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Vecchi problemi e nuove esigenze: il controllo della mobilità fra ‘800 e ‘900

Nell’Ottocento si viaggia, ci sposta, si cambia città e Paese come si era sempre fatto ma, allo stesso tempo, in forme, modi e tempi del tutto nuovi e diversi ai quali non sembra del tutto errato applicare il concetto – coniato nel tardo XX sec. - di globalizzazione (245).

«[La] globalizzazione infatti non è condizione specifica dell’ultima parte del ventesimo secolo, quanto piuttosto una lunga concatenazione di eventi maturata negli ultimi centocinquant’anni, una sorta di endoscheletro della contemporaneità»(246).

I grandi cambiamenti della scienza e della tecnica, il trionfo anche simbolico della macchina, i fremiti e le scosse simboliche e reali provocate dalla scoperta e diffusione dell’uso dell’elettricità, le innovazioni che incidevano visibilmente sulla quotidianità come le reti di trasporto e i mezzi di comunicazione, l’idea di un progresso continuo che portava ad un mondo nuovo dai confini più ampi e accessibili a strati sociali più ampi rispetto al passato, malgrado la persistenza di notevoli squilibri di

244

R. BRUBAKER, Cittadinanza e …, cit., pp. 61-62.

245

A. GIOVAGNOLI, Storia e globalizzazione, Roma-Bari, Laterza. 2003.

246

M. COGLITORE, I confini dell’Europa. Globalizzazioni, conquiste, tecnologie tra Ottocento e Novecento, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2012, p.40.

possibilità e opportunità fra ricchi e poveri, il trionfo della borghesia europea e della sua ideologia di governo dei destini locali e universali – tutto questo contribuiva ad una nuova coscienza collettiva della mobilità, per la quale l’impossibile sembrava possibile e le distanze annullarsi e rendere praticabile ogni percorso.

Il mondo dinamico della “vecchia Europa” popolato di «”nomadi”, “girovaghi” e viaggiatori di riguardo»(247), di migrazioni per lavoro e per commercio sulle brevi e lunghe distanze, seguendo stagionalità temporalmente definite e ripetute, cambiava volto. Alle tradizionali figure di migranti si affiancavano le migrazioni proletarie di massa, prodotte dalle crisi generate dalla trasformazione delle società agrarie in società industriali (pressoché generale anche se con tempi e dinamiche specifiche diverse), dallo sviluppo dell’economia atlantica e dalla forza di attrazione del Nuovo mondo e dei nuovi sistemi produttivi.

«A partire dall’ultimo terzo del XIX secolo, in Europa la manodopera si spinse o fu direttamente reclutata per essere avviata su distanze sempre più lunghe oltre confine. La progressiva “internazionalizzazione del mercato del lavoro” interessò non solo i settori secondario e terziario, nei quali ben presto emersero chiari indizi di un mercato del lavoro spaccato in due, con livelli alti “nazionali” e livelli più bassi fortemente “internazionalizzati”. Essa investì anche il mercato del lavoro agricolo e fu la conseguenza della intensa occupazione di stranieri nei lavori stagionali, in sostituzione della manodopera indigenza che o si era trasferita nell’industria o aveva trovato un lavoro meglio pagato nell’agricoltura stessa o era emigrata oltremare. Prima che nelle varie nazioni si formasse definitivamente lo Stato assistenziale, la cui offerta di intervento e di intermediazione separava nettamente i “propri connazionali” dagli “stranieri”, dalla fine dell’Ottocento in poi si sviluppò per alcuni decenni, nell’età del liberalismo, una sorta di mercato del lavoro europeo senza regole»(248).

