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Controllare lo straniero mobile: le moderne esigenze di disciplinare l’ingresso e il soggiorno

Spinte da questi bisogni di sicurezza, le moderne discipline formali dell’ingresso e dell’allontanamento degli stranieri facevano la loro comparsa verso la metà dell’Ottocento, attorno agli avvenimenti provocati da quel passaggio chiave rappresentato dal biennio 1848-1849, che aveva reso manifeste le potenzialità connesse alle nuove forme della mobilità delle classi operaie e di quelle “pericolose” in genere, sia le connotazioni nuove assunte da fenomeni tradizionali, quali la migrazione forzata di persone dal proprio paese per cause politiche, culturali, etniche, religiose.

Uno dei primi chiari esempi giungeva dalla Francia, dove il 3 dicembre 1849 il Parlamento approvava una prima organica disciplina dello straniero che interveniva contemporaneamente sul suo ingresso, soggiorno, espulsione e naturalizzazione ( 272 ). Il provvedimento, caratterizzato dall’ampia discrezionalità conferita alle autorità preposte alla sua esecuzione, prevedeva una serie di condizioni all’ingresso delle persone, attraverso l’imposizione di documenti di identificazione e la prova tangibile della coerenza delle motivazioni alla sua base. La legge definiva inoltre con precisione i meccanismi di allontanamento dal territorio mediante l’espulsione, l’allontanamento coatto che poteva «essere disposta in via amministrativa o giudiziaria per un’ampia gamma di motivi di ordine pubblico e di reati e, se disposta in via amministrativa, non necessitava di motivazione e non prevedeva alcuna ipotesi di ricorso»(273).

Lo straniero irregolare dal punto di vista dell’ingresso e del soggiorno, senza titolo a rimanere nello stato a causa della sua posizione in relazione ai documenti e al suo comportamento amministrativo, da allontanare forzatamente a causa di ciò, faceva il suo ingresso sulla scena normativa, e in quello stesso momento si gettavano le basi di quel collegamento carcere-espulsione divenuto tipico di tutte le politiche poliziesche sullo straniero.

«[La] loi du 3 décembre 1849 (…) prévoit simplement que le ministre de l’Intérieur peut prononcer l’expulsion de tout étranger séjournant ou voyageant sur le territoire, et le faire conduire à la frontière. L’article qui suit précise que l’étranger qui se sera soustrait à la mesure d’expulsion «ou qui, après être sorti de France, y aura pénétré de nouveau sans autorisation»,

sera condamné à un emprisonnement de un à six mois»(274).

Più che su una logica anti migratoria tout court, il provvedimento si incardinava sulla logica della

272

P. WEIL, La France et ses étrangers, Paris, Gallimard, 2004.

273

G. BASCHERINI, Immigrazione e…, cit., p. 58. Questa disciplina in Francia, rimase in vigore sino al decreto del 2 maggio 1938.

274

N. FISCHER, Les expulsés inexpulsables. Recompositions du contrôle des étrangers dans la France des années 1930, “Cultures & Conflits” [En ligne]”, 2004, n. 53, par. 9, on line all’URL: http://conflits.revues.org/991 [verificato il 23/12/2014].

selezione e della funzionalità dello straniero rispetto al contesto di destinazione. L’individuo poteva migrare, entrare, soggiornare e vivere in Francia se era e rimaneva funzionale agli interessi economico-sociali e alla sicurezza della comunità francese; se tale funzionalità non c’era o veniva meno, egli doveva essere escluso e allontanato mediante impedimento all’ingresso (respingimento) o negazione e interruzione forzata del soggiorno (l’espulsione, rafforzata dall’imposizione di condizioni ostative ad un successivo rientro).

La legge francese, come molte di quelle degli altri Paesi tra Otto e Novecento, non parlava di immigrati ma si riferiva allo straniero che si spostava dal proprio Paese per vivere e lavorare in Francia – con uno spostamento che doveva essere supportato da un insieme verificabile di giustificazioni.

