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La forma di allontanamento coatto più severa, presente in tutte le legislazioni sulla mobilità introdotte nei diversi Stati occidentali dalla metà del XIX sec., era l’espulsione, atto che rendeva manifesto il punto di rottura della dialettica fra Stato e migrante, il momento in cui il diritto dell’individuo a soggiornare, scontrandosi con il diritto dello Stato a tutelare la propria sicurezza doveva subire una limitazione a favore di quest’ultimo e del diritto dei nazionali di vivere pacificamente sul loro territorio.

Più che la disciplina dell’ingresso e soggiorno – che si è formata generalmente dopo quella sull’allontanamento coatto – l’espulsione costituiva il cuore dello ius migrandi ottocentesco, primario oggetto di riflessione e confronto fra i giuristi, in ambito nazionale come internazionale, proprio per la sua evidente natura di cartina al tornasole del confine fra diritto individuale e sovranità dello Stato. Da una parte vi era il diritto umano, già riconosciuto come fondamentale, «di scegliere la propria

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Fasc. Zierfuss, lettera della Prefettura di Genova n. 29925 del 12 luglio 1909 e lettera urgente del Ministero dell’Interno del 18 luglio 1909 n. 12195-133103.

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Fasc. Zierfuss, telegramma espresso di stato n. 29925 del 14 settembre 1909.

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ACS, MI, PS, PG 1907-1909, b. 94, fasc. 12171/72, «Altamann Giorgio di Giuseppe suddito germanico facchino» – d’ora in poi Fasc. Altamann –, verbale di interrogatorio presso la Questura di Genova del 25 agosto 1908.

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Fasc. Altamann, dispaccio telegrafico n. 16448 del Ministero dell’Interno del 29 agosto 1908.

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residenza ove meglio (…) aggrada»(446), che rendeva contrari al diritto internazionale tutti quei provvedimenti «preventivi di qualsiasi natura che senza un motivo ragionevole di ordine pubblico impediscano agli stranieri di entrare liberamente, circolare e risiedere nello Stato»(447). Su questo crinale si misurava la differenza fra i tempi presenti ed un passato, non ancora troppo lontano ma che si proclamava concluso per sempre, caratterizzato dai «futili pretesti» utilizzati per «menomare il più prezioso dei diritti dell’uomo, quello di trasportare la propria persona da un luogo all’altro» e attuati ricorrendo a «cordoni militari», «visite vessatorie», «passaporti», «arbitrari rifiuti dell’ammissione di individui stranieri nel territorio dello Stato»(448). La mobilità, intesa come diritto ad uscire dal proprio Paese e come diritto ad entrare in un altro non poteva trovare vincoli nello Stato anche se, con particolare riguardo all’emigrazione, poteva ammettersi che la

«questione è molto complessa avendo attinenza a molte materie specialmente di ordine economico ed amministrativo, ed ammettendo nell’uomo il diritto di emigrazione crediamo nello stesso tempo che lo Stato abbia il dovere di invigilarla e tutelarla allo scopo di prevenire gli abusi e gli inganni degli speculatori»(449).

D’altra parte, però, era altresì riconosciuto, perché originato dalla sua stessa sovranità, il diritto e il dovere dello Stato di tutelare la sicurezza e il benessere dei propri cittadini, e di punire ogni vulnus a tale diritto e all’ordine sociale e giuridico che ne scaturiva – inclusa la legittima facoltà di colpire anche i non-cittadini che si ponevano come una minaccia interna alla comunità nella quale erano presenti e soggiornavano. Per i delitti al benessere e alla sicurezza c’erano i tribunali, l’autorità giudicante, il sistema delle pene e le forme di loro esecuzione; per gli stranieri cattivi ospiti non poteva che esservi l’espulsione e le forme coattive di sua esecuzione. Nel primo caso, lo Stato interveniva a sospendere il diritto alla libertà personale, nel secondo agiva sul diritto alla mobilità o al soggiorno. Il vero problema diventava allora non la legittimità o meno dell’esistenza del diritto dello Stato ad espellere (in via amministrativa o di pubblica sicurezza) dal proprio territorio, ma l’eventuale limite alla portata di tale diritto. Il diritto ottocentesco giungeva alla radicale negazione di questo diritto nei confronti dei propri cittadini (il divieto di essere espulsi rientrava fra i diritti politici propri dello status di cittadinanza), mentre in relazione agli individui privi di questo status, gli stranieri e gli apolidi, la riflessione non verteva sull’esistenza del diritto (perché assodato) ma sulla sua portata, se cioè si trattasse di un diritto di espulsione illimitato oppure condizionato. Un tema sul quale la dottrina si

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S. GEMMA, La condizione giuridica dello straniero nel passato e nel presente, Bologna, Tip. Fava e Garagnani, 1892, p. 80.

