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L A CODIFICAZIONE DEL 1865: LA CITTADINANZA DELLO S TATO UNITARIO

Nel 1865, il nuovo Codice Civile scandiva le norme sulla cittadinanza dello Stato unitario (80), fondandole su quel principio di nazionalità che era al centro della riflessione dei giuspubblicisti italiani, in primis Pasquale Stanislao Mancini (81 ), ispiratore del Codice Civile del 1865 anche per il tramite dell’amico Giuseppe Pisanelli, al cui nome il codice stesso sarebbe rimasto legato.

La riflessione di Mancini raccoglieva e rielaborava tematiche e riflessioni da tempo circolanti, ricomponendole in un’originale ragionamento sulla nazionalità, il suo rapporto con lo Stato, il diritto, la politica. Per lui, la nazionalità era «lo strumento di collegamento fra l’individuo e lo Stato, il mezzo per distinguere gli individui appartenenti a ogni Stato e il criterio per il riconoscimento, in corpo a ciascuno, dei diritti civili»(82).

Dalla nazionalità dipendevano tre delle tipiche funzioni tradizionalmente attribuite alla cittadinanza, ovvero «individuare un certo numero di soggetti come appartenenti allo Stato», «distinguere gli individui sulla base dello Stato di cui sono cittadini» e selezionare e identificare i «diritti individuali, i quali, nell’idea manciniana, devono essere riconosciuti e disciplinati dal diritto interno sulla base della rispettiva nazionalità»(83).

La nazione

«si identificava in una “società naturale di uomini che presuppone novità di territorio, di origine, di costumi, di lingua”, e (…) la coscienza della nazionalità era il principio attivo in grado di instillare vita in elementi altrimenti inerti e di permettergli di interagire tra loro»(84).

Nella riflessione di Mancini, questo non era ancora un concetto razziale o etnico ma derivava «da una sintesi intellettiva di elementi diversi, resa possibile dalla presa di coscienza da parte dei cittadini di

80

In sede di redazione del codice «vi fu in effetti chi si chiese se non sarebbe stato meglio dedicare alla cittadinanza una sezione dello Statuto, o una legge “d’ordine costituzionale”, dal momento che “la dottrina della cittadinanza avrebbe attinenze dirette più con l’ordine politico che col diritto civile”», ma l’ipotesi non veniva presa in considerazione. Nella relazione di presentazione del progetto del primo libro del Codice Civile, la commissione senatoria motivava la decisione di inserire la cittadinanza nelle materie trattate dal codice perché essa «essendo fonte di diritti politici, suole presso i popoli liberi formare oggetto delle leggi politiche. Ma lo statuto subalpino nulla dicendo della cittadinanza, per la quale si riferisce al Codice Civile che la regolava in Piemonte quando fu promulgato, havvi per noi la necessità di inserire nel Codice Civile le disposizioni, che concernono l’acquisto, la perdita ed il recupero della cittadinanza»(E. GROSSO, La cittadinanza…, cit., pp. 130-131).

81

E. GROSSO, La cittadinanza…, cit., pp. 110-114. Cfr. anche S. TONOLO, L’Italia e il resto del mondo nel pensiero di Pasquale Stanislao Mancini, “Cuadernos de Derecho Transnacional”, vol. 3, 2011, n. 2, pp. 178-192, on line all’URL: http://e-revistas.uc3m.es/index.php/CDT/article/download/1331/553 [verificato il 23/12/2014].

82

E. GROSSO, La cittadinanza…, cit., pp. 111.

83

Ibid.

84

L. NUZZO, Da Mazzini a Mancini: il principio di nazionalità tra politica e diritto, “Giornale di storia costituzionale”, 14, 2007, n. 2, p. 164.

essere una nazione»(85).

«La religione, la razza, la lingua, le tradizioni, le leggi erano elementi reali che formavano concretamente la natura di ciascun popolo. (…) La nazionalità era (…) un inalienabile diritto dei popoli che si originava dal principio fondamentale della libertà dell’uomo. Ma era anche un impegnativo dovere giuridico quando l’esercizio di quella libertà individuale collettiva era impedito»(86).

