CAPITOLO IV LA BADIA DI PATTANO
IL MONASTERO DI MONTESANO SULLA MARCELLANA
Il monastero di San Pietro al Tumusso di Montesano sulla Marcellana è il terzo ente monastico di fondazione basiliana di cui si cerca di ricostruire le vicende, sottolineandone l’influenza e l’incidenza sul territorio limitrofo e, di riflesso, sulla vita delle popolazioni che lo abitavano.
Prima di concentrarci sulla descrizione, per molti versi enigmatica, della storia del monastero montesanese è d’obbligo soffermarci sugli aspetti storico-geografici caratterizzanti il territorio valdianese, dove era ubicata la struttura monastica. Il Vallo di Diano comprende tutta quell’area dell’attuale Campania posta a sud di Salerno, confinante con la regione Basilicata, e che, in età moderna, faceva parte – come il Cilento e il Golfo di Policastro – del Principato Citeriore. Il Diano, dal punto di vista geografico, è delimitato, partendo da nord e proseguendo in senso orario, da importanti montagne: il confine nord è segnato dai Monti Alburni, quello est dalla catena montuosa appenninica, che lo separa dalla Val d’Agri; il punto più meridionale viene rappresentato, invece, dal Monte Juncolo (1221 metri), nel territorio di Casalbuono, mentre, risalendo verso nord, il Monte Cervati e il Monte Motola (1700 metri) delimitano i punti estremi delle due microaree di cui ci siamo già occupati, Golfo di Policastro e Cilento.
Il Vallo di Diano, come indica il nome, è una vallata circondata e protetta da numerose montagne: il Monte Cervati è il rilievo montuoso più significativo, posto a una altezza di 1899 metri sul livello del mare, nei pressi di Sanza, sulla cui cima è stato eretto un santuario dedicato alla Madonna della Neve. La montagna ha rappresentato, storicamente, un sostegno naturale alla sopravvivenza dell’uomo, il quale poteva, innanzitutto, utilizzare il legname per gli usi più disparati: per riscaldarsi, per cuocere i cibi, per fabbricare utensili, attrezzi da lavoro, strutture abitative e anche armi. La montagna dà la possibilità di procurarsi da mangiare attraverso la caccia, oppure attraverso la raccolta di frutti, di radici e di erbe, ma nasconde anche insidie che possono rivelarsi fatali, come l’incontro con animali selvatici pericolosi. Infine, l’elemento-montagna viene fortemente avvertito come custode del soprannaturale, nasconde fattori religiosi e mistici; spesso è addirittura sede dell’ultraterreno, basti pensare al Monte Olimpo o alla Montagna del Purgatorio dantesca, al Monte Sinai o alle montagne sacre dell’America del Nord in cui dimoravano sciamani indiani capaci di interagire con le forze della natura. Il binomio montagna-religiosità è vivo nella parte più meridionale del Principato Citra: opere settecentesche ci narrano di pellegrinaggi che si
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svolgevano su montagne cilentane e valdianesi – per esempio sul Monte Gelbison e sul Cervati, rispettivamente al santuario della Madonna di Novi Velia e a quello della Madonna della Neve a Sanza – ancora oggi intrapresi da molti fedeli, segno di un’antica e consolidata devozione mariana.
L’area valdianese è stata da sempre ricca di corsi d’acqua, determinante fattore di sviluppo agricolo. Il fiume più grande, più lungo e più connotativo è senza dubbio il Tanagro. Questo fiume attraversa tutta la vallata, toccando diversi centri abitati (Polla, Pertosa, San Pietro al Tanagro): nasce in territorio lucano e risale verso nord-ovest il vallo, terminando il suo corso nei pressi di Contursi, quando si immette nelle acque del fiume Sele. Il Calore è un altro corso d’acqua importante del Vallo di Diano. Solo un tratto di questo fiume, però, tocca una porzione dell’area valdianese, in quanto, dopo essere nato nei pressi di Sanza, dai pendii settentrionali del Monte Cervati, si sviluppa maggiormente nel Cilento. Il Calore attraversa Piaggine, Castel San Lorenzo, Castelcivita, Persano e confluisce nel Sele, in località Ponte Barizzo.
Anche il Vallo di Diano, come il Golfo di Policastro e il Cilento, fu interessato da una considerevole migrazione che vide come protagonisti i monaci basiliani provenienti dall’Oriente. La microarea del Diano si rivelò molto accogliente: questa sub-regione si dimostrò adatta allo stanziamento dei religiosi bizantini, i quali poterono constatare l’esistenza di numerosi corsi d’acqua e di ampie pianure, condizioni favorevoli allo sviluppo delle pratiche agricole, primario mezzo di sussistenza.
