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Lo straniero e la contezza di sé nelle leggi di P.S. del 1859 e 1865

Nella prima legge di P.S. del neonato stato unitario, quella del 1859, allo straniero (313) si accennava in relazione alle modalità di richiesta del libretto di lavoro (314), della licenza per l’esercizio dei mestieri ambulanti (315) e soprattutto dell’espulsione del detenuto a fine pena.

Le condizioni effettive di soggiorno discendevano indirettamente dalle disposizioni più generali sulla mobilità all’interno del Regno, rivolte ai regnicoli come agli stranieri, inclusi nelle formule “chiunque” o “i cittadini” – disposizioni che nella legge del 1859 occupavano il capo IX, «Dei viandanti», comprendente gli articoli da 68 a 73.

Per l’art. 68 chiunque

«transita da un Circondario ad un altro dello Stato dovrà sulla richiesta degli Uffiziali od Agenti di Pubblica Sicurezza, o dei Carabinieri Reali dare contezza di sé, o mediante la testimonianza di persona dabbene e responsabile, o mediante presentazione di passaporto per l’interno rilasciato dal Sindaco del Comune ove è domiciliato».

313

Termine che veniva utilizzato solo a partire dalla legge di pubblica sicurezza del 1889 (contrariamente a quanto avveniva con il linguaggio dell’amministrazione). Le leggi del 1859 e del 1865 gli preferivano espressioni come «coloro che non appartengono a questi Stati», «persone di altri Stati», «non regnicolo» o un più vago «forestieri».

314

Documento obbligatorio per tutti i lavoratori, gli stranieri dovevano richiedere il libretto di lavoro all’Autorità politica del luogo di lavoro, previa presentazione del «passaporto o di altro documento equivalente»(Legge 13 novembre 1859 n. 3720, art. 37). – Il libretto di lavoro, introdotto in Piemonte dai Francesi e confermato dal restaurato governo sabaudo nel giugno 1814 ed esteso agli apprendisti e alle donne su tutto il territorio degli Stati sardi di terraferma nel gennaio 1829, recando la firma del datore di lavoro e il «visto necessario delle autorità di polizia – previo certificato di buona condotta (…) era in realtà una sorta di passaporto e quindi un mezzo determinante di controllo della mobilità e dei flussi immigratori in città. Appena un mese trascorso senza occupazione iscriveva d’ufficio il possessore nella lista dei cittadini sospetti. Oltre che da strumento di controllo della mobilità, il libretto di lavoro agiva quindi da selettore sociale, funzionando da filtro obbligato sull’incerto confine tra il lavoro salariato e il pauperismo assistito, tra il povero meritevole e il povero ozioso, tra l’onesto operaio e il deviante pericoloso»(G. GOZZINI, Sviluppo demografico e classi sociali tra la Restaurazione e l’Unità, in U. LEVRA (a cura di), Storia di Torino. VI…, cit., p. 321). Ereditato dallo stato unitario, il libretto di lavoro veniva soppresso con la legge di P.S. del 1889 ma la “cultura del controllo” che lo sottendeva riemergeva anche formalmente durante il fascismo che, con legge del 10 gennaio 1935, n. 112, reintroduceva il libretto di lavoro – il cui rilascio per gli stranieri era demandato ai «circoli dell’ispettorato corporativo, su richiesta del datore di lavoro»(art. 2). Il libretto veniva ereditato dall’ordinamento repubblicano, rivestito di altre funzioni ed assegnato, in caso di stranieri, alle competenze degli uffici del lavoro (e al rapporto diretto datore di lavoro - uffici del lavoro) per essere definitivamente abrogato nel 2002.