Così concepita, la cittadinanza, «quel tipo di diritto personale “da cui dipende la condizione civile e politica di ciascuno”»(87), non poteva che essere “appartenenza ad uno Stato”:

«non vi è altra possibilità che stabilire la nazionalità in base alla cittadinanza; sarebbe infatti troppo complesso determinare la legge applicabile ad una determinata fattispecie in base alla nazionalità in senso politico, ovvero intesa con riferimento all’aggregazione naturale non sempre necessariamente coincidente con lo Stato, e anche in base all’interno sentimento di

appartenenza di ogni individuo»(88 ).

La coscienza di essere parte di una nazione costituiva la reale legittimazione dell’esercizio della sovranità statale di confronti dei cittadini e la nazione era la vera protagonista delle relazioni internazionali.

«La nazione era precedente logico dello Stato, la cui naturalità, necessità, storicità si contrapponeva l’artificialità e arbitrarietà di quest’ultimo. Da un lato quindi essa esprimeva e garantiva il diritto fondamentale alla libertà di ciascun uomo e di ciascun popolo, dall’altro imponeva, come “principio obiettivo”, il rispetto delle altre nazionalità, la “eguale inviolabilità e protezione di tutte”»(89).

Lo stato nazionale si affermava come «soggetto originario metaforico che traeva da se stesso in quanto Stato e nazione la forza legittimante di ogni suo atto»(90) e la cittadinanza nazionale che ne derivava era all’origine di un nuovo sistema di diritto internazionale «basato sul reciproco riconoscimento delle nazioni, le cui rispettive popolazioni si distinguono in relazione alle singole

85

E. GROSSO, La cittadinanza…, cit., p. 112.

86

L. NUZZO, Da Mazzini a Mancini…, cit., p. 165.

87

L. BUSSOTTI, La cittadinanza degli italiani…, cit., p.22.

88

S. TONOLO, L’Italia e il resto del mondo…, cit., p.180

89

L. NUZZO, Da Mazzini a Mancini…, cit., p. 166.

90

legislazioni sulla cittadinanza»(91). In questo modo, cittadinanza – intesa come «status giuridico riconosciuto all’individuo dalla legge positiva di uno Stato» – e nazionalità – «status naturale derivante dall’appartenenza a una nazione» – finivano per coincidere, e il diritto della nazione si poneva di fatto al di sopra del diritto dello Stato (92).

La trasmissione della cittadinanza si incardinava più che mai sull’assunto che «è cittadino il figlio di padre cittadino»(art. 4) e, di conseguenza, «l’essere straniero dipende dalla mancanza dei requisiti che il cittadino distinguono»(93). Nella dialettica fra nazionalità e cittadinanza, laddove la prima era «un attributo immutabile della persona acquisito per discendenza» che «ha fondamento naturale che vincola la persona a un dato popolo e può quindi definirsi come il prodotto di un fenomeno etnico», e la seconda era «espressione dell’appartenenza ad uno Stato con tutti i diritti e i doveri che ne conseguono ed ha quindi un fondamento politico», solo «il cittadino jure sanguinis è nazionale italiano; nelle vicende della sua vita egli potrà assumere la cittadinanza di qualsiasi altro Stato ma rimarrà sempre un nazionale italiano»(94).

Evidente riflesso di questa concezione ideologica era il significato che il termine cittadinanza acquistava nel vocabolario giuridico italiano, nel quale veniva utilizzato nel significato corrispondente al francese nationalité, all’anglo-americano nationality e al tedesco Staatsangehörigkeit (lingue che invece mantenevano anche nel giuridico la doppia coppia di termini citoyenneté / nationalité e citizenship / nationality, Staatsbürgerschaft / Staatsangehörigkeit), mentre il termine nazionalità «non assume generalmente rilevanza autonoma dal punto di vista normativo», salvo occasionali eccezioni (95).