Ecco la descrizione che il barone Antonini, fa del territorio valdianese nella sua opera più importante composta durante la prima metà del Settecento:
[La Valle del Diano è] una delle più amene e deliziose contrade della nostra Regione, e forse del Regno ancora; poiché oltre la disposizione datale dalla natura, ha il vantaggio d’esser ornata intorno intorno di riguardevoli abitazioni: Ed in oltre d’esser da per tutto inaffiata da diversi fiumicelli, e dal famoso Tanagro, (da’ paesani detto il Negro) il quale nascendo nella parte occidentale del Monte Sirino, corre per mezzo questa pianura; e trovando dopo la Polla un varco, o sia una terra atta a ingojarlo, ivi quasi si seppellisce, e poco più di due miglia sotterra camminando, esce in fine nel luogo, detto la Pertosa, da noi altrove descritto. […] Or questo fiume ingrossato dal concorso di varie altre acque, suole l’inverno gravi danni a quelle campagne colle sue inondazioni fare, e per l’estade a molti luoghi vicini rende l’aria alquanto umida, e mal sana1.
Risalta subito all’occhio come l’autore metta in risalto un aspetto geografico in particolare: la presenza del Tanagro e di altri corsi d’acqua minori. L’intero vallo fa registrare un numero importante di fiumi, ruscelli e torrenti, caratteristica determinante – non solo causa di inondazioni e portatrice di malattie – per lo sviluppo degli insediamenti abitativi e
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dell’incremento delle pratiche agricole. Alcune testimonianze di età moderna elencano gli abitati valdianesi del periodo maggiormente degni di nota: nella breve descrizione che proponiamo di seguito, si è deciso di raccontare l’aspetto e gli avvenimenti salienti dei vari paesi seguendo il corso del Tanagro, che, risalendo verso nord-ovest, attraversa l’intera vallata. Il centro più rinomato è la città di Diano (l’attuale Teggiano), per il suo importante ruolo di controllo, svolto fin dal Medioevo, esercitato sull’intera valle, a cui poi ha dato il nome. Diano viene ricordata «nella storia del principio del decimo sesto secolo, per l’assedio ivi posto dagli Aragonesi contro il Principe di Salerno, che nella Terra, e nel suo bel Castello fortificato s’era». La “Terra” di Montesano può essere definita come la porta d’ingresso meridionale del Vallo di Diano; sorta su un’altura, si presenta al visitatore in posizione dominante sul suo esteso contado, ma, al tempo stesso, l’ubicazione determina la presenza di un clima freddo per gran parte dell’anno. In pieno XVII secolo Montesano e tutto il Vallo di Diano furono raggiunti e devastati dalla peste: il morbo era comparso a Napoli durante i primi mesi del 1656 e da lì si era diffuso per tutte le province del regno. L’area valdianese, caratterizzata dalla presenza di centri piuttosto popolosi, fu una delle più duramente colpite. A Montesano dei 22 preti presenti prima dello scoppio dell’epidemia ne rimasero in vita soltanto 6; le due parrocchie montesanesi che producevano una rendita totale di 600 ducati dopo il 1656 furono in grado di produrne solo 180, facendo segnare un calo del 70%, percentuale che significava la quasi totale paralisi delle strutture religiose e di quei chierici sopravvissuti che ne appartenevano2. Il Settecento è il secolo della ripresa per il Vallo di Diano, territorio che iniziò a crescere grazie soprattutto alla presenza di caratteri intrinseci: la costruzione della strada delle Calabrie, il risanamento della valle del Tanagro, uno sfruttamento più razionale del suolo3. Nella città montesanese, in pieno settecento, erano visibili bei palazzi e un monastero appartenente all’Ordine cappuccino, che, secondo quanto ci riferisce il Gatta, era stato destinato a infermeria della Provincia. Altre strutture religiose erano presenti nel territorio ricadente sotto la giurisdizione di Montesano: innanzitutto la badia benedettina detta di Cadossa, un tempo indipendente, che nel XVIII secolo, pur essendo divenuta una grancia della Certosa di San Lorenzo di Padula, aveva ancora mantenuto intatta tutta la sua bellezza4. Montesano ospitava anche un monastero di fondazione basiliana, grancia della Badia di
2 F. VOLPE, Il clero della diocesi di Capaccio dopo la peste del 1656, cit., pp. 15-16.
3 IDEM, La diocesi di Capaccio nell’età moderna, cit., p. 75; IDEM, Territorio e popolazione nell’età moderna,
in Aa. Vv., Storia del Vallo di Diano, vol. III, Laveglia Editore, Salerno 1985, p. 86. Per ulteriori notizie descrittive sul Vallo di Diano in pieno XVIII secolo cfr. G. D’AMICO, Il 1799 nel Vallo di Diano e dintorni, Laveglia Editore, Salerno 1999.