315

La licenza doveva essere rilasciata per iscritto dalle autorità di polizia del Circondario, ad eccezione dei mercati e fiere situate entro 15 km dal confine di stato, per i quali la competenza al rilascio era del Sindaco (Legge 13 novembre 1859 n. 3720, Capo V, art. 46). Veniva qui ripreso ed aggiornato alle nuove competenze istituzionali quanto già disposto dalla L. 8 luglio 1854 n.6, capo III, “Disposizioni generali per alcune professioni”, art. 26. Il limite di 15 km dal confine per utilizzare la semplice autorizzazione del sindaco era stato qui elevato rispetto al precedente di 10 km, stabilito da ultimo dalla L. 26 febbraio 1852 n. 1339. Le professioni ambulanti e i mestieri girovaghi ai quali si faceva riferimento erano: commercio ambulante di chincaglierie, zolfanelli, stampe o altro; mestieri di vetraio, calderaio, stagnaio e simili, saltimbanco, suonatore, cantante, venditore nelle vie o nelle piazze di candelette, scapolaci, immagini, paste, confetti, liquori, intromettitore (mediatore, sensale) ambulante, servitore di piazza, facchino, lustrascarpe e simile ( L. 8 luglio 1854 n. 6, art. 24).

Il perno della disciplina della mobilità era un concetto tanto apparentemente ovvio quanto vago nella sostanza: la contezza di sé, una formula che lasciava intendere un contenuto misto di identità formale (nome, cognome, indirizzo) e identità sociale (lavoro, disponibilità economica, posizione) assolutamente flessibile e ben adattabile alle contingenti esigenze, come documenta la sua lunga permanenza nell’ordinamento italiano (316).

La contezza poteva essere documentata, in un mix di tradizione e modernità, da un testimone purché persona dabbene e responsabile – evidente permanenza della secolare cultura del face à face e della tradizione della forza probatoria della testimonianza – oppure da documenti cartacei – passaporto per l’interno o documenti equivalenti, individuati in «permesso del porto d’armi o di caccia», «libretto di operaio o persona di servizio vidimato dall’Autorità di Pubblica Sicurezza del luogo di partenza», «congedi, i biglietti di licenza e fogli di via rilasciati dall’Autorità militare o politica» o in un più generale «qualunque documento che giustifichi abbastanza l’identità della persona»(317).

Questo impianto veniva confermato dalla legge di P.S. del marzo 1865 che, anzi, rafforzava la tirannia della contezza di sé disponendo che ogni

«cittadino fuori del circondario al quale appartiene dovrà, sulla richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, dare contezza di sé mediante l’esibizione del passaporto rilasciato dall’autorità competente, del libretto [di lavoro] (…), o di qualche segno, carta o documento sufficiente ad accertare la identità della persona o la testimonianza di persona dabbene.

Ove non possa farlo, sarà accompagnato dinanzi all’autorità locale di pubblica sicurezza, la quale potrà o munirlo di foglio di via obbligatorio a rimpatriare, o, secondo le circostanze, farlo

anche accompagnare dalla forza»(318).

Con cittadino (termine che aveva sostituito il precedente chiunque) si intendeva sia il regnicolo sia lo straniero, in virtù del disposto dell’art. 4 del Codice Civile approvato in quello stesso anno, per il quale ogni straniero presente nel regno era obbligato all’osservanza di tutte le leggi penali, di polizia e di sicurezza pubblica in vigore nel Regno. Per inciso, ricordiamo che la legge penale non ammetteva ignoranza, e l’unica mitigazione di questo precetto era prevista per lo straniero proveniente da un Paese nel quale la legge in uso fosse molto diversa da quella italiana purché si trattasse di neo-arrivato

316

L’obbligo per lo straniero di dare contezza di sé è stato abrogato dal D. Lgs. 25 luglio 1998 n. 286 (Testo Unico Immigrazione) ad ogni richiesta della pubblica autorità, sostituito da una serie di adempimenti in merito al rilascio del titolo di soggiorno e all’esibizione dei documenti in caso di controllo da parte dei pubblici ufficiali. Tuttavia, ancora nel 2001 la Cassazione affermava, in tema di inosservanza ai provvedimenti di polizia puniti ai sensi dell’art. 650 del Codice Penale, che integrava il reato la mancata presentazione dello straniero presso gli uffici di P.S. per dare contezza di sé sulle ragioni del suo soggiorno, essendo ancora vigente il potere generale dell’autorità di P.S. di effettuare tutti i controlli che ritiene necessari per l’attuazione di quanto previsto dal Testo Unico Immigrazione stesso (Cassazione penale, sezione I, sentenza del 7 giugno 2001 n. 23049).