Anche la giovane Italia, unificata agli inizi degli anni ‘60, fortemente sbilanciata sotto molti punti di vista, era investita dalle conseguenze e contraddizioni di questi mutamenti. Un’economia debole e in ritardo rispetto ai Paesi vicini e di più lunga tradizione unitaria, un mercato del lavoro che dalla recente unificazione perdeva quei meccanismi di compensazione delle mobilità che avevano caratterizzato il precedente sistema di Stati frammentati, un’industrializzazione in affanno perché costretta a ritmi forzati di cambiamento, priva di reti strutturali, logistiche e delle competenze in grado di sostenerla adeguatamente, l’espansione demografica – tutto concorreva a produrre mobilità, particolarmente intensa verso l’esterno dei suoi confini, alla quale si indirizzavano centinaia di migliaia di persone ogni anno. Un fenomeno imponente, sul quale lo storiografia degli ultimi recenti

247

K.J. BADE, L’Europa in movimento. Le migrazioni dal Settecento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 11.

248

sta indagando con molta attenzione e ricchezza di prospettive (249).

Meno consistente numericamente, ma in molti settori estremamente rilevante nelle conseguenze economiche, era anche la mobilità dall’esterno verso il suo interno. La più nota (e studiata) era quella della ricchezza, del benestante, ricchissimo o semplicemente ricco, che sceglieva l’Italia per soggiorni culturali, salutari e di svago e che, soprattutto a partire dalla fine del secolo, produceva una sensibile rivoluzione dell’offerta turistica, della ristorazione e della villeggiatura. Al suo fianco, vi era la mobilità imprenditoriale, di capitali portati da industriali, banchieri e capitalisti per i quali la piazza italiana rappresentava un nuovo terreno di investimenti, un mercato da costruire, un’economia da creare e nella quale ri-crearsi. Insieme ai capitali, si muovevano le macchine e, con esse, il personale dotato del know how necessario alla produzione avviata: direttori, quadri tecnici, operai specializzati giungevano dall’estero ad occupare posizioni che il mercato del lavoro italiano, caratterizzato da una manodopera per la maggior parte dotata di scarsa o nulla istruzione e professionalità, non riusciva a soddisfare. Soggiorni che politici e analisti locali desideravano di breve durata, nella speranza che servissero a formare professionalità locali in grado di rimpiazzarli nel giro di breve tempo. Una presenza essenziale per le aziende ma vissuta con molto fastidio dal contesto locale.

«Ancora nei primi anni Ottanta del XIX secolo un’altra fabbrica meccanica milanese, la Prinetti “sarebbe stata costretta a chiudere – scrisse Vittorio Ellena – se non traeva dalla Germania valenti lavoratori”. Anche l’imprenditore tessile Ernesto De Angeli sapeva che gli operai stranieri “in generale sono gelosissimi di ciò che sanno: ci vogliono anni ed anni prima che si

possa ricavarne qualche cosa”»(250).

Mobilità del piacere, della cultura, del denaro, delle persone: il “secolo lungo” comportava profonde trasformazioni anche in questi aspetti della vita personale, sociale e, in ultima analisi, degli Stati. L’aumento della mobilità, la sua mutata caratterizzazione, l’intrecciarsi con problematiche di nuovo tipo (si, pensi, ad esempio, alla politicizzazione delle masse) rimettevano in questione tradizionali ottiche e processi, a partire da quelli derivati dalle relazioni fra comunità locali e singolo migrante.

249

Sul rapporto storiografia - emigrazione, a solo titolo di esempio, citiamo P. BEVILACQUA - A. DE CLEMENTI - E. FRANZINA (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, 2 voll., Roma, Donzelli, 2001-2002; M. SANFILIPPO, Emigrazione italiana: il dibattito storiografico nel nuovo millennio, “Studi Emigrazione”, 150 (2003), pp. 376-396; P. CORTI, L’emigrazione italiana e la sua storiografia: quali prospettive?, “Passato e Presente”, a. XXIII (2005), n. 64, pp. 89-95; M. TIRABASSI (a cura di), Itinera. Paradigmi delle migrazioni italiane, Torino, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, 2005; P. CORTI, Dal “ritorno” alle visits home: le tendenze di studio dell’ultimo trentennio, “Studi Emigrazione”, 2006, n. 164, pp. 835-856; M. COLUCCI, Storia o memoria? L’emigrazione italiana tra ricerca storica, uso pubblico e valorizzazione culturale, in L. PRENCIPE (a cura di), I musei delle migrazioni, “Studi Emigrazione”, 2007, n. 167 pp. 721-728 e E. FRANZINA, Dai musei al museo: emigrazione e storia d’Italia, in Ivi, pp. 729-740.

