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Il passaggio alla Sistina e le liti giurisdizionali: il III stato del cenobio (1587-1699)

IL CENOBIO DI SAN GIOVANNI A PIRO

3.3 Il passaggio alla Sistina e le liti giurisdizionali: il III stato del cenobio (1587-1699)

Il terzo momento della vita dell’abbazia sangiovannese va dal 1587, anno del passaggio della commenda basiliana alla Cappella Sistina, al 1699, epoca in cui l’Università di San Giovanni a Piro intraprese una causa giudiziaria, affidata all’avvocato Pietro Marcellino Di Luccia, contro il conte e il vescovo di Policastro, accusati di voler usurpare, rispettivamente, la giurisdizione temporale e spirituale su questo territorio.

Purtroppo per gli abitanti cilentani, il costante problema di dover fronteggiare e resistere alle invasioni straniere e alle malattie che falcidiarono la popolazione non cessò neanche durante questo periodo. Infatti il pirata Barbarossa nel 1644 mise a ferro e fuoco San Giovanni a Piro, infliggendo un duro colpo alla popolazione locale1. Inoltre il paese fu colpito gravemente dalla peste del 16642.

Il passaggio della commenda basiliana alle dipendenze della Cappella del SS. Presepe (maggiormente nota con il nome di Cappella Sistina) fu sancito dalla bolla papale emessa da Sisto V nel 1587. Questa data segna il definitivo declino del cenobio sangiovannese, perché la lontananza da Roma relegò la struttura e il suo clero in un crescente stato di abbandono. Il 13 novembre 1587 la Cappella Sistina prese il possesso dell’ente monastico di San Giovanni a Piro, oltre che delle grancie, delle chiese e delle cappelle a essa soggette. In più ottenne anche l’abbazia benedettina di Salerno intitolata a San Leonardo e quella basiliana di “S. Nicola de Butramo”, in Calabria3.

Dopo questo passaggio la Santa Sede avrebbe dovuto mandare nel Golfo di Policastro un “Vicario” per l’amministrazione del cenobio, privo ormai delle antiche attività e dei suoi beni, ma, al contrario, scelse di assegnare l’incarico al vescovo di Policastro Ferdinando Spinelli. Questo avvenimento segnò l’inizio di una lunga e aspra controversia che vide contrapporsi l’Università di San Giovanni a Piro contro il conte e il vescovo di Policastro. La controversia, però, è solo il risultato finale di usurpazioni, di occupazioni indebite e di “abusi di potere” – per dirla con un termine moderno – perpetrati negli anni precedenti dai vari vescovi e conti di Policastro che, in momenti diversi, cercarono di sfruttare e di impadronirsi del patrimonio immobiliare basiliano con le rispettive rendite prodotte. Inoltre, il motivo fondamentale di scontro fu rappresentato dalle prevaricazioni nel campo delle giurisdizioni – temporale e spirituale –, che andavano a sfociare anche in materia feudale: era forte e vivo il problema di

1 La “Terra di San Giovanni a Piro” era stata invasa e saccheggiata anche nel XVI secolo, precisamente nel 1533,

per mano dl corsaro turco detto il Giudio, il quale provocò la morte di oltre 80 persone. Un’altra invasione si ebbe nel 1552. La sera di sabato 11 luglio i pirati saraceni sbarcarono nei pressi di Scario e la mattina del giorno seguente invasero San Giovanni a Piro.

2 F. CIRELLI, Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato, cit., p. 55. 3

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definire usi civici, prestazioni lavorative, diritti e doveri di singoli individui e gruppi sociali. Numerosi furono i casi in cui emissari, mandati dai vescovi o dai conti, esigevano tributi dai cittadini dell’Universitas di San Giovanni a Piro o rendite dal cenobio basiliano. Allora i cittadini sangiovannesi, stanchi di queste continue vessazioni, decisero di intraprendere una vera e propria causa contro i due “poteri” usurpatori, affidando all’avvocato Pietro Marcellino Di Luccia il compito di reperire tutta la documentazione probatoria adatta a dimostrare che il cenobio era ed era sempre stato svincolato dalla giurisdizione episcopale e che le richieste di pagamenti di imposte e censi vari fatte dal conte di Policastro agli abitanti locali risultavano essere illecite.