317

Legge 13 novembre 1859 n. 3720, artt. 70-71.

318

in Italia.

C’era un altro aspetto da considerare e che poteva complicare il quadro d’insieme, spiegando tuttavia su cosa poteva incardinarsi la ratio del controllo poliziesco sull’identità e i documenti. Sulla mobilità dello straniero in Italia e in particolare in relazione al passaporto, incidevano anche le norme contenute nella legge del 13 novembre 1857 sul rilascio dei passaporti nel Regno Sardo, la cui validità era stata quindi estesa al Regno d’Italia dopo l’unificazione (319). L’art. 15 della legge prevedeva che i passaporti «conceduti da Governi esteri o da Agenti esteri nel Regno, per aver valore nei Regii Stati saranno, salvo il disposto dell’art. 19, soggetti ad una sola vidimazione di una Autorità competente ed al pagamento di una tassa di Lire 3», percepita una volta l’anno presso le autorità di rilascio o direttamente in frontiera (art. 16), ad eccezione di alcune categorie di persone (chi entrava nel Regno per motivi di salute, i transiti marittimi, purché di durata massima di ventiquattr’ore, i contadini stagionali, o il cittadino di Paesi che avevano sottoscritto con il Regno sardo/italiano apposita convenzione di esenzione). Fra gli esentati dalla vidimazione c’erano i cittadini britannici, purché in possesso dei cosiddetti passaporti ministeriali, rilasciati dal Ministero degli Affari Esteri del Regno Unito (320).

Alla vidimazione gratuita erano invece soggetti i passaporti degli operai e artigiani svizzeri originari del Canton Ticino, Grigioni e S. Gallo, mentre per gli altri svizzeri la tassa prevista era di 2 lire, da esigere però ad ogni ingresso (321)

Il passaporto doveva essere esibito in frontiera per l’accertamento di regolarità (322) e, successivamente, lo straniero doveva – in virtù del disposto dell’art 13 delle Regie Patenti del 30 ottobre 1821 – «presentare il passaporto alle Autorità di Pubblica Sicurezza del luogo ove prende dimora»(art. 18).

Tuttavia, in luogo del passaporto, gli stranieri originari dagli Stati confinanti con il Regno potevano utilizzare il certificato di buona condotta rilasciato dalle competenti autorità nazionali, che, in sede di controllo in frontiera, era soggetto a verifica di regolarità ed estensione ma non a vidimazione (323). Il combinato fra le disposizioni sui passaporti del 1857 e le disposizioni di polizia che non prevedevano alcun obbligo di possesso continuato di uno dei documenti indicati come provanti la contezza di sé (passaporto, libretto di lavoro, carta o altro), rendeva il loro possesso continuo

319

Regio decreto sui passaporti ed istruzioni relative, Pesaro, Tip. Nobili, 1860.

320

Art. 17 delle Istruzioni, in Ivi, p. 20.

321

Ibid.

322

Nello specifico, erano regolari i «passaporti stranieri rilasciati in nome del Governo rispettivo, muniti della firma di un pubblico funzionario e del bollo»(Art. 18 delle Istruzioni, in Ivi, p. 21). La non regolarità del passaporto dava luogo al respingimento dello straniero. Le Istruzioni non fornivano invece alcuna indicaizone sulle modalità di accertamento della regolarità dei certificati di buona condotta che, come visto, potevano essere utilizzati per l’ingresso in luogo del passaporto.