250

G. MAIFREDA, Libertà e controllo. La disciplina ottocentesca dello spazio di fabbrica tra costruzioni giuridiche e regolamenti interni, in L. ANTONIELLI (a cura di), La polizia del lavoro: il definirsi di un ambito di controllo, Soveria Mannelli, Rubettino, 2011, pp. 132-133.

«[N]egli stati liberali dell’Ottocento tanto la libertà di emigrare quanto quella di immigrare erano (…) disegnate dalla scienza giuridica come un terreno di scontro tra privato e pubblico, dove la sicurezza e il bene generale della comunità prevalevano sempre sulle pretese del singolo»(251).

Da questo punto di vista, l’Ottocento e i primi decenni del Novecento rappresentano indubbiamente un periodo molto stimolante, di riflessione, sperimentazione e introduzione di più articolati e spesso inediti strumenti di gestione e controllo della mobilità. Lo ius migrandi era fatto oggetto di politiche di regolazione e contenimento sempre più stringenti, prodotte sia da nuove ideologie della sovranità, sia da un rinnovato discorso sulla sicurezza della comunità sociale e nazionale.

«Le développement de l’Etat, dans les sociétés occidentales, est étroitement lié à l’idée de sécurité. Celle-ci, toutefois, a pris au cours des siècles des significations différentes. Selon Michel Foucault, nous serions passés, depuis la fin du Moyen-Âge, du «pacte territorial», par lequel l’Etat garantissait la paix à l’intérieur des frontières nationales, au «pacte de sécurité», par lequel il s’engage désormais à garantir les individus «contre tout ce qui peut être incertitude, accident, dommage, risque»(252).

Lo Stato borghese, territoriale e nazionale emerso ed affermatosi nel corso del XIX sec. assumeva il mandato di proteggere la comunità, difendere il territorio contro le minacce esterne e interne, tutelarne la pace e l’ordine garantendo la custodia degli individui e di quel sistema di diritti assunti a fondamentali nei quali diritto alla vita e diritto alla proprietà assurgevano a cardini indissolubili l’uno dall’altro.

Il percorso che allora si avviava conosceva in rapida successione – come evidenzia Alessandro Fontana – una variazione di finalità e di mezzi che incidevano direttamente sulle politiche della comunità e del suo riconoscimento:

«sicurezza del cittadino, intorno al diritto di proprietà, nel sistema liberale classico; sicurezza della società, intorno all’ordine pubblico, con la nascita dello Stato sociale (previdenze, assicurazioni, ecc.); sicurezza dello Stato, infine, nel regime fascista e negli Stati totalitari, come guerra aperta (o occulta) contro i nemici razziali e politici. Difesa contro il furto, difesa contro la criminalità diffusa degli anormali, difesa contro il tradimento, il sabotaggio e la

251

M.PIFFERI, La doppia negazione dello ius migrandi tra Otto e Novecento, in O. GIOLO – M. PIFFERI (a cura di), Diritto contro. Meccanismi giuridici di esclusione dello straniero, Torino, Giappichelli, 2009, p. 49.

252

M. SENELLART, Etat moderne et sécurité: une perspective historique, “Cosmopolis: rivista semestrale di cultura”, 2008, Vol. III, n. 2, online all’URL: http://www.cosmopolisonline.it/20081215/senellart.php [verificato il 23/12/2014].

deviazione ideologica: ecco gli obiettivi delle misure securitarie»(253).