Questa cittadinanza nazionale eretta a partire dal più stretto fra i legami di parentela (il sangue da padre a figlio) era una condizione essenziale per mantenere intatta la comunità anche di fronte all’allontanamento del cittadino dal territorio nazionale per effetto delle migrazioni, pur al costo di dar vita a conflitti fra l’ordinamento italiano e quello del Paesi di emigrazione. Infatti, dati questi presupposti ideologici, il Codice Civile “doveva” vietare la doppia cittadinanza (96 ) e, al contrario,

91

E. GROSSO, La cittadinanza…, cit., p.113.

92

Ivi, pp. 113-114.

93

S. GIANZANA, Lo straniero…, cit., p. 114.

94

G. CLEMENTE, Il codice della cittadinanza italiana, Milano, Gastaldi editore, 1959, p. 47.

95

F. PASTORE, La comunità sbilanciata…, cit. p. 5.

96

Art. 11 comma 2. – Una scelta, questa, che si dimostrava subito critica di fronte alle evidenze poste dai flussi emigratori verso quei Paesi che, ammettendo lo ius soli come criterio di trasmissione della cittadinanza, riconoscevano come propri cittadini per nascita i figli di italiani. Una serie di circolari interveniva allora cercando di smorzare il disposto dell’art. 11, aprendo spazi al mantenimento della cittadinanza italiana anche di coloro che la perdevano involontariamente, ma la questione rimaneva pesantemente aperta per i connazionali emigrati. Cfr. G. TINTORI, Cittadinanza e politiche di emigrazione nell’Italia liberale e fascista. Un approfondimento storico, in G. ZINCONE (a cura di), Familismo legale…, cit., pp. 52-10; L. BUSSOTTI, La cittadinanza degli italiani. Analisi storica e critica sociologica di una questione irrisolta, Milano, Franco Angeli, 2002, in part. pp.19-179. – Per quanto riguarda le mete di emigrazione, ricordiamo, ad esempio, che

ammettere senza riserve geografiche l’automatica cittadinanza italiana al figlio di padre italiano: il principio indiscutibile era che non poteva esservi cittadino espressione di due diverse nazionalità. Ciò che il Codice Civile del 1865 rendeva manifesta era l’avvenuta saldatura di due

«radici che nelle epoche storiche precedenti si erano affermate e sviluppate indipendentemente l’una dall’altra: la cittadinanza come legame verticale tra individuo e autorità, che fonda, in ultima analisi, l’appartenenza dell’individuo allo Stato (…); la cittadinanza come vincolo orizzontale reciproco tra gli individui, che si riconoscono come protagonisti di una comune esperienza storica, politica, culturale, famigliare, e conseguentemente come appartenenti ad una stessa comunità»(97).

Non senza creare situazioni problematiche per coloro che in tali dinamiche erano coinvolti grazie a processi di emigrazione già in quel momento innegabili nella loro dimensione e implicazione, le classi dirigenti italiane contrapponevano allora

«alle politiche della cittadinanza intensamente “inclusive” di alcuni Stati di immigrazione, una concezione “forte” della cittadinanza italiana, come vincolo capace di resistere in situazione di

emigrazione, anche lungo l’arco di più generazioni»

determinando

«specialmente nei rapporti con i grandi bacini migratori americani (Argentina, Brasile, Stati Uniti) una permanente situazione di tensione potenziale, alimentata dalla continua moltiplicazione dei conflitti positivi di cittadinanza, per effetto di una fondamentale divergenza di impostazione tra i sistemi giuridici coinvolti»(98).