Il Di Luccia, di origine sangiovannese anche se esercitava la sua professione a Roma, si mise subito a lavoro e, dopo una lunga e attenta ricerca e scansione di documenti, pubblicò nel 1700 il suo trattato. L’avvocato raccolse una grandissima mole di notizie che abbracciavano un arco temporale lungo oltre quattro secoli (dalla fine del XIII a tutto il XVII), proponendo un vero e proprio regesto di tutto il materiale documentario reperito. L’obiettivo ultimo del Di Luccia era quello di mettere fine alle angherie ormai mal sopportate dai sangiovannesi: per fare ciò doveva dimostrare che il vescovo e il conte di Policastro non possedevano né la giurisdizione spirituale né quella temporale e che quindi non potevano avanzare alcuna pretesa all’interno del territorio del “Casale”. Dal 1587, l’anno del passaggio dell’ente cenobitico italo-greco alle dipendenze della Cappella del SS. Presepe di Roma, le terre sangiovannesi iniziarono a essere sfruttate a danno della comunità religiosa e degli abitanti di San Giovanni a Piro. Probabilmente anche prima, durante il periodo della commenda tra Quattrocento e Cinquecento, le mire di alcuni vescovi o conti particolarmente intraprendenti si erano spinte anche su quei possedimenti controllati e amministrati dai monaci basiliani o per loro conto, ma la presenza in loco dell’abate commendatario garantiva una più attenta protezione materiale ma anche giuridica dell’ente monastico. Dopo il 1587, però, la distanza che separava Roma dal Golfo di Policastro sembrava enorme e incolmabile, lasciando ampi spazi di manovra all’interno di questo vuoto giuridico-istituzionale che si era venuto a creare: emissari – chiamati «affittatori» – furono inviati dal conte o dal vescovo policastresi nel territorio di San Giovanni a Piro con il compito di concedere le terre “basiliane” in enfiteusi temporanea, con diritto di preferenza agli abitanti del luogo4. In questo modo, incominciò una serie di appropriazioni che non potevano essere avallate da alcun documento, poiché erano dettate solo dalla prepotenza e dall’idea di prevaricare soggetti istituzionali concorrenti in una stessa area geografica. Ma uno dei soggetti in questione si

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trovava nettamente in una posizione di svantaggio, sfavorito da quel periodo storico che segnava il punto più basso dell’esperienza del monachesimo basiliano: tale fenomeno fu interessato dagli interventi che la Chiesa controriformata iniziava a mettere in atto per risanare la sua struttura interna – cancellazione del rito greco e allineamento all’ortodossia sancita a Trento, solo per fare degli esempi.

Secondo il Di Luccia e la popolazione tutta, la definizione delle diverse giurisdizioni era il nodo cruciale che, una volta sciolto in modo oggettivo, poteva comprovare l’illiceità delle pretese dei poteri esterni. L’avvocato, dopo aver spiegato che le terre in cui alla fine del X secolo sorse il cenobio, e successivamente l’abitato di San Giovanni a Piro, erano state concesse dai Longobardi alla Chiesa di Roma, riportò il primo documento per dimostrare che la giurisdizione – sia spirituale che temporale – spettava ai basiliani. Il Di Luccia segnalò gli atti di un processo, tenutosi nel Sacro Consiglio di Napoli nel 1294, in cui si legge che Carlo II affermò: «Castrum S. Ioannis ad Pirum esse Monasterii S. Ioannis, et iilius contemplatione conceditur exemptio a functionibus fiscalibus stante dicti Castri depredatione ab hostibus»5. Per corroborare la sua tesi incentrata sul possesso secolare del casale sangiovannese da parte dei basiliani, l’avvocato scelse di riportare anche altri documenti: per esempio quello, datato 1348, nel quale re Ludovico e la regina Giovanna I avevano definito gli abitanti di San Giovanni a Piro vassalli del monastero, decretando quest’ultimo possessore del «Castrum praedictum». Poco più di un secolo dopo (1468), i cittadini e vassalli sangiovannesi prestarono, con il consenso del re, un giuramento di fedeltà all’abate del cenobio. Già nel XV secolo il problema di definire le sfere giurisdizionali per evitare abusi e usurpazioni doveva presentarsi ai diversi poteri locali che agivano sul territorio: in tal senso è interessante la donazione fatta nel 1484 dal conte di Policastro, Antonello Petrucci, al suo terzogenito. Nell’atto notarile venivano delineati i confini di Policastro e di San Giovanni a Piro, ricordando che il possesso del territorio sangiovannese era di pertinenza del monastero. Il Di Luccia raccolse documenti del Cinquecento e del Seicento tesi a provare che la giurisdizione civile nel casale di San Giovanni a Piro spettava agli abati basiliani, mentre al conte di Policastro solo quella criminale, ovvero quella che ha «la sola cognitione delli delitti in tre casi, cioè quando un suddito fà un delitto, nel quale entra la pena della morte naturale, civile, mutilatione di membro»6.

Non ci sono giunte notizie precise sulle conseguenze che seguirono tale pubblicazione, poiché il Di Luccia non ha riportato alcuna sentenza pronunciata su questa disputa – sentenza a cui, con buone probabilità, non si arrivò mai. Invece sappiamo che da quel momento i due

5

P. M. DI LUCCIA, L’Abbadia di S. Giovanni a Piro – trattato historico-legale –, cit., p. 117.

6

Ivi, cit., p. 127. Un’analisi dei documenti proposti dal Di Luccia sono in C. BELLOTTA, Il monachesimo

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“poteri” rivali della comunità sangiovannese non rinunciarono alle loro pressanti richieste sul territorio, dato che la causa giunse nel 1789, quasi un secolo dopo il suo inizio, all’attenzione di un tribunale. Il 12 giugno di quell’anno fu redatta una memoria, scritta per la Cappella del SS. Presepe e presentata alla Suprema Real Camera di Napoli, in cui si ripercorrevano le vicende delle abbazie di San Giovanni a Piro, di San Leonardo in Salerno e di San Nicolò in Butramo e del loro passaggio alle dipendenze della Cappella Sistina. Purtroppo anche di questa causa non si hanno sentenze; l’unica certezza è che il cenobio sangiovannese rimase in possesso della Cappella Sistina fino alle leggi eversive della feudalità emanate il 2 agosto 1806.