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L’emergere dello ius migrandi fra norme e pratiche di ordine pubblico

Durante i primi decenni di vita unitaria, la normativa relativa agli stranieri non costituiva un tema di particolare attenzione per la politica, al pari, ad esempio, di quello relativo all’emigrazione, come efficacemente sintetizzato da Mattia Vitielli:

«[da] un lato, contava la perdurante bassa intensità dei flussi migratori in uscita che si muovevano ancora lungo le vecchie direttrici e con le tradizionali modalità delle migrazioni antecedenti allo Stato italiano. L’emigrazione dunque non assumeva un carattere emergente e anzi concorreva nel mantenimento del delicato equilibrio tra l’eccedenza della forza lavoro nelle campagne italiane e la domanda di lavoro agricolo fortemente concentrata in determinati periodi dell’anno. Dal lato opposto, il governo si trovava ad affrontare diverse e più̀ pressanti questioni nella costruzione dello Stato unitario, per cui l’emigrazione non figurava in cima all’agenda politica di quegli anni»(303).

Una condizione che, a maggior ragione, si riscontrava nei riguardi dell’immigrazione, sempre poco interessante dal punto di vista quantitativo anche nei decenni nei quali, al contrario, l’emigrazione si faceva grande fenomeno di massa.

Il tema stranieri rientrava fra le ordinarie attività di governo e soprattutto di normazione relativa

301

Creato con D.M. 6 settembre 1880. Cfr. G. TOSATTI, Storia del Ministero…, cit., p. 64.

302

Con R.D. 3 luglio 1887, n. 4707.

303

M. VITIELLO, Le politiche di emigrazione e la costruzione dello Stato unitario italiano, “Percorsi Storici”, 2013, n.1, p. 8, disponibile on line all’URL: http://www.percorsistorici.it/numeri/numero- 1/titolo-e-indice/saggi/mattia-vitiello-le-politiche-di-emigrazione-e-la-costruzione-dello-stato-unitario- italiano [verificato il 23/12/2014].

all’ordine pubblico, senza suscitare, da questo punto di vista, alcuna particolare rilevanza nel dibattito e dialettica politica. Non così era, invece, per altri aspetti collegati alla presenza di stranieri in Italia, quale, ad esempio, il ruolo del capitale straniero nell’economia italiana, tema periodicamente molto dibattuto, con posizioni che oscillavano fra la consapevolezza della necessaria attrazione e la pulsione all’esclusione, oggetto di una polemica vieppiù sentita all’inizio del Novecento e negli anni a ridosso della Prima guerra mondiale.

Nella rappresentazione di un Paese sempre più caratterizzato da ingenti flussi migratori in uscita, che presentava evidenti necessità di attrazione del capitale estero, comunque meta privilegiata di élite danarose (per le quali fra la fine del scolo e l’inizio del Novecento si andava approntando una vera e propria industria del turismo, dall’importante ritorno economico e occupazionale), la questione dell’ingresso e soggiorno dello straniero rappresentavano una faccenda di controllo e governo di soggetti virtualmente a rischio, da affidare alle leggi di pubblica sicurezza e all’azione degli organi esecutivi, in primis Ministero dell’Interno e autorità di polizia da esso dipendenti.

La logica dominante era quella dell’ordine pubblico, nella quale lo straniero – gerarchizzato al suo interno in base al ceto e alla classe sociale di appartenenza – appariva come un soggetto pericoloso in potenza, significativamente non disgiunto dalla categoria dei viandanti, degli oziosi o dei vagabondi. Da questo punto di vista, non ci troviamo di fronte ad una anomalia. Il concetto di ordine pubblico (così ideale come materiale) era estremamente ampio, vagamente definito e per questo motivo «ampiamente discrezionale nell’interpretazione», tale da ricevere «applicazioni pratiche [diverse] a seconda dell’epoca e dell’orientamento politico dei partiti della maggioranza di governo »(304). La materializzazione di tale ordine e la sua gestione era considerata un compito politico ed esecutivo che abbracciava molte situazioni distinte che andavano dall’omicidio allo sciopero operaio, dal furto alla libertà di riunione alla composizione delle liti domestiche, dalla ricerca degli autori dei reati al rilascio di licenze e autorizzazioni amministrative, e vedeva una netta prevalenza della dimensione della repressione rispetto alla prevenzione.

Si trattava di una pratica di governo della società che non disdegnava il ricorso alla decretazione e prassi dell’emergenza e dell’eccezione, utilizzate con frequenza di fronte a contingenze che l’esecutivo classificava come critiche e alla cui soluzione offriva innanzitutto risposte di polizia e poi eventualmente di natura politica. Come ha osservato Paolo Marchetti il

«Regno d’Italia nacque, nel 1861, sotto il segno dell’emergenza (…). La reazione della classe di governo fu tale, sua sul piano normativo che su quello delle pratiche di giustizia, da infliggere, sin dall’origine, al sistema penale italiano una radicale e irreversibile torsione. La legislazione