4 Un rapido ma efficace ritratto di come si presentava la badia durante la prima metà del Settecento, con una
particolare attenzione per l’amenità del luogo in cui era ubicata, è tracciato dal Gatta: «Ella è situata in un ameno piano a piè de’ Colli irrigato da copiose e cristalline acque, e le dilei fabbriche con Cortile Loggia e vaghissimi Quarti, che anno [sic] in prospettiva Poggi Selve e Giardini, recano agli occhi delizioso e giocondo spettacolo […]» (C. GATTA, Memorie topografico-storiche della Provincia di Lucania, cit., p. 130).
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Grottaferrata prima di essere ceduta anch’essa, nel 1726, ai certosini di Padula. La stragrande maggioranza degli abitanti era dedita alla pastorizia e all’agricoltura, coltivando a grano i terreni posti più a valle e innestando vigneti lungo i declivi più dolci delle sue alture. Inoltre, venivano prodotte notevoli quantità di ortaggi e frutta. La fertilità della terra del vallo e l’esistenza di numerosi corsi d’acqua dalle svariate dimensioni e caratteristiche hanno spinto l’intera area verso una naturale vocazione agricola, dominante, in questi luoghi, fino alla metà del secolo scorso. Risalendo verso Nord-Ovest, a cinque miglia da Montesano, s’incontra la “Terra” di Buonabitacolo, di fondazione non molto antica, posta in mezzo a un pianoro, abbastanza numerosa e composta da vasti e fertili terreni, molti dei quali destinati al pascolo degli animali. Il territorio era caratterizzato da una predominante presenza boschiva, che ben si prestava all’attività venatoria, soprattutto di pennuti, ma anche di lepri, lupi e volpi. Il Giustiniani segnala alcuni dati numerici che si riferiscono alla popolazione buonabitacolese in età moderna: i cittadini, impiegati quasi tutti nell’agricoltura e nella pastorizia, nel 1532 furono tassati per 178 fuochi, nel 1545 per 257, nel 1561 per 335, nel 1595 per 352. Appare chiaro, da queste cifre, il costante aumento demografico – fattore alquanto generale in tutto il Principato Citeriore – verificatosi nell’intero corso del XVI secolo. L’andamento demografico divenne decrescente a partire dalla metà del secolo successivo, quando la crisi economica e il propagarsi della peste fecero da freno, invertendo la tendenza registrata fino a quel momento; infatti, nel 1648 la numerazione dei fuochi della “Terra” di Buonabitacolo fu di 333 unità, mentre nel 1669, dopo che il morbo si era manifestato in tutta la sua virulenza, di sole 1505. Continuando a seguire il percorso del Tanagro s’incontra Padula, ubicata in cima a un colle da cui è possibile controllare la valle sottostante. La scelta del sito in cui fondare l’abitato non fu certamente casuale, ma doveva rispondere a precise esigenze difensive: difatti, nella parte inferiore il colle risultava essere protetto dalla naturale conformazione del luogo, in quanto si presentava «vallato da straripevoli balze», mentre in quella superiore era difeso da un castello ben fortificato e da solide mura, munite di torri e altre strutture difensive. Anche questa “Terra” contava un buon numero di abitanti, in maggioranza impiegati nel settore primario. La storia di Padula è legata indissolubilmente a quelle della certosa benedettina che sorge nel suo territorio: la struttura religiosa, intitolata a san Lorenzo, ospitò l’imperatore Carlo V di ritorno da una campagna militare in Africa settentrionale6. La Certosa di San Lorenzo, nella
5 L. GIUSTINIANI, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, vol. II, cit., pp. 391-392. Su
Buonabitacolo si veda G. ANTONINI, La Lucania. Discorsi, vol. III, cit., p. 113; C. GATTA, Memorie
topografico-storiche della Provincia di Lucania, cit., p. 132.