323

estremamente consigliato di fatto, assolutamente imperativo in mancanza di quel testimone garante dabbene – che lo straniero poteva avere qualche difficoltà a trovare – tenendo conto anche del fatto che la valutazione sul “dabbene” dipendeva dall’ufficio di pubblica sicurezza e si colorava di tutte le possibili sfumature locali.

La dimensione di obbligo di fatto, nonché una certa qual mancanza di armonizzazione fra le diverse disposizioni, emergeva molto chiaramente nelle prassi di polizia, traducendosi spesso in richieste percepite e denunciate come “abusi” dagli stranieri che ne erano interessati, soprattutto quando si trattava di stranieri entrati nel Regno in regime di esenzione da vidimazioni o specifiche verifiche di frontiera, come nel caso degli inglesi.

Accadeva così che nel luglio 1875 il Ministro dell’Interno Girolamo Cantelli interveniva con una importante circolare indirizzata ai Prefetti e ai Colonnelli dei Carabinieri per richiamarli all’ordine sulle prassi invalse nell’attuazione di questo articolo di legge, proprio in riferimento al legame contezza di sé - passaporto - stranieri (324). La circolare si apriva evidenziando come

«nel corso degli ultimi mesi è accaduto più volte che agenti della forza pubblica abbiano proceduto all’arresto di sudditi esteri che viaggiavano nel regno, perché si trovavano sprovvisti di regolare passaporto.

Assunte informazioni sui reclami, che talvolta anche per via diplomatica mi sono pervenuti, ho dovuto persuadermi che tali inconvenienti i più delle volte si verificano perché dell’articolo 65 della legge di P.S. spesso si fa una inesatta e soverchiamente rigorosa interpretazione».

Dopo aver ribadito che l’ordinamento non ammetteva, né in teoria né nella prassi, differenze di sorta fra cittadini e stranieri in merito all’applicazione dell’art. 65, il Ministero precisava che questa norma «s’informa piuttosto ad un principio di ordine sociale in quanto fa obbligo agli agenti della forza pubblica di chiedere contezza di se a quelle persone le quali, trovate fuori del circondario della loro dimora, offrano in qualsiasi guisa ragione di sospetto»(il corsivo è nostro). La ratio dell’accertamento doveva essere soltanto il sospetto, ed era proprio unicamente al sospetto suscitato sulla persona trovata fuori dal circondario di abituale dimora alla quale l’azione di polizia doveva rispondere. Gli accertamenti doveva dunque essere conseguenza di una delle più banali, ovvie, scontate e consuete molle dell’azione concreta di polizia e della sua cultura: il sospetto, ovvero quella presunzione di irregolarità, di rischio o di verosimile colpevolezza che spettava all’individuo dissipare mediante prove concrete e che l’occhio del bravo poliziotto doveva saper cogliere.

La circolare si appellava in sostanza a quel sapere pratico di polizia simboleggiato dal sospetto,

324

C. ASTENGO – G. SANDRI, La nuova legge sulla Pubblica sicurezza con riferimento anche alle disposizioni in vigore sul personale di P.S. e a quelle di polizia giudiziaria commentata con la scorta della dottrina, degli atti parlamentari e della giurisprudenza, Roma, Tipografia Ceccherini, 1889, p. 511-512 – alle quali si rimanda per tutte le successive citazioni nel testo. La circolare era dell’11 luglio 1875.

espressione di quel suo potere reale che «si costruisce ed è tanto più ricco quanto è meno subordinato al potere politico»(325), ovvero quando la polizia si mostra poco ligia nel rispettare le regole imposte, tenendosi aperto un margine di discrezionalità tale da permetterle di ottenere un efficace controllo sulla società. Come rileva Salvatore Palidda, l’operato delle forze di polizia si dimostra tanto più idoneo quanto più questa riesce a detenere l’effettivo «monopolio nella gestione delle regole del disordine», emergendo in questo senso come «istituzione dello stato intesa precisamente come organizzazione politica della società»(326).