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Ibid. che fa riferimento a P. FIORE, Diritto internazionale pubblico, Torino, 1879, vol. I., sez. IV.

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Ivi, pp. 80-81.

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affacciava al XIX sec. già divisa e non giungeva ad una conclusione unanimemente condivisa.

Da un lato, vi erano coloro che, ammettendo il diritto di uno Stato a negare l’accesso a qualunque straniero, si richiamavano alle posizioni di Georg Friederich Martens che, a fine settecento, si era schierato decisamente contro l’esistenza di limiti al diritto di espulsione, perché

«le gouvernement de chaque Etat a toujours le droit de contraindre les étrangers qui se trouvent sur son territoire à en sortir, en les faisant conduire jusqu’aux frontières: ce droit est fondé sur ce que l’étranger ne faisant pas partie de la nation, sa réception individuelle sur le territoire est de pure faculté de simple tolérance et nullement d’obligation»(450).

I giuristi italiani Francesco Bianchi, Pasquale Fiore e Sebastiano Gianzana, pur ammettendo che si poteva riconoscere allo Stato l’illimitato diritto di espulsione, ne tempravano la portata avendo riguardo alla forma politica del governo, sostenendo che «un governo forte a un tempo e liberale non farà che un uso moderatissimo ed eccezionale del diritto d’espulsione ma il medesimo non potrebbe negarglisi senza sconvolgere tutti i principi di governo»(451).

Al contrario, invece, la gran parte dei giuristi di riferimento del secondo Ottocento, invece, riteneva che tale diritto dovesse essere relativo, applicabile solo in casi speciali, per il fatto che

«tra lo straniero e lo Stato ospite si stabilisce un contratto tacito pel quale lo Stato accorda l’accesso sotto condizione che lo straniero rispetti le leggi d’ordine pubblico e questi accetta tale condizione coll’entrare nel territorio: solo qualora lo straniero manchi alle condizioni impostegli è legittima l’espulsione»(452).

Così, mentre secondo August von Bulmerincq l’espulsione illimitata era decisamente contraria al diritto, Johann Caspar Bluntschili condizionava tale facoltà ai soli gravi motivi di ordine pubblico e alla temporaneità del soggiorno dello straniero: la lunga residenza dava diritto alla protezione delle leggi allo stesso modo dei cittadini mentre in caso di espulsione senza cause o vessatoria lo Stato di cittadinanza dello straniero aveva pieno diritto di reclamo e richiesta di risarcimento.

Carl Ludwig von Bar, invece, ammetteva l’espulsione nei soli casi determinati dal comportamento dello straniero, dalla mancanza dei mezzi di sussistenza, dall’eccezionalità di una necessità politica all’inizio o durante una guerra o per conseguente ingrandimento territoriale. Per Franz von Holtzendorff l’espulsione era ammissibile solo come ritorsione o rappresaglia mentre Silvestre Pinheiro Ferreira negava in assoluto il diritto di espulsione perché contrario ai diritti fondamentali

450

G.F. MARTENS, Précis du droit des gens modernes de l’Europe, nuova edizione curata da G.S. Pinheiro-Ferreira, Paris, Guillaumin et C., 1858, § 91, p. 266-267. La prima edizione dei Précis era del 1797.

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S. GEMMA, La condizione giuridica…, cit., p. 81.

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R. MONZANI, Il diritto di espellere gli stranieri considerato nella dottrina, nella legislazione e nella giurisprudenza, Modena, P. Toschi, 1899, p. 26.

dell’uomo, affermando la totale eguaglianza fra cittadini e stranieri nel godimento dei diritti civili «che non sono altra cosa che i tre diritti naturali della sicurezza, della libertà e della proprietà garantiti dalla legge del paese, poiché dove c’è l’identità di ragione ci deve essere identità di disposizione»(453). L’VIII^ Commissione dell’Institut du droit international concludeva che nessuno Stato avesse la potestà di negare in modo assoluto l’accesso al proprio territorio da parte degli stranieri, né tantomeno quella di espellere in massa gli stranieri presenti; che l’espulsione in massa in tempo di pace poteva essere giustificata solo a titolo di rappresaglia e in tempo di guerra solo come conseguenza di effettive esigenze di difesa militare; che l’espulsione doveva essere regolata da accordi internazionali relativi alle condizioni e alle modalità; che in ogni caso lo Stato di appartenenza dell’espulso aveva il diritto di conoscere le motivazioni dell’espulsione; infine, che in tutti i casi, le condizioni di ammissione e incolato degli stranieri non potevano né dovevano precluderne il diritto ad ottenere la protezione generale sulla persona e sui beni che lo Stato di accoglienza riconosceva ai propri cittadini (454). Facoltà illimitata o condizionata, sull’espulsione non vi erano però contrasti sulla sua definizione, gravità ed eccezionalità, essendo intesa come