6 La Certosa di San Lorenzo, fondata nel 1306 per volere di Tommaso Sanseverino conte di Marsico, richiama
nella sua struttura la forma di una graticola, riferimento al martirio del santo a cui è intitolata. La sezione principale dell’edificio è in stile barocco. Una grande e sinuosa scala a chiocciola in marmo bianco conduce alla grande biblioteca del convento, ambiente pavimentato con mattonelle in ceramica di Vietri. L’edificio contiene oltre 320 stanze, ha il più grande chiostro del mondo e una cappella abbellita con preziosi marmi. Sono presenti
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prima metà del Settecento, gestiva svariati terreni non solo nel territorio di Padula, ma anche in quello limitrofo di Montesano: l’ente monastico certosino possedeva
[…] le Baronie non solo di detta Terra di Padula, ma di Buonabitacolo, e Montesano col feudo rustico di S. Basilio, e lo dilui Priore gode la giurisdizione spirituale nella Terra di Casalnuovo, coll’uso della Mitra e Pastorale come Abate di S. Maria di Cadossa. È ricca altresì questa Certosa per lo possedimento di molte Grancie, ch’ella gode non solo su le rive del Mare Jonio e Tirreno, ma in molte Mediterranee di questa Provincia ancora, donde cava buone rendite per lo mantenimento de’ Religiosi, e per altri dispendj7.
Il “Priore”, in quegli anni, aveva il compito di prendersi cura di una famiglia monastica formata da cinquanta religiosi ed era temuto e rispettato anche al di fuori delle mura della certosa, in quanto era divenuto barone di diverse “Terre”, che gli conferivano poteri ricadenti nella sfera temporale, in aggiunta a quelli – naturali per un religioso – di ordine spirituale. Della città di Diano si è già detto. Continuando a risalire l’altopiano valdianese s’incontra l’abitato di Sala, secondo l’Antonini «uno de’ più belli paesi di questa Valle, non solo per la sua situazione, ma per lo numeroso popolo, e per i buoni palazzi, abitati nobilmente da quei galantuomini»8. La “Terra” di Sala si sviluppa longitudinalmente, appoggiata sui pendii di alcuni colli appartenenti al massiccio appenninico. In epoca moderna l’economia era prevalentemente a vocazione agricola: vaste porzioni di territorio venivano coltivate anche grazie alla presenza di numerosi torrenti e ruscelli, provenienti dai rilievi posti alle sue spalle, che andavano a terminare il proprio corso nelle acque del Tanagro. La disponibilità di molta acqua, come già sottolineato, aveva conseguenze sia positive che negative: specialmente durante il periodo invernale, quando la maggiore e più intensa piovosità causava l’ingrossamento dei corsi d’acqua, non di rado si verificavano straripamenti che inondavano le campagne circostanti, causando gravi danni all’agricoltura e alla sopravvivenza delle famiglie contadine. Queste coltivavano principalmente frutta e verdura di ogni genere e producevano olio e vino. La presenza notevole di corsi d’acqua rendeva necessaria la costruzione di ponti, strutture che caratterizzavano l’aspetto urbano salese e ancora presenti in buon numero e in diversi materiali – pietra e legno – durante il XVIII secolo. Il Vallo di Diano è posto in una posizione geografica tale da farlo risultare un naturale punto di raccordo tra l’Italia centrale e quella meridionale, caratteristica sfruttata già dai Romani che s’industriarono nella creazione di una efficiente rete stradale, riuscendo a far attraversare il
anche locali adibiti a magazzini, a lavanderia e a cantina: in una grande cucina, nella quale la leggenda narra che fu cucinata una frittata di mille uova in onore di Carlo V, venivano preparati i pranzi per la famiglia monastica. I monaci padulesi non si dedicavano solo alla preghiera e allo studio, ma erano impegnati anche nel lavoro dei campi, dal quale riuscivano ad ottenere frutta, ortaggi, vino e olio, prodotti, in parte, destinati alla commercializzazione con l’esterno.
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C. GATTA, Memorie topografico-storiche della Provincia di Lucania, cit., pp. 128-129.
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territorio valdianese dalla Via Consolare. Proprio attraverso questo asse viario nel Cinquecento, precisamente il 15 novembre del 1535, l’imperatore Carlo V, di ritorno dall’Africa e diretto a Napoli, passò per la città di Sala. Il giorno precedente l’imperatore, insieme con tutto il suo seguito, era stato ospitato nella Certosa di San Lorenzo di Padula. A Sala, invece, per poter accogliere in modo adeguato Carlo V e la sua corte, furono allestite allo scopo anche abitazioni private, arredate e approvvigionate come si confaceva per una tale personalità9.