Nello specifico, il sapere sulla sospettabilità si collegava allo straniero, fattispecie lampante di “classe pericolosa” o, più semplicemente, di individuo trovato al di fuori del proprio circondario, producendo strumenti operativi di repressione, quali la pratica dell’arresto in conseguenza della mancata immediata esibizione del passaporto, che davano luogo ad un sostanziale trattamento differenziato dello straniero rispetto al cittadino – entrambi non presenti nelle prescrizioni di legge.

Ma doveva essere un sapere da esercitare con cautela, con attenzione, altrimenti poteva dar luogo a lamentele anche fondate e legittime, come quelle – evidenziate nella circolare in questione – contro la pretesa di accertamento «più rigoroso e più difficile» a carico degli stranieri, ai quali si chiedeva di esibire «per giustificare l’essere loro» un documento «del quale non hanno bisogno per entrare nel regno»(327).

Consapevole di quanto la pratica fosse ben radicata e funzionale all’operatività quotidiana della polizia, il Ministero dell’Interno non ne chiedeva la sospensione, ma richiamava in sostanza ad una maggior moderazione d’uso, mediante una più attenta valutazione della qualità delle persone verso le quali indirizzarla.

Lungi dal voler censurare per sradicare la pratica lamentata, la circolare costituiva allora una sorta di messa in guardia e un richiamo ad un miglior dosaggio dei limiti del potere di polizia giacché l’abitudine e la diffusione di tali pratiche avevano probabilmente indotto gli ufficiali di P.S. nell’errore di sottovalutare a tal punto il «contegno degli stranieri» e le «relazioni che abbiano o dichiarino di avere, alle circostanze in cui si trovano», da provocare reclami tramite le vie diplomatiche ufficiali. Poiché il supporto della propria rappresentanza era il solo mezzo di tutela realmente efficace che lo straniero poteva attivare, e poiché che questo supporto si attivava allorché la rappresentanza giudicava opportuno attivarlo (generalmente sulla base della “qualità sociale” del connazionale che lo richiedeva), era evidente che il personale di P.S. aveva commesso un “eccesso di sicurezza” nei propri mezzi, arrestando qualcuno che era probabilmente diverso dal profilo di straniero di pochi mezzi e importanza del quale la rappresentanza tendeva generalmente a non interessarsi.

325

S. PALIDDA, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 30.

326

Ivi, p. 31.

327

Per evitare il ripetersi di doglianze diplomatiche – la preoccupazione principale sembrava proprio questa – il Ministero dell’Interno invitava a maggiore circospezione e discernimento, chiedendo alle autorità interlocutrici di informare il proprio personale

«che essi debbono, per quanto è possibile, facilitare agli stranieri sui quali cada qualche sospetto il mezzo di dar conto di se mediante la testimonianza del rispettivo Console o di altre persone rispettabili da essi conosciute colle quali sarà loro offerto di comunicare anche per iscritto o per telegrafo.

Vorranno poi le signorie loro avvertire i detti agenti che quando occorresse accompagnare avanti l’autorità di P.S. (…) qualche persona, cittadino o straniero che sia, dovranno alle medesime essere usati i maggiori riguardi.

Tale accompagnamento dovrà essere fatto nel più breve termine possibile e gli agenti che lo eseguiscono non dovranno dimenticare la differenza che corre fra lo accompagnare e il tradurre; per cui si asterranno dal prendere verso le persone che accompagnano, qualsiasi precauzione che non sia richiesta dal bisogno, o giustificata dal fondato sospetto di fuga».

Prudenza e buonsenso, dunque, ma legittimità del sospetto come ragione dei controlli e della richiesta di prove: questo era, in sintesi, il significato della circolare del 1875.

