra gli anni settanta e i primi dell’ottanta del Quattrocento. Nel settembre del 1471 fu eletto Gabriele “Altilius” (Guidano). Questo vescovo viene ricordato per la sua cultura e per la sua abilità nel comporre versi: l’Ughelli lo descrive «Latinae linguae peritissimus», qualità che gli valse l’incarico di “praeceptor” del giovane Ferdinando, futuro re di Napoli; scrisse anche un “epithalamium” per Isabella d’Aragona. Gabriele morì nel 1484 a più di sessant’anni. La figura di questo vescovo sembra che si inserisca perfettamente nel più ampio quadro storico in cui è vissuta, ovvero negli anni dell’umanesimo, movimento intellettuale che, tramite la riscoperta delle “humanae litterae”, accompagnò la nascita e lo sviluppo del rinascimento. L’età medievale si chiuse con l’episcopato del napoletano Girolamo Almensa, in carica dal 10 gennaio 1485 al 4 gennaio del 1493, giorno della sua morte. Girolamo, «vir Theologica facultate, prudentia, et in rebus agendis experientia longe clarissimus», godette di grande stima presso il re di Napoli: il