Anche a Sala, nel corso dei secoli, erano state erette molte costruzioni religiose, come i monasteri dedicati a san Michele, a san Vito, alla SSª Trinità, il «Tempio dell’Oliva» consacrato alla Vergine, oppure quello intitolato alla S. Madre Teresa di Gesù, in cui «ogni anno nel dì Natale di detta Santa si celebra solenne Festività con concorso de’ Devoti per l’acquisto delle Indulgenze»10. La giurisdizione spirituale sui paesi valdianesi, in età moderna, spettava ai vescovi di Capaccio, ma un tempo sul territorio era presente una diocesi indipendente, fondata intorno all’antica Marcelliana, città che, da quanto è riscontrabile nei ritrovamenti archeologici, doveva sorgere tra Sala e Padula. La diocesi marcellianense scomparì e l’area su cui aveva esteso il suo controllo religioso fu accorpata alla diocesi pestana, antenata di quella di Capaccio.
Nella parte più settentrionale del vallo i centri da segnalare sono Atena e Polla, quest’ultima “Terra” abbastanza numerosa, legata all’agricoltura e alla pastorizia, in cui erano presenti diversi monasteri, sia maschili che femminili.
Con buone probabilità si è fatto risalire la fondazione del monastero di San Pietro al Tumusso di Montesano sulla Marcellana al periodo normanno (XI secolo), durante il quale si è assistito alla nascita di un numero assai considerevole di nuove fondazioni italo-greche.
9 Ancora una volta è il Gatta che ci racconta come si organizzarono i preparativi per l’accoglienza: al passaggio
del corteo imperiale per la vallata dianese, «fu dal Pubblico di detta Città di Sala fatto apparecchio di lautissimo pranzo, così per Sua Maestà, come per la numerosa Corte e Milizie ch’Egli seco conduceva; furono da que’ Cittadini compartite le Menze in tre grandissime Tende composte di tavole, ed ivi era abbondevolmente quanto bisognava per lautamente desinare, assistendo in servigio di detta comitiva per ogni tavola imbandita dieci persone fra Nobili e Cittadini; come parimente fu fatto apparecchio in centoventi case di detta Città, che furono magnificamente provvedute di letti, vasellame, e di ogni altro ricco mobile, e ciò per ospitare Sua Maestà, e tutti i Signori, che lo seguivano se per sorte ivi dimorare compiaciuti si fussero; alla quale liberalità vi concorse oltre il buon sentimento de’ Cittadini, per dimostrare a quel Principe la diloro divota fedeltà, ma vi fu ordine parimente di Ferdinando IV Principe di Salerno allora Signore di tal luogo, il quale fece intendere a que’ Cittadini, per mezzo del Cavaliere Lionetto Mazzacane Barone d’ Omignano dilui Vassallo, che avessero apprestato ogni più possibile ossequio in tale congiuntura a Sua Maestà; e la medesima liberalità fu praticata da tutte le altre Terre del dilui dominio, spezialmente da’ Cittadini della Polla; la quale sorta di magnificenza, gratissima sopra tutti a’ Tedeschi, fu non solo da loro con perpetua ricordanza sommamente celebrata, ma dall’Imperadore con vivi ringraziamenti molto commendata» (C. GATTA, Memorie topografico-storiche della
Provincia di Lucania, cit., pp. 94-95).
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Infatti pare che tra cenobi, eremi e laure si contasse circa un migliaio di siti bizantini11: fatto rilevante in quanto, è giusto ripeterlo, ci troviamo in un’area che non fu mai politicamente bizantina, ma che invece fungeva quasi da cuscinetto tra i domini longobardi e i territori amministrati direttamente dall’impero.
Il primo documento che parla del monastero montesanese di cui siamo a conoscenza è datato 1131, anno in cui Ruggero II emanò un decreto con il quale confermava all’abate basiliano Leonzio di Grottaferrata le grancie di Santa Maria di Rofrano, sia quelle ubicate nel Cilento che quelle nel Vallo di Diano. Sappiamo, perciò, che il monastero si trovava sotto la giurisdizione spirituale e temporale dell’abbazia di Santa Maria Hodegitria di Rofrano; quindi dipendeva direttamente dalla Badia di Santa Maria di Grottaferrata. L’ente tuscolano possedeva una forza e una ricchezza tali che non lasciavano altre strategie alla politica normanna se non quella di un pieno compromesso; infatti, in quegli anni la badia aveva ben