L’immigrato faceva la sua comparsa solo a fine XIX sec. nel discorso politico e normativo proprio dei Paesi contraddistinti da flussi numerosi e significativi, che si traducevano in questioni sociali, di ordine economico e di interesse diffuso, come negli Stati Uniti e gli altri Paesi dell’America centrale e meridionale, caratterizzati da imponenti dinamiche di ingresso e soggiorno di popolazioni estere. Laddove ciò non avveniva, pur in presenza di consistenti movimenti di immigrati, il discorso politico e giuridico rimaneva ancorato sul termine straniero e su leggi e politiche degli stranieri. Emblematico, in questo senso, il linguaggio italiano che usava a lungo il concetto di immigrazione per indicare gli spostamenti interni della popolazione (in genere, i fenomeni di inurbamento dalle campagne alle città o lo spostamento da Sud a Nord), emigrazione per definire i flussi massicci di uscita di connazionali verso Stati esteri e riservava ai migranti (per qualsiasi motivo, dai turisti ai profughi) di cittadinanza non italiana la sola condizione lessicale di stranieri. Inevitabile la conseguenza: mancando formalmente il termine, veniva meno anche il discorso sul soggetto e di conseguenza anche la riflessione politica, sociale e giuridica su di esso. Per questo motivo, si è a lungo sostenuto che l’Italia fosse paese del tutto privo di politiche dell’immigrazione sino agli ultimi decenni del secolo scorso. In realtà, in Italia, più che le politiche, sembrava mancare l’immigrazione come termine del discorrere: esistevano gli stranieri, più o meno connotati e aggettivabili, ma non gli immigrati – ma agli stranieri erano indirizzati specifici dispositivi di gestione e controllo che, seppure con molti limiti, definivano e connotavano una vera e propria politica dell’immigrazione.

Ancora la Francia di metà ‘800 sperimentava e introduceva modi diversi per affrontare la questione degli stranieri profughi e rifugiati, divenuta di particolare attenzione, politica e sociale, in seguito alle ondate di polacchi prima, poi di greci, italiani, spagnoli, portoghesi e tedeschi che giungevano nel Paese dopo il 1830-1831.

Di fronte ad un fenomeno che appariva socialmente, forse più che numericamente, consistente, il legislatore francese nel 1832 cercava di disciplinare per la prima volta lo status di rifugiato, riferendolo alla persona «priva di protezione dal suo governo, di passaporto e di qualsiasi contatto con

una Rappresentanza diplomatica in Francia»(275), in favore della quale doveva essere predisposta una serie di mezzi di controllo e di accoglienza.

Di tali interventi – che comprendevano forme differenziate di accoglienza e benefici anche di natura economica – usufruiva un numero variabile da 15.000 a 20.000 persone nell’arco di 15-20 anni, ma l’attuazione della legge si rivelava un difficile gioco di equilibri interni, di tensioni fra accoglienza precaria e facile esclusione (non mancavano infatti periodiche ondate di espulsioni e di allontanamenti), oltre che di preoccupazioni internazionali dettate dalla preoccupazione costante alle relazioni effettive fra Stati, per le quali i rifugiati non dovevano diventare un motivo di criticità per la politica estera francese.

Tuttavia, dopo il 1849, la politica francese anche sui rifugiati si orientava verso una maggiore chiusura, limitando gli ingressi, disponendo rigorosi controlli sull’identità e verifica dell’effettiva condizione di “necessità di fuga” come sbarramenti iniziali all’accesso alle misure di sostegno – costringendo così i rifugiati a cercare altre mete d’asilo, come Belgio, Inghilterra e Svizzera e dunque imponendo a questi Paesi il bisogno attrezzarsi adeguatamente per affrontare questi fenomeni (276). L’esempio francese non rimaneva a lungo isolato, poiché progressivamente molti Stati introducevano norme e strumenti se non di vera e propria politica dell’immigrazione, di certo di controllo degli stranieri, tanto che già a fine XIX sec. il diritto dell’immigrazione «appare come uno strumento di costruzione della figura dello straniero e si pone al servizio dei programmi attraverso i quali lo Stato svolge i suoi poteri di direzione e di governo delle dinamiche sociali»(277). Per questa via, si creava una situazione giuridicamente paradossale, giacché lo straniero migrante

«si trovava schiacciato tra un diritto individuale all’uscita “condizionato” dalle legittime scelte legislative del paese di partenza e un diritto “incontestabile” dello stato di destinazione, considerato ormai “maxim of International Law” a regolamentare in modo restrittivo l’ingresso»(278).