«limitazione alle facoltà dell’individuo, giustificata dalla necessità in cui si trova lo Stato di difendere la esistenza, il benessere e la sicurezza sua; ora se è lo stato di necessità, per così dire, che giustifica tale restrizione, solo quando un tale estremo concorra lo Stato potrà usare del suo diritto; e siccome lo stato di necessità è la eccezione, non la regola, giacché la presenza di stranieri nel territorio di uno Stato non ne turba, di regola, i suoi interessi, così il diritto di espulsione che ne consegue è diritto eccezionale, applicabile solo se esistono le ragioni per cui è

riconosciuto, e finché esse sussistono»(455).

Così posti i termini del discorso, era chiaro che la legittimità dell’espulsione si manifestava ogni qualvolta la presenza dello straniero costituisse un pericolo per lo Stato e per la comunità da esso protetta e ordinata. Il diritto di espulsione era perciò proprio di qualsiasi Stato sovrano e poteva manifestarsi anche in assenza di leggi interne che lo esplicitavano e lo regolavano: l’esistenza di previsioni normative, anzi, era il prodotto dell’esigenza di tutelare i diritti, gli interessi e le facoltà degli individui ad evitare di essere vittima di abusi, ma la conditio sine qua non dell’esistenza del diritto all’espulsione e le sue manifestazioni.

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S. GEMMA, La condizione giuridica…, cit., p. 83. Sul dibattito fra giuristi cfr. anche R. MONZANI, Il diritto di espellere…, cit. pp. 27-29.

454

Sull’Institut du Droit International, la sua rilevanza di laboratorio di discussione del diritto internazionale – e in particolare del diritto alla migrazione – e l’efficacia oggettiva delle sue proproste, cfr. RYGIEL P., Une impossible tâche? L’Institut de Droit International et la régulation des Migrations internationales 1870-1920, Mémoire présenté en vue de l’obtention de l’habilitation à diriger des recherches, Université Paris I, 2011, disponibile on line all’URL: https://tel.archives-ouvertes.fr/tel-00657654 [verificato il 23/12/2014].

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Appare allora più chiaro come mai nell’ordinamento italiano d’età liberale (al pari di quello di altri Stati coevi) potesse mancare a lungo una norma completa sull’ingresso e soggiorno dello straniero e, al contrario, fosse sempre presente la normativa dedicata all’espulsione. Posto il diritto dell’uomo alla libertà di movimento, posto il diritto sovrano dello Stato a limitarla in determinate condizioni, l’ingresso e il soggiorno derivavano automaticamente, come esercizio di un diritto e allo stesso tempo come assenza di quelle pregiudiziali che potevano portarlo allo scontro con le prerogative sovrane dello Stato.

La libertà era garantita finché non entrava in conflitto con la sovranità: dettagliare norme sull’ingresso e sul soggiorno rimaneva un’esigenza di governo che avrebbe potuto esplicitarsi in qualunque momento lo avessero richiesto i bisogni di tutela della comunità statale. Al contrario, il diritto di espulsione andava normato, chiarito e reso comprensibile poiché era necessario far conoscere il limite oltre il quale (ed entro il quale) lo Stato era pienamente legittimato ad agire contro il diritto alla libertà di movimento. Era quanto accadeva con la legge penale, che doveva esplicitare regole e conseguenze affinché a tutta la comunità nazionale, dei cittadini e non, fossero chiari i contenuti della potestà punitrice dello Stato – significativamente, proprio da queste analogie con il penale derivava una delle tensioni che accompagnava tutta la riflessione sulla natura dell’espulsione, se cioè andasse inteso come provvedimento penale o come provvedimento natura amministrativa. Un’intrinseca ambiguità evidente nell’ordinamento italiano, nel quale l’espulsione possedeva le connotazioni sia della pena che della misura di polizia, pur non essendo pienamente né l’una né l’altra – come testimoniava la sua oscillante collocazione, normativa come ideologica, fra Codice Penale e leggi di polizia e nei raccordi fra questi due ambiti.