Lo ius soli, difficilmente conciliabile con i presupposti ideologici di questa concezione della cittadinanza (99), sopravviveva come ipotesi residuale, vincolata al possesso di requisiti stringenti e non derogabili, nel caso di figlio nato in Italia da cittadino straniero (art. 8), che poteva essere

negli Stati Uniti d’America, il principio dello ius soli veniva costituzionalizzato con un emendamento del 1868, rivolto alla protezione dei diritti di nascita degli schiavi di provenienza africana: il nato su suolo statunitense, anche se figlio di immigrati irregolari, era cittadino statunitense. Gli Stati dell’America Latina avevano un percorso ancora più peculiare: dai colonizzatori avevano infatti ereditato una tradizione giuridica di diritto civile legata allo ius sanguinis, ma in fase di indipendenza optavano per lo ius soli in aperto contrasto con le potenze coloniali che in caso contrario avrebbero potuto rivendicare la sudditanza dei nuovi nati oltreoceano. Lo ius soli veniva perciò codificato nelle carte costituzionali di Messico, Brasile, Venezuela e Argentina, ancor prima della fase di immigrazione di massa della fine del secolo XIX.

97

E. GROSSO, La cittadinanza…, cit., pp. 115.

98

F. PASTORE, La comunità sbilanciata…, cit., p. 7.

99

Lo ius soli si fonda infatti su un rapporto fra cittadino e territorio nel quale predomina l’elemento volontaristico, l’espressione consapevole dell’adesione alla nazione e dell’accettazione «del contratto sociale connesso allo status di cittadino»(V. LIPPOLIS, Aderire ai valori della Nazione è il principio fondante dell’essere cittadini, “Amministrazione civile”, 2008, n. 6, p. 18).

«reputato italiano» soltanto se al momento della nascita il padre era domiciliato nel Regno da almeno dieci anni ininterrotti (100). In mancanza del requisito in capo al genitore, il nato in Italia era giuridicamente straniero sino alla maggiore età, quando poteva eleggere la qualità di cittadino nei modi previsti dall’art. 6 per il figlio di ex cittadino nato all’estero (101).

Le altre ipotesi di acquisto di cittadinanza previste dal Codice Civile erano “per matrimonio” nel solo caso di donna straniera maritata a italiano (la sola ipotesi di acquisizione automatica, essendo tutte le altre pienamente discrezionali), per «naturalità concessa per legge o decreto reale» e “per elezione”, che dava luogo alla distinzione fra grande e piccola cittadinanza basta sull’accesso pieno o mancato ai diritti politici – una differenziazione che avrebbe costituito un motivo di forte frizione nel dibattito successivo all’approvazione del codice stesso (102).

La concessione della cittadinanza avveniva al termine di un percorso che si avviava con la richiesta da parte dello straniero, il suo esame da parte del Ministero dell’Interno, le verifiche da parte delle autorità di pubblica sicurezza (103), il parere del Consiglio di Stato, la formalizzazione della decretazione e, infine, il giuramento formale da parte dello straniero – che solo dopo quest’ultimo atto perdeva la qualifica di straniero per acquisire quella unica di cittadino italiano (essendo comunque obbligato a svincolarsi dalla cittadinanza di origine).

È tuttavia interessante osservare che lo stesso principio di nazionalità, sul quale si fondava questa concezione della cittadinanza, portava Mancini ad ispirare quell’art.3 del Titolo I del Libro I del Codice Civile – «lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini»(sul quale si tornerà in seguito) – che veniva accolto con notevole attenzione e molte discussioni dal resto d’Europa, perché rappresentava un inedito e innovativo salto di qualità nella teorizzazione del godimento dei diritti civili riconosciuti allo straniero (104).

100

Disposizione che, precisava Gianzana richiamando una sentenza della Cassazione di Roma del 23 gennaio 1880, non aveva effetto retroattivo, ovvero «non può reputarsi cittadino italiano il figlio di uno straniero dimorante in Italia, che sia nato in Roma prima dell’attuazione del Codice Civile, e che fin dalla nascita abbia acquistato il diritto alla qualità di cittadino estero»(S. GIANZANA, Lo straniero…, cit., p. 116). Il naturalizzato per nascita, entro un anno dal compimento della maggiore età, poteva però riacquistare la cittadinanza straniera «facendone la dichiarazione davanti all’uffiziale dello stato civile della sua residenza, o, se si trova in paese estero, davanti i regi agenti diplomatici o consolari»(art. 5), al pari del figlio di ex-italiano nato in Italia