Alla tradizionale difesa, rinnovata nell’ottica del monopolio statale sull’uso della forza, si affiancava una difesa di tipo nuovo, sociale, garantita dagli strumenti della tutela assistenziale e previdenziale. L’ideologia della moderna sicurezza garantita dallo Stato, nata con l’«Etat de police, ou Etat de bien-être (Wohlfahrtsstaat), mis en place dans les pays germaniques, au lendemain de la guerre de Trente ans», passava attraverso «l’affirmation des droits sociaux, sous la Révolution française, la politique sociale de l’Etat bismarckien, à la fin du XIXe siècle» per trovare poi formalizzazione compiuta nella «publication des plans Beveridge, d’inspiration keynésienne, pendant la dernière Guerre mondiale»(254). La sicurezza

«en question, dans cette nouvelle perspective, n’est plus la simple garantie des “propriétés” essentielles de l’individu (sa vie, sa liberté et ses biens) (…) [elle] ne se définit plus formellement, de manière négative, comme la limite opposée à l’action d’autrui sur ma personne, mais acquiert un sens matériel et positif: l’assurance pour chacun de bénéficier des conditions qui lui permettent de mener une existence heureuse, conforme à sa dignité et socialement utile»(255).

Il monopolio della forza significava anche affermazione del monopolio statale della sicurezza della società, per garantire la quale lo Stato ricorreva ad una nuova collocazione dei compiti e le funzioni di polizia, intesa come «l’ensemble des moyens nécessaires au maintien du bon ordre de la communauté politique et à l’accroissement de ses forces en vue du bonheur de tous»(256).

La sicurezza diventava così un mezzo e pretesto per controllare le persone e le risorse piuttosto che la ragione per sradicare le ingiustizie e le differenze, ed esigeva una definizione sempre più precisa del confine fra inclusi ed esclusi, fra gli “aventi diritto” a partecipare al benessere della comunità, a beneficiare delle provvidenze statali, ad accedere alla sensazione di sentirsi e al diritto di essere sicuri e chi ne doveva rimanere escluso, totalmente o parzialmente. Un confine che obbligava all’individuazione oggettiva, documentata e verificabile degli elementi di discrimine in/out certificato dalle pubbliche autorità – un compito nel quale le esigenze della sicurezza impattavano con la mutata teorica della cittadinanza, traendo dalla delimitazione fra cittadini e non-cittadini un indiscusso criterio di riferimento.

253

A. FONTANA, Dalla difesa sociale alla difesa della razza, Laboratoire italien, 2003, n.4, p. 139.

254 Ibid. 255 Ibid. 256 Ibid.

Entrava così in gioco quella che Gerard Noiriel ha denominato «révolution identificatoire»(257), l’attività di codificazione e certificazione delle identità individuali monopolizzata dallo Stato e custodita dai suoi organismi, che dalle registrazioni – atti formali conservati in archivi sempre più specializzati, standardizzati e regolati da un sistema pubblico di raccolta e uso dei dati (si pensi, ad esempio, ai registri anagrafici dei comuni e municipalità, retti da norme omogenee su un ampio territorio) – si materializzavano in documenti che accompagnavano gli individui.

Significativamente, l’introduzione e la diffusione di questi dispositivi di individuazione e selezione procedeva a partire da due profili di pericoli per la società, i criminali e i migranti. In nome delle esigenze del loro controllo, infatti, si giustificava la sperimentazione e la messa in opera diffusa di dispositivi come i passaporti, le carte d’identità, le tessere di riconoscimento, ecc.…, e di attività come il controllo su arrivi/partenze, l’obbligo di registrazione, la declinazione delle motivazioni della presenza e delle intenzioni sul futuro, la consapevolezza delle possibilità di allontanamento. Dispositivi e funzioni che, in toto o in parte, venivano poi estesi al resto della popolazione, arrivando – come nel caso della carta di identità – ad abbracciarla tutta e grazie anche a questo lavoro sulle “carte comprovanti l’identità”, la moderna comunità nazionale passava dal livello di “comunità immaginata” (secondo la definizione datane da Benedict Anderson)(258) a “comunità reale” e tangibile.