304

Cfr. sul tema, in ottica di confronto fra diverse tradizioni di gestione dell’ordine pubblico, F. CARRER - J.C. SALOMON (a cura di), L’ordine pubblico. Un equilibrio fra il disordine sopportabile e l’ordine indispensabile, Milano, Franco Angeli, 2011

penale contro il brigantaggio, con il suo corollario di misure di polizia capaci di sottrarre alla giurisdizione il controllo di un fenomeno criminale difficile da definire nella sua esatta natura, impresse al sistema punitivo una sorta di carattere originario che lo avrebbe accompagnato, di emergenza in emergenza, nei decenni a venire. Di fronte ad ogni situazione di tensione politica o sociale (…) la risposte delle forze al governo del paese sembra essere sempre la stessa: riduzione o sospensione dei diritti e delle garanzie dei cittadini, introduzione di misure eccezionali collidenti con i principi propri di uno Stato liberale (…), spostamento del baricentro della funzione repressiva della giurisdizione ordinaria agli organi di polizia e, nei momenti acuti della crisi, alle forme “d’eccezione” della giustizia militare (…).

Quello che si venne in altre parole a creare fu un “doppio livello di legalità” all’interno del quale si trovavano a convivere una legislazione penale liberale, “elegante” nella formulazione dei principi (…) e una prassi amministrativa e di polizia invadente ed ipertrofica, contrassegnata dalla presenza di istituti ben poco liberali quali il foglio di via, l’ammonizione, la vigilanza speciale o il domicilio coatto (…) [Una] logica dell’emergenza in base alla quale “prevenzione” e “sospetto” divennero gli elementi centrali attorno a cui disporre l’azione di repressione della criminalità. In questo contesto, la libertà dei sospettati, dei pericolosi, poté essere costretta o diminuita con l’uso di istituti di polizia preventiva, con pratiche arbitrarie e con abusi tollerati»(305).

Anche per questa caratteristica, il sistema ruotava sulla gestione tramite l’amministrazione corrente, per la quale l’apparato normativo veniva costantemente integrato da un proliferare di circolari e note ministeriali, complesse, dettagliate, a volte contraddittorie l’una con l’altra che regolavano la materia con un’incidenza superiore rispetto alle norme stesse.

Così era anche per la condizione dello straniero, rispetto alla quale la ricerca, storica come sociologica, ha a lungo sottovalutato la portata e gli effetti di questa quasi indissolubile integrazione fra norma e circolare amministrativa, evidenziando una lunga carenza di politiche dell’immigrazione soltanto perché attenta alla mera dimensione legislativa “alta” (306). Al contrario, un vero e proprio ius migrandi si plasmava nella prassi operativa in virtù di questo forte connubio fra pochezza derivante da norme scarne, essenziali e frammentarie, e estrema ricchezza (forse anche eccessiva e contraddittoria) di prassi.

Al centro di questo diritto, così fortemente emergenziale, si ponevano le circolari ministeriali, che la

305

P. MARCHETTI, L’armata del crimine. Teoria e repressione della recidiva in Italia. Una genealogia, Ancona, Cattedrale, 2008, pp. 36-37.

306

A fronte di un’ampia letteratura concorde nel sottolineare l’assenza di politiche dell’immigrazione in Italia almeno sino alla metà degli anni ‘80 del Novecento partendo dalla constatazione dell’assenza di norme dedicate a tale tema, eccezion fatta per quelle, scarne, di polizia, rarissime sono, ad oggi, le analisi che, focalizzandosi proprio sull’interazione fra norme e prassi delle amministrazioni, hanno evidenziato la superficialità di queste tesi, aprendo linee interpretative nuove e più articolate. Mentre questa ricerca era in corso, è stato pubblicato il lavoro di Iside Gjergji sulla rilevanza della circolare amministrativa per lo ius migrandi italiano di otto-novecento, con il quale non possiamo non concordare. Cfr. I. GJERGJI, Circolari amministrative e immigrazione, Milano, Franco Angeli, 2013.

giuspubblicistica tardo ottocentesca considerava come una «vera e propria fonte di diritto pubblico»(307), che creavano una forma mentis dell’amministrazione pubblica per la quale anche quando ad inizi ‘900, la teoria ridimensionava il peso delle circolari a mero atto contenente disposizioni interne dell’amministrazione che le emanava, dunque secondarie rispetto alle norme di legge e solo espressione della prerogativa del potere di supremazia dell’autorità superiore, la realtà fattuale continuava ad assegnare alle circolari un’indubbia e indiscussa forza cogente alle sue conseguenze (308).

Questa produzione – si potrebbe correttamente dire proliferazione, a fronte della sua rilevante consistenza quantitativa – di circolari interne, spesso segrete, riservate, urgenti (per questo difficili da ricondurre a unità o totalità), occasionata da situazioni emergenti dall’attività concreta e quotidiana della polizia, creava un legame indissolubile fra norma (scarna) e interpretazione pratica e dava forma e sostanza flessibile alla condizione giuridica dei non-cittadini e all’effettività e concretezza del sistema di diritti e doveri ad essi riconosciuti.