101

«Il figlio nato in paese estero da padre che ha perduto la cittadinanza prima del suo nascimento, è riputato straniero. Egli può tuttavia eleggere la qualità di cittadino, purché ne faccia la dichiarazione a norma dell’articolo precedente e fissi nel regno il suo domicilio entro un anno dalla fatta dichiarazione. Però, se egli ha accettato un impiego pubblico nel regno, oppure ha servito o serve nell’ armata nazionale di terra o di mare, od ha altrimenti soddisfatto alla leva militare senza invocarne esenzione per la qualità di straniero, sarà senz’altro riputato cittadino»(art. 6).

102

L. BUSSOTTI, La cittadinanza degli…, cit., p.36. – Sulle diverse fattispecie di naturalizzazione, cfr. C. BISOCCHI, Acquisto e perdita della nazionalità nella legislazione comparata e nel diritto internazionale, Milano, Hoepli, 1907.

103

In ACS, MI, DAGR, PS, categoria annuale A2 è conservata la documentazione di polizia sulle istanze di cittadinanza. Si tratta di fascicoli intestati al richiedente la cittadinanza, sul quale la polizia fornisce il proprio parere positivo o negativo sull’istanza stessa, sulla base delle informazioni raccolte nei territori di residenza dei richiedenti. La raccolta informazioni in loco veniva svolta dagli organi di polizia o, in assenza, dai carabinieri.

104

È pur vero che si trattò di una scelta – molto dibattuta anche in Italia e resa possibile previa garanzia di esclusione, dalle sue conseguenze, dei diritti politici – forse dettata più da un intelligente compromesso con le esigenze di natura economica che da una volontà d’innovazione teorica. Eliminare la clausola di reciprocità (questo era il portato fondamentale dell’art. 3) rispondeva all’obiettivo più ampio di attirare verso l’Italia quel capitale straniero indispensabile a sostenere l’industrializzazione e il decollo industriale del Paese (105) – come evidenziava il fatto che a fine Ottocento

«dinanzi al fallimento di un accordo internazionale sul trattamento dello straniero, all’aggravarsi della crisi economica, all’esplodere dei nazionalismi e del primo conflitto mondiale – dottrina e giurisprudenza, interpretando restrittivamente tale disposizione, determinarono nella prassi un riavvicinamento tra le opzioni del codice italiano e di quello francese [che prevedeva esplicitamente il criterio di reciprocità, N.d.A.], fino all’affermazione del principio di reciprocità nel Codice Civile del 1942 (art. 16 disp. Prel.) presentato come uno

strumento per una migliore garanzia degli interessi degli italiani all’estero»(106).

Tuttavia, l’affermazione del principio di totale eguaglianza fra nazionale e straniero dal punto di vista dei diritti civili rappresentò un caso unico fra le codificazioni civili dei principali Stati coevi.

***

La nuova concezione nazionale della cittadinanza italiana affermata nel 1865 portava con sé un risvolto estremamente interessante: poiché «si può essere cittadino italiano di nazionalità straniera, allo stesso modo che si può essere cittadino straniero di nazionalità italiana», allora la categoria degli italiani non regnicoli non poteva rimanere del tutto ignorata (107) nemmeno quando il processo di unificazione, ormai quasi del tutto compiuto, smorzava gli entusiasmi che i moti risorgimentali avevano riservato a questa particolare condizione di italiano-non-italiano.

dell’Istituto di Diritto Internazionale tenutasi a Ginevra nel 1874: «agli stranieri ciascuno Stato deve consentire il godimento dei diritti civili; non è possibile, attraverso il ricorso principio di sovranità, impedire qualunque applicazione sul proprio territorio di una normativa straniera; né l’eventuale applicazione riposa sulla cortesia internazionale o sul principio di mutuo interesse e utilità»(L. NUZZO, Da Mazzini a Mancini…, cit., p. 175). Per il dibattito sollevato dal Codice Civile del 1865 e dall’art. 3, cfr. G. BASCHERINI, Immigrazione e…, cit., n. 49, pp. 65-67.