La centralità della dimensione documentale per il governo della sicurezza a monopolio statale era testimoniata dal coevo fiorire di analisi e discussioni sull’importanza e l’estrema pericolosità di crimini quali la falsificazione dei documenti (un reato di antica tradizione che diveniva assolutamente contemporaneo), il disordine e la confusione determinata dal travestimento e dal camuffamento dell’identità, il sospetto che si abbatteva sulla persona incapace di sostenere l’identità dichiarata mediante la sua attestazione scritta.

In questo modo, tutta una serie di situazioni abbastanza comuni nella società antica, divenivano sintomi di rischio, indicatori di pericolosità, cause di ansie, paure e insicurezze per placare le quali lo Stato doveva intervenire con provvedimenti ad hoc, con azioni legislative e soprattutto con saperi operativi espressamente orientati alla prevenzione e alla repressione.

Le carte rese vieppiù complementi obbligatori dell’identità personale, emergevano come mezzo imprescindibile per l’esercizio dei compiti di tutela della sicurezza della comunità territoriale in senso

257

G. NOIRIEL, La Tyrannie du national. Le droit d’asile en Europe, 1793-1993, Paris, Calmann-Lévy, 1991.

258

B. ANDERSON, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, Roma, Manifesto Libri, 1996 (l’edizione originale era del 1983). Per Anderson, la nazione è «una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana»(Ivi, p. 25). È immaginata poiché, essendo esclusa la possibilità che tutti i suoi membri si conoscano personalmente, il contenuto del legame che li unisce, dato il loro numero e l’estensione territoriale della “loro” nazione, è necessariamente immaginato, non prodotto da relazioni concrete. È una comunità limitata, poiché la nazione è sempre immaginata con dei confini, oltre i quali vi sono altre nazioni a loro volta limitate. È sovrana, perché l’illuminismo ha consegnato alla storia un concetto di libertà come grande ideale. È comunità poiché, malgrado le disuguaglianze e gli sfruttamenti al suo interno, la nazione è vissuta sempre in un clima affettivo informato da un “profondo e orizzontale cameratismo”.

ampio, rappresentando allo stesso tempo il simbolo più immediato di quel monopolio dei mezzi legittimi di circolazione che lo Stato avocava a sé (259).

«[Les] Etats modernes, et le système étatique international auquel ils appartiennent, ont exproprié les individus et les entités privées des “moyens légitimes de circulation” (…). Ce processus a privé les individus de la liberté de se déplacer à l’intérieur de certains espaces et les a rendu dépendants de l’Etat et du système étatique pour obtenir l’autorisation de circuler (…). Par ce processus, les individus sont devenus également dépendants de l’Etat pour acquérir une “identité” de laquelle ils ne peuvent se défaire et qui peut sensiblement conditionner leur accès à différents espaces»(260).

Lo Stato ottocentesco assumeva e consolidava così anche il monopolio delle identità, divenendone il custode e garante attraverso l’introduzione di apparati amministrativi centrali e locali specializzati a svolgere tale funzione. Grazie alle norme e ai regolamenti sulla registrazione anagrafica, lo Stato codificava formalmente i legami sociali quali la famiglia (anzi, il nucleo familiare), le relazioni di convivenza, il ruolo del capofamiglia anagrafico (responsabile dell’identità del nucleo familiare) spingendosi sino a imporre il proprio volere anche sull’attribuzione del nome della persona, per garantirne la conformità alla sensibilità della comunità nazionale. Emblematica, in questo senso, l’esperienza italiana sotto il fascismo, che introduceva nel 1939 l’esplicito divieto di

«imporre un cognome come nome, nomi [...] ridicoli o vergognosi o contrari all’ordine pubblico, al buon costume o al sentimento nazionale o religioso, o che sono indicazioni di località o in generale denominazioni geografiche e, se si tratta di bambino avente la cittadinanza italiana, anche nomi stranieri»(261)

con l’ufficiale di anagrafe autorizzato ad opporsi alla registrazione di nati ai quali veniva imposto un nome “fuorilegge”.