Nell’ordinamento italiano, sin dalla legge di P.S. del 1859, con espulsione si intendeva un provvedimento formale con il quale lo Stato, a causa di una condotta ritenuta pericolosa per la sua sicurezza interna o esterna o per circostanze di ordine pubblico, costringeva uno o più stranieri ad allontanarsi coattivamente dal proprio territorio, entro un termine breve e definito, comportando il divieto di farvi ritorno per un periodo di tempo che poteva anche essere indeterminato. Si trattava di un atto sovrano, unilaterale, interno, adottato nell’esclusivo interesse dello Stato che espelleva – caratteristica questa che lo differenziava nettamente dal rimpatrio dell’indigente, giustificato in nome del benessere dell’individuo che veniva così allontanato da una situazione di estrema privazione, pericolosa alla sicurezza sua e della comunità) e dal rimpatrio per motivi di ordine pubblico, sospensione improvvisa del soggiorno e conseguente allontanamento dal territorio determinata dalla condizione di sospetto della persona, comunque meno socialmente pericoloso dello straniero per il quale determinava l’espulsione.

Nel 1859, l’espulsione era materia contemporaneamente della legge di P.S. e del Codice Penale che, agli articoli 439 e 446, la comprendeva come pena accessoria degli stranieri condannati per ozio,

vagabondaggio, mendicità, prevedendo la reclusione fino ad un anno in caso di rientro nel territorio italiano, come violazione del divieto di reingresso non autorizzato che l’espulsione comportava. La legge di polizia, all’art. 88, partiva dalle conseguenze della condanna per ozio e vagabondaggio per disegnare un campo di applicazione dell’espulsione più ampio e di natura amministrativa.

«Scontata la pena [per ozio o vagabondaggio, N.d.A.], se si tratta di non regnicolo, l’Autorità politica lo farà tradurre ai confini per essere espulso dallo Stato.

Qualora non sia possibile conoscerne la nazionalità, e il luogo dove possa essere avviato e ricevuto, la stessa Autorità politica lo farà trattenere in carcere sino a che si possa procedere alla sua espulsione.

Lo stesso si praticherà per i non regnicoli stati condannati per reati contro la proprietà»(456).

Come si può subito notare, la legge di P.S. si incardinava (pur con quale difficoltà) sulla norma penale dando facoltà alla polizia di attuarne le previsioni, ma ampliava tale facoltà anche ai condannati per reati contro la proprietà, non senza dar luogo ad un problema di interpretazione e di relazione fra giudiziario e poliziale.

Infatti, mentre l’espulsione di oziosi e vagabondi si configurava come pena accessoria, disposta dal tribunale e eseguita dalla pubblica sicurezza, l’espulsione contro i condannati per reati contro la proprietà era una misura esclusivamente di polizia, che assumeva i modi della pena accessoria svincolata però da ogni giudizio del Tribunale.

Per entrambe le ipotesi, l’adozione del provvedimento di espulsione sembrava acquisire caratteri di automatismo, giustificati dall’esistenza della condanna penale; ma mentre nel caso di oziosi e vagabondi tale automatismo veniva sancito dalla sentenza stessa, nel caso dei condannati per reati contro la proprietà l’automatismo derivava da una facoltà riconosciuta alla polizia.

In entrambi i casi, tuttavia, le conseguenze della violazione al decreto di espulsione, in particolare al divieto di rientro, afferivano alla norma penale, che qualificava tale violazione come delitto e non contravvenzione, quantificandone le conseguenze nel limite massimo di un anno di detenzione.

La formalizzazione degli atti e l’esecuzione delle espulsioni, in tutte le ipotesi previste dalla legge penale e di pubblica sicurezza, era unicamente in capo alle autorità di polizia. Gli atti erano formalmente decretati dal Prefetto e l’esecuzione materiale dell’allontanamento era gestita dalla polizia – ad eccezione dell’eventuale traduzione al confine che veniva quasi sempre assegnata ai Carabinieri in nome di una maggior convenienza di spesa (la trasferta degli agenti di P.S. costava di più rispetto a quella dei militi dell’Arma).