Lo ius migrandi tardo ottocentesco, centrato sul rapporto individuale fra straniero e stato, fra migrante e comunità di destinazione, staccava il singolo dall’appartenenza ad un gruppo, permettendo una

275

G. BASCHERINI, Immigrazione e…, cit., p. 60. La legge introduceva una politica di accoglienza e distribuzione territoriale dei rifugiati «sulla base delle esigenze di sicurezza interna ed internazionale – precludendosi ad es. l’insediamento di questi individui innanzitutto nella zona di Parigi ed ai confini che, a seconda delle contingenze politiche, potevano risultare più caldi»(Ivi).

276

G. NOIRIEL, La tyrannie du National, le droit d’asile en Europe (1793-1993), Paris, Calmann-Levy, 1991.

277

M. MECCARELLI – P. PALCHETTI – C. SOTIS (a cura di), Ius peregrinandi. Il fenomeno migratorio tra diritti fondamentali, esercizio della sovranità e dinamiche di esclusione, Macerata, EUM, 2012, pp. 15-16. – Sull’introduzione di politiche di controllo dei migranti a partire dall’esperienza francese, cfr. P. RYGIEL, Le Bon grain et l’ivraie. La sélection des migrants en Occident 1880-1939, Paris, Éditions Publibook, 2008

278

«rappresentazione monistica della regolazione dei rapporti tra l’immigrato e la società in cui si inserisce. Da un lato c’è la società concepita artificialmente come insieme unitario e omogeneo, espressione di interessi che è lo Stato a poter rappresentare. Dall’altro c’è l’immigrato come figura astratta e costruzione artificiale, che traduce in termini giuridici l’esserci dei soggetti migranti»(279).

La relazione migrante - Stato, subordinata alla sovranità, poteva assumere allora la dimensione dello scontro fra l’individuo e lo Stato, che in via ordinaria si risolveva mediante un bilanciamento delle esigenze e dei diritti di entrambi, ma che, in caso di necessità, dava luogo a soluzioni condizionate dal primato delle esigenze della sovranità pubblica «custode dell’unità della nazione e del benessere collettivo»(280).

A questi meccanismi di individuazione della soggettività giuridica dello straniero dava senso e significato l’atto dell’attraversamento della frontiera (281) ed era per questa ragione che il focus del discorso giuridico, politico e sociale si spostava dalle qualitates personali, centrali nell’età medievale e moderna, che valevano indipendentemente dall’attraversamento di un qualsiasi confine (282), all’azione stessa del transito del confine, che annullava ogni pre-esistenza per creare il nuovo soggetto, lo straniero.

Queste dinamiche permettevano così da un lato di continuare a proclamare il diritto naturale ad emigrare senza barriere e dall’altro di legittimare la sperimentazione e l’introduzione di dispositivi di controllo amministrativo, penale o eccezioni (incardinate generalmente su poteri di polizia) tali da rendere problematico l’esercizio di quel diritto e da affermare, al suo posto, il pieno diritto dello Stato di difendersi dall’estraneo.

In altri termini, sin nella seconda metà del’800, si presentava in tutta la sua complessità la tensione tutt’oggi viva fra un “diritto di uscita” non negato, affermato come diritto inalienabile della persona, un “diritto all’ingresso” se non negato certamente molto condizionato e un “diritto di soggiorno” generalmente inesistente che portava la dottrina internazionalistica ad affermare che

«il potere dello stato di espellere lo straniero dai propri territori “est un des éléments complémentaires de la protection sociale qui est le but du droit de punir”, e il potere di costringerlo ad uscire dai confini del paese conducendolo forzosamente, se necessario, alle

279

M. MECCARELLI – P. PALCHETTI – C. SOTIS (a cura di), Ius peregrinandi…, cit., p. 18

280

M. PIFFERI, La doppia negazione…, cit., p. 51.

281

M. MECCARELLI – P. PALCHETTI – C. SOTIS (a cura di), Ius peregrinandi…, cit., p. 19.

282

Cfr. C. STORTI, Alcune considerazioni sul trattamento dello straniero in età medievale e moderna tra flessibilità e pragmatismo, in M. MECCARELLI – P. PALCHETTI – C. SOTIS (a cura di), Ius peregrinandi…, cit., pp. 123-148; C. STORTI STORCHI, Ricerche sulla condizione giuridica dello straniero in Italia dal tardo diritto comune all’età preunitaria. Aspetti civilistici, Milano, Giuffrè, 1990.

frontiere “résulte immédiatement du droit de souveraineté”»(283).