Due anni dopo, un’altra circolare firmata dal Ministro Giovanni Nicotera, era occasionata da alcuni recenti episodi di arresti di stranieri per mancanza di documenti che avevano avuto una forte eco sulla stampa estera – che era arrivata ad accusare il governo e le autorità italiane «di poco rispetto al sacro principio della libertà individuale e di soverchia diffidenza verso gli stranieri»(328).

Il riferimento – la circolare non forniva informazioni dettagliate sul casus che la determinava, dandolo per ben conosciuto e risaputo – erano probabilmente due tribolate vicissitudini occorse a cittadini britannici che effettivamente avevano destato molto clamore in Patria e che sono state ricostruite di recente da O.J. Wright in uno studio sulle relazioni non certamente semplici fra inglesi residenti in Italia e pratiche poliziesche (329).

Il primo episodio – i cui strascichi non si erano ancora conclusi nell’ottobre del 1877, quando compariva la circolare ministeriale in parola – accadeva in Sicilia, a Taormina, a Paul Rainford, un britannico lì residente da oltre sette anni, che, mentre stava assistendo ad una pubblica festa in compagnia dell’amico Claude Monckton, era stato avvicinato da un gruppo di Carabinieri, fra i quali un tal Resconi, brigadiere in borghese. I Carabinieri avevano chiesto ai due inglesi contezza di sé mediante esibizione dei documenti comprovanti l’identità; Rainford e Monckton, che avevano lasciato

328

Circolare del Ministero dell’Interno (segretariato generale) div. II, sez. 2 n. 10900-72 in data 12 ottobre 1877, in C. ASTENGO – G. SANDRI, La nuova legge…, cit., pp. 511-513 – al quale rimandiamo per tutte le citazioni nel testo.

329

O.J. WRIGHT, Police “Outrages” against British Residents and Travellers in Liberal Italy, 1867-1877, “Crime, Histoire & Sociétés / Crime, History & Societies”, 2010, vol. 14, n.1, pp. 51-72.

i passaporti a casa (non essendo per altro obbligatorio tenerli sempre con sé), si erano offerti di andare a prenderli – anche scortati dai carabinieri –per fornire così indubitabile prova della loro identità. Resconi si era opposto decisamente e – stando al reclamo di Rainford – aveva cominciato ad apostrofare duramente i due amici, dicendo loro che gli inglesi avevano l’obbligo di portare sempre con sé il passaporto e che i Carabinieri avevano il conseguente diritto di richiederne la verifica, adottando tutte le necessarie misure in caso di mancanza di detti documenti.

A quel punto, i toni del discorso probabilmente si erano alzati e gli animi si erano scaldati; il potere della divisa si scontrava allora con la debolezza e la vulnerabilità dell’alterità (Monckton non parlava né capiva l’italiano, Rainford era cieco di un occhio) e Resconi ordinava l’immediato arresto dei due. Dopo averli platealmente ammanettati, facendosi ampio largo fra la folla incuriosita, il brigadiere li conduceva in cella – una stanza buia, infestata di vermi e altri insetti, maleodorante e sozza, come la descrivevano i due malcapitati – dove li tratteneva non senza, pare, pronunciare più volte al loro indirizzo la frase “Siete in Italia e, per dio!, abbiamo un governo che non vi permette di fiatare”. In cella, in quelle condizioni miserevoli, ricevevano addirittura la visita del sindaco e di un magistrato locale, che si dichiaravano impossibilitati ad aiutarli ma, pare, si adoperassero per far avere loro un pezzo di candela e una coperta per la notte.

Al mattino del giorno dopo, senza nemmeno controllare i famigerati passaporti (che, per altro, nessuno era andato a recuperare) Resconi rilasciava i due inglesi che, offesissimi, si precipitavano dal proprio Console, George Dennis, per denunciare l’accaduto e chiedere giusta riparazione ai danni subiti, nella