Il sistema di governo per circolari – è stato osservato – si affermava nel cuore del modello amministrativo dell’Italia unitaria forgiato dalla legge Cavour del 1853 (e successivo regolamento di attuazione) sull’ordinamento dell’amministrazione centrale piemontese lungo le due direttrici della responsabilità ministeriale e dell’uniformità amministrativa. Esso aspirava a garantire uniformità, certezza, imparzialità di applicazione al comando normativo, componendo una cultura e una pratica dell’amministrazione omogenea, contrassegnata dalla profonda simbiosi fra amministrazione e governo che favoriva, anche nello stato di diritto

«l’instaurarsi di una realtà amministrativa assolutista. Il diverso assetto politico-istituzionale non comportò, dunque, l’eliminazione del potere degli apparati amministrativi di produrre diritto e di esercitare, di fatto, un enorme potere di controllo sociale»(309).

Per questa via, lo ius migrandi italiano si connotava , già in età liberale, come diritto speciale di polizia, dove con polizia si intendeva l’ampia funzione di governo dell’ordine pubblico assegnata ad un sistema esecutivo che dal Ministero dell’Interno si articolava nel territorio attraverso gli organi così chiamati, dotati di propria logica, mezzi, strumenti e cultura (310).

Dal punto di vista legislativo, il diritto dello straniero si affacciava al regno unitario con le poche norme ereditate dal regno sardo: il Codice Civile del 1837 per quanto atteneva alla naturalizzazione e 307 Ivi, p. 24. 308 Ivi, pp. 26-29. 309

I. GJERGJI, Circolari amministrative…, cit., p.59.

310

Sulle legislazioni speciali amministrative nel diritto italiano, cfr. G. CATALDI, Le legislazioni speciali. Principi generali - Polizia - Sanità - Assistenza. Lezioni raccolte dal Dott. Alberto Aquarone, Bologna, Zanichelli, 1956, in part. pp. 125-179 sulla polizia.

alla reciprocità; l’ordinamento penale che non distingueva fra straniero e cittadino e contemplava l’espulsione come pena accessoria per i delitti; la legge 13 novembre 1859 n. 3720 di pubblica sicurezza estesa alle province italiane via via annesse.

A queste seguivano quindi le riforme del Codice Civile del 1865, del Codice penale del 1889, delle citate norme sulla cittadinanza del 1912, delle leggi fondamentali di pubblica sicurezza del 1865 e 1889, il R.D. 2 maggio 1915 n. 634 sul soggiorno degli stranieri e pochi altri occasionali provvedimenti. Si trattava, nel complesso, di pochi articoli di legge, essenziali nella loro formulazione, che componevano un quadro sulla condizione giuridica degli stranieri nell’Italia liberale caratterizzato da parzialità e lacune per colmare le quali i provvedimenti secondari emanati dall’amministrazione (le circolari, appunto) finivano per essenziale indispensabili e obbligate.

Questa essenzialità normativa ci appare tuttavia in linea con quell’atteggiamento complessivo che la politica italiana post-unitaria manifestava in tema di controllo delle mobilità e che è stato studiato in relazione alle dinamiche di emigrazione.

«All’indomani dell’Unità d’Italia, alla classe politica del nuovo Stato non si poneva tanto la questione sul come legiferare in tema di emigrazione, quanto piuttosto il dibattito politico era centrato sul perché legiferare. Oggi questa può̀ sembrare una domanda retorica, ma all’epoca non era per niente scontata se si tiene conto che legiferare sulla mobilità delle persone implicava un’interferenza dello Stato nella sfera delle libertà individuali, di cui la libertà di spostamento costituiva una parte essenziale e che all’epoca non si riusciva a scorgerne con nettezza l’utilità. L’atteggiamento di laissez-faire maturato dalla classe dirigente piemontese, che negli anni aveva acquisito una certa familiarità col fenomeno migratorio e un documentato riconoscimento dei suoi vantaggi, nei confronti dell’emigrazione ha dominato la vita politica italiana per molti anni ancora dopo il compimento dell’Unità d’Italia»(311).

Come già con gli stranieri, anche riguardo l’emigrazione il legislatore sceglieva di agire, inizialmente, unicamente tramite lo strumento delle circolari ministeriali, rompendo definitivamente l’iniziale atteggiamento di laissez faire alla metà degli anni ‘70 del XIX secolo, quando «il liberismo e la figura politica dello Stato neutro subiscono una profonda crisi, proprio a causa della montante questione sociale»(312), che imponeva un diverso approccio anche su tutte le tematiche relative alla mobilità. Sino a ridosso del primo conflitto mondiale, l’attenzione del legislatore non si orientava sulle modalità di ingresso o di tenuta del soggiorno bensì era indirizzata al governo dei dispositivi di allontanamento dello straniero indesiderato alle frontiere o all’interno cosicché le regole fondamentali del suo soggiorno si desumevano di fatto da quelle più genericamente previste in relazione agli spostamenti

311

M.VITIELLI, Le politiche di…, cit. p. 6.

312

della popolazione italiana. Il che – come vedremo – non assumeva affatto un significato di piena e totale “libertà di ingresso e soggiorno”, giacché proprio dalle norme e pratiche relative all’allontanamento derivavano di fatto i limiti a questa apparente libertà.