«Nel diritto internazionale, invece, è condivisa l’opinione che non esista alcun “personal or natural right of the individual alien to enter” capace di imporsi contro il “sovereign will to exclude”: il problema diventa quello dei limiti legali entro i quali la sovranità statale può contenere la libertà di movimento, dei confini che permettono di configurare l’impedimento alla partenza, l’esclusione o l’espulsione come giustificabili non solo politicamente ma anche

giuridicamente, trasformando l’abuso di potere in esercizio legittimo di un diritto»(284).

I ragionevoli motivi di interesse generale sui quali parametrare la ratio dell’ingresso o del soggiorno motivavano la formale imposizione di documenti e verifiche al momento dell’ingresso (passaporto, controlli alla frontiera) o ad esso propedeutici (visto d’ingresso, verificabilità delle motivazioni), di mezzi e luoghi per l’ingresso legittimo (posti di frontiera, valichi autorizzati, timbri), di criteri legittimanti il soggiorno e loro periodica messa a verifica (dichiarazione di soggiorno, permesso di soggiorno di motivazione e durata prestabilita, sindacabilità del rinnovo), di strumenti di allontanamento (respingimento, espulsione) e di dispositivi interni (foglio di via, accompagnamento obbligatorio, carcerazione preventiva) e internazionali (accordi per l’accettazione o il transito degli espulsi) per renderli effettivi.

Non solo. Michele Pifferi ha magistralmente ricostruito «il lavorio continuo sul campo semantico dell’esclusione»(285), grazie al quale il linguaggio tecnico giuridico supportava le finalità della politica ricorrendo ad un lessico capace di mascherare o edulcorare la sostanza dei provvedimenti oppure di obbligare a interpretazioni ed esegesi, talvolta forzate, comunque funzionali alla necessità contingente – un’operazione comune alle esperienze europee e statunitensi che diventa, come vedremo, particolarmente significativa nell’esperienza italiana.

Tutte queste sfaccettature e implicazioni, rendono lo ius migrandi ottocentesco molto più complesso di quanto la sua collocazione nel cuore del liberalismo potrebbe lasciar pensare e la tradizionale lettura

283

M. PIFFERI, La doppia negazione…, cit., p. 51. Le citazioni nel testo sono da P. PRADIER-FODÉRÉ, Traité de droit international public européen et américain, suivant les progrès de la science et de la pratique contemporaines, parte II, Paris, Durand et Pedone-Lauriel, 1887, T.I, pp. 1078-1079.

284

Ivi, p. 52. La citazione nel testo è da C.L. BOUVÉ, A Treatise on the Laws Governing the Exclusion and Expulsion of Aliens in The United States, Washington, J. Byrne & Co., 1912, p. 325.

285

M. PIFFERI, La doppia negazione…, cit., p. 53. Cfr. dello stesso autore Ius migrandi: The Legal History of an Unrecognized Right, Border Criminologies (network di «academics, practitioners and those who have experienced border control from around the world» coordinato dal Centre for Criminology at the University of Oxford), marzo 2014, on line all’URL: http://bordercriminologies.law.ox.ac.uk/ius-migrandi-the-legal-history; Ius peregrinandi e contraddizioni dell’età liberale. Qualche riflessione sulla falsa libertà di migrare in Italia e negli Stati Uniti, in M. MECCARELLI – P. PALCHETTI – C. SOTIS (a cura di), Ius peregrinandi. Il fenomeno migratorio tra diritti fondamentali, esercizio della sovranità e dinamiche di esclusione, Macerata, EUM, 2012, pp. 253-273.

dell’Ottocento come età della piena libertà della mobilità umana, sostanzialmente scevra dall’invadente presenza statale nel definire restrizioni e formalità, deve lasciare il passo ad una visione più problematica di una libertà conclamata nei principi e ristretta nelle pratiche statali, e più attenta non solo alla dimensione qualitativa o quantitativa delle migrazioni, ma anche alle pratiche di controllo e gestione di tali movimenti. Da questo punto di vista,

«the nineteenth century was an age of experimentation. Regulations of cross border travel were imposed in a variety of ways by a great number of different agencies (…) and were influenced by, often short-term, political and economic considerations. Various systems of immigration control were imposed, tested, and later modified or repealed. Bureaucratic mechanism designed to trace the movement of all travellers were installed in many countries (France, the Netherlands, Belgium, and the German states) but not others (Britain or the United States). Some states preferred to check and reject immigrants at borders, others thought it more sensible to allow free immigration while removing foreigners who had proven to be troublesome or a burden on public funds, and others tried both systems at different times (…). The picture that emerges from the detailed study of migration control in the nineteenth century is one of extreme diversity (…). However, all studies indicate that state control and state intervention in migration were present everywhere»(286).