La presa in carico dell’espellendo da parte delle autorità di P.S. comportava in primo luogo l’acquisizione di certezze sull’identità della persona, anagrafica ma soprattutto di cittadinanza, che

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rinviava innanzitutto alla verifica di documenti, certificati o attestazioni degne di fede (leggasi prodotte da un’autorità pubblica) in grado di sciogliere ogni dubbio – ipotesi che presupponevano il possesso e la conservazione di tali documenti da parte dello straniero, situazione nient’affatto generalizzata ad inizio Novecento.

Una curiosità: l’accertamento di identità non aveva luogo durante la detenzione ma si avviava al suo termine, quando lo straniero tornava sotto la competenza delle autorità di P.S., giacché la condanna si poteva pronunciare anche in base all’identità dichiarata all’arresto o in tribunale, non essendo rilevante rispetto alla qualificazione del reato o alla quantificazione della pena, a meno che non si trattasse di recidivo (457).

In attesa di determinazione della cittadinanza e in caso di impossibilità di sua esatta determinazione, la legge di P.S. autorizzava il trattenimento in carcere dello straniero «sino a che si possa procedere alla sua espulsione». Si istituiva così una forma di detenzione amministrativa per esigenze di polizia di durata, non precisata a priori perché dipendente dai tempi necessari alla concretizzazione dell’espulsione, priva di un preciso mandato formale assoggettabile a tutela giurisdizionale.

Come già il fermo per misure di P.S., anche questa carcerazione non afferiva alla sfera del diritto penale ma si configurava come una detenzione il cui fine non era giudiziario ma di concretizzazione di un provvedimento amministrativo di polizia. Era una detenzione di natura temporanea ma imprecisata nel termine finale, soggetta unicamente alle responsabilità della polizia, caratterizzata dall’assenza di quelle pur scarse garanzie riconosciute alle carcerazioni previste dal sistema della giustizia penale che la rendeva in sostanza molto simile a quelle forme che Giuseppe Campesi ha definito di criminalizzazione procedurale o amministrativa, instaurate nel contesto italiano a partire dagli anni ‘90 del Novecento con il sistema dei CPTA / CPT / CIE (458).

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La questione dell’identificazione dello straniero detenuto ai fini della sua successiva espulsione è una questione periodicamente ri-poposta e che solo nel 2014 sembrerebbe aver trovano una normazione certa. Il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146 (convertito con L. 21 febbraio 2014 n. 10) è infatti intervenuto sul Testo Unico sull’Immigrazione disponendo l’avvio delle procedure di identificazione dello straniero all’atto del suo ingresso in carcere, cercando così di superare quelle difficoltà che rendevano impossibile la pronta esecuzione dell’espulsione giudiziaria o come misura alternativa alla detenzione per mancanza di certezze sull’identità della persona. Cfr. il commento in G. SAVIO, Codice dell’immigrazione, Milano, Maggioli, 2014, pp. 184-185.

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Istituiti nel 1998 dalla L. 6 marzo 1998 n. 40 e dal D.Lgs. 25 luglio 1998 n. 286, i Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (CPTA), ribattezzati poi Centri di Permanenza Temporanei (CPT) e quindi Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), ritenuti dagli organi politici e di polizia uno strumento imprescindibile nel contrasto all’immigrazione irregolare, sono da sempre al centro di un acceso dibattito che ne ha messo in discussione sia la stessa legittimità sia la compatibilità con i princìpi di tutela dei diritti umani propri di uno stato di diritto. Scopo principiale dei CIE è trattenere il migrante in attesa dell’espletamento di tutte le procedure – di competenza della polizia – necessarie alla sua identificazione e all’allontanamento coatto. Il trattenimento è disposto con provvedimento motivato e convalidato dal giudice di pace (un magistrato onorario, comunemente detto “non togato”, nominato dal Ministro della giustizia e chiamato a decidere cause minori in ambito civile e penale) che interviene anche a convalidare le eventuali proroghe. La durata del trattenimento nel centro è variata molto nel corso degli anni, dagli inziali 30 giorni previsti nel 1998 ai 18 mesi del 2011 ai 90 giorni del novembre 2014 – ma è comunque esplicitamente prevista. La pena della reclusione (da uno a quattro anni nelle ipotesi base, da uno a cinque anni nei casi di reingresso illecito reiterato) è invece prevista per il delitto di illecito reingresso nel territorio dello Stato. - Sui CPTA / CPT / CIE cfr. M. ROVELLI, Lager italiani, Roma, Rizzoli, 2006; C. MAZZA, La prigione degli

Queste procedure stabilivano uno stretto legame funzionale fra attività di polizia degli stranieri e strumento carcerario che sarebbe stato destinato a non abbandonare, almeno sino ad oggi, né le norme