105

Così in C. STORTI STORCHI, Il ritorno alla reciprocità di trattamento, in AA.VV., I cinquant’anni del Codice Civile. Atti del convegno di Milano 4-6 giugno 1992, II, Milano, Giuffrè, 1993, p. 67 e C. CORSI, Lo stato e lo straniero, Padova, CEDAM, 2001.

106

G. BASCHERINI, Immigrazione e…, cit., p. 67.

107

Si tratta di un profilo, aggiornato a “italiani non appartenenti alla Repubblica”, tuttora presente nell’ordinamento italiano, a cominciare dall’art. 51 della Costituzione che ne consente l’equiparazione ai cittadini italiani «per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive». Per una introduzione alla questione, cfr. G. LIBRALATO, Evoluzione del concetto di italiano non appartenente alla Repubblica, Diritto & Diritti [on line], 10 luglio 2008, pp. 1- 20, on line all’URL: http://www.diritto.it/docs/26290-evoluzione-del-concetto-di-italiano-non-appartenente-alla-repubblica; G. PANZERI, Lo status di “italiano non appartenente alla Repubblica” nel diritto interno ed alla luce del processo di integrazione europea, Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 2006, n. 4, pp. 1543-1565.

Una delle prime disposizioni relative agli italiani non regnicoli risaliva alla legge elettorale dello Stato piemontese del 17 marzo 1848, che distingueva l’accesso all’elettorato degli stranieri naturalizzati da quello degli italiani non regnicoli ai quali venivano riconosciuti diritti politici anche solo con la “piccola naturalità” – in deroga a quanto prevedevano le norme sulla cittadinanza, per le quali sono la “grande naturalità” implicava l’esercizio dei diritti politici.

Le successive leggi elettorali, come anche tutta una serie di altre normative di diversa natura e ambito (ad esempio le leggi di pubblica sicurezza), mantenevano e ribadivano questa differenza di privilegi fra italiani non regnicoli naturalizzati e stranieri veri e propri (per altro sempre esclusi dal voto)(108). Al contrario, invece, tutti gli sforzi profusi dal 1849 al 1891 (termine dopo il quale la questione non veniva più riproposta) per cercare di attribuire collettivamente la cittadinanza italiana agli italiani non regnicoli o per normare lo status di questa categoria di nazionali si rivelavano completamente infruttuosi (109), sfavoriti anche dal fatto che il Codice Civile del 1865 non conteneva alcun riferimento a questa categoria di “stranieri nazionali a causa del «rifiuto espresso in tal senso dal presidente della Commissione di coordinamento per la preparazione del suddetto testo, Cadorna»(110).

La criticità maggiore derivava dall’esatto contenuto concreto da attribuire all’espressione italiani non regnicoli, del tutto priva di riferimenti certi e per questo motivo lasciata alla piena discrezionalità dell’interprete:

«vi è una enorme differenziazione circa i criteri con cui individuare i tratti essenziali di questa categoria di italiani. Se per il Fiore è impossibile procedere verso una simile strada in quanto la stessa nazionalità non appare definibile in senso assoluto, secondo il Ricci-Busatti occorre “tener conto sempre e della razza (…) e della pertinenza, o attuale o di origine, al paese geograficamente italiano”, mentre a detta del Bufardeci, nonostante la variabilità storica dei fattori determinanti tale concetto, almeno un elemento appare costante: “la volontà o libero consenso di voler formare un solo popolo”. Attorno ad esso gli altri fattori – geografici, etnici, linguistici, ecc. – sono relativi e determinabili a seconda del momento in cui ci si trova»(111).

Una diversità di posizioni evidente anche nella giurisprudenza, con le corti che nelle loro pronunce