***

Di tutti sviluppi – pur senza le urgenze politiche che caratterizzavano la riflessione e la pratica in Paesi a maggior pressione migratoria come la Francia o gli Stati americani (del Nord come del Sud) – partecipava in pieno anche l’Italia fra Otto e Novecento, non solo nelle vesti di rilevante “produttore” di migranti. Pur con tutte le sue pesanti contraddizioni e squilibri socio-economiche, il neonato Stato unitario non era estraneo ai movimenti in ingresso di stranieri e alle molteplici declinazioni nelle quali il termine prendeva forma concreta (viaggiatori, industriali, lavoratori, turisti, artisti, rifugiati, disoccupati, vagabondi, esuli, avventurieri…) e, di conseguenze, alle problematiche tale mobilità comportava.

La condizione giuridica degli stranieri era così, sin dai primi decenni post-unitari, oggetto di una certa attenzione più operativa che normativa, in una successione di provvedimenti piuttosto rapida, come prodotto di una riflessione originale e non soltanto come necessità indotta dalla gestione delle conseguenze dei suoi forti fenomeni di emigrazione. In particolare, tra il 1889 e il 1923 si veniva a formare un vero e proprio diritto degli stranieri che riceveva stabile e definitiva (almeno sino agli anni

286

‘90 del XIX sec.) sistematizzazione nel Testo unico delle leggi di P.S. del 1926 e 1931 (e relativi regolamenti di attuazione).

La scelta fondamentale operata in quei decenni, prodotta sia da una lunga tradizione di lettura e di collocazione del fenomeno “mobilità”, sia dal contemporaneo sentire diffuso sulle necessità di controllo e gestione di ogni movimento che poteva recare turbamenti al vivere della comunità e dello Stato, era quella di assegnare pressoché l’intera materia alla rigorosa pertinenza dell’ordine pubblico e, di conseguenza, alla competenza delle istituzioni che alla tutela e gestione di quell’ordine erano prioritariamente dedicate, le strutture di polizia.

«[La polizia] che si va diffondendo in tutta Europa e in gran parte dei paesi occidentali nel corso del XIX secolo rappresenta, in realtà, l’espressione strategica del comune processo di esclusione, di separazione, di distinzione dell’universo sociale in dicotomie: dentro e fuori, noi e loro, amministrazione e popolazione, nazione-statalità e popolo-cittadinanza, interno-stato-cittadini ed estero-stranieri, madrepatria-interno-stato-cittadini e colonie-sudditi, pace e guerra»(287).

Questa logica degli stranieri come questione meramente di ordine pubblico rimaneva, nel contesto italiano, solidamente impiantata nella pratica politica, nella forma mentis operativa e nell’immaginario ben oltre i decenni presi in esame nella nostra ricerca. La si ritrova ancora a fine del XX sec., in realtà non del tutto rimossa nemmeno nel XXI sec. (288), attraversando esperienze istituzionali, sociali e storiche profondamente diverse.

Essa dava vita ad un complesso intreccio dove continuità e rotture informavano un diritto degli stranieri qualificato primariamente come diritto speciale di polizia, generato dalla prassi e attività quotidiana, costantemente liminare a quello stato di eccezione dove l’ambito dell’esecutivo e quello del legislativo si confondono e sovrappongono facendo della necessità la fonte originaria della legge (289).

287

D. BERTACCINI, La politica di polizia, Bologna, Bononia University Press, 2009, p. 34.

288

Come dimostrano, ad esempio, gli interventi normativi succedutisi nel periodo fra il 2002 e il 2010, nei quali la tematica migranti è sempre messa in relazione a tensioni di ordine pubblico o di giustizia.

289

G. AGAMBEN, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Per Santi Romano, «la necessità di cui ci occupiamo deve concepirsi come una condizione di cose che, almeno di regola e in modo compiuto e praticamente efficace, non può essere disciplinata da norme precedentemente stabilite. Ma se essa non ha legge, fa legge»(S. ROMANO, Sui decreti-legge e lo stato di assedio in occasione dei terremoti di Messina e Reggio Calabria, originariamente pubblicato nella «Rivista di diritto pubblico», 1909 e ora in ID., Scritti minori, vol. I, Giuffrè, Milano 1990, p. 362).