Inevitabile, e quasi scontata, era la fusione fra i processi di identificazione funzionali al governo

259

D. BIGO, Sécurité et immigration, “Cultures & Conflits” [En ligne]”, 1998, nn. 31-32, p. 2, on line all’URL: http://conflits.revues.org/index537.html [verificato il 23/12/2014].

260

J. TORPEY, Aller et venir: le monopole étatique des “moyens légitimes de circulation”, “Cultures & Conflits” [En ligne]”, 1998, nn. 31-32, on line all’URL: http://conflits.revues.org/index537.html [verificato il 23/12/2014].

261

R.D. 9 luglio 1939, n. 1238. La legge autorizzava anche il cambiamento di cognomi che potevano risultare offensivi. Malgrado ciò, le anagrafi italiane registravano senza problemi il nome Urbano accanto al cognome Vigile. Nel caso degli stranieri, il nome veniva reso in italiano o traducendolo o traslitterandolo – mentre contro le minoranze interne, soprattutto altoatesine e slave veniva perseguita una dura politica di italianizzazione forzata dei nomi e cognomi, parte essenziale nel più ampio programma di assimilazione, negazione e distruzione delle loro appartenenze. In particolare, se si riteneva che il cognome avesse radice latina o italiana, l’italianizzazione (definita “restituzione”) avveniva d’ufficio, senza richiesta di consenso all’interessato, mentre se il cognome era chiaramente straniero, l’italianizzazione (“riduzione”) era “facoltativa”, anche se “raccomandata” spesso sotto minaccia (cfr. ad esempio P. PAROVEL, L’identità cancellata: l’italianizzazione forzata dei cognomi, nomi e toponimi nella “Venezia Giulia” dal 1919 al 1945, con gli elenchi delle province di Trieste, Gorizia, Istria ed i dati dei primi 5.300 decreti, Trieste, Eugenio Parovel, 1985).

statale della sicurezza della comunità e quelli dovuti alle esigenze di governo e controllo della mobilità, in un intrecciarsi inedito di piani, esigenze e funzioni. La

«qualification généralisée (et graduelle) des Etats – du moins du point de vue du système international – de “nationaux” (c’est-à-dire, “d’Etat-nation” composé de membres considérés comme ressortissants); la codification de lois établissant les individus qui pouvaient se déplacer à l’intérieur et à travers les frontières, tout en déterminant, où, quand et comment ils pouvaient le faire; le développement et la diffusion à l’échelle mondiale des techniques pour identifier de façon unique et certaine toute personne vivant sur la surface de la terre, de la naissance à la mort; la construction de bureaucraties préposées à l’application de ce régime d’identification et à l’examen des individus et de leurs documents afin de vérifier leur identité; la création d’un corps de normes légales ayant pour but d’examiner les demandes des individus désireux

d’entrer dans des espaces précis ou des territoires»(262).

Questi dispositivi, come sta facendo emergere la ricerca più recente, erano già presenti nelle epoche premoderne (263), occasionalmente con connotazioni non dissimili a quelle assegnate loro dagli Stati ottocenteschi (264) ma una differenza profonda di logica complessiva del sistema, che Gérard Noiriel ha definito «la longue tyrannie du face à face»(265).

Per secoli, nella difficoltà per i soggetti che ricevevano quei documenti di verificarne l’effettiva attendibilità e legalità (266), le relazioni interpersonali concrete avevano dato contenuto sostanziale all’identità dichiarata, ben più della carta portata con sé. Certo, se quel documento risultava falsificato, il fatto poteva sempre essere sanzionato dalla pena che gli statuti, leggi, ordinanze prevedevano per la contraffazione di atti statali, sigilli o quant’altro. Ma nelle relazioni fondamentali, dall’antichità al sorgere dello stato contemporaneo, la prova scritta cedeva il passo davanti alla testimonianza, visiva o orale che fosse. “L’abito”, prima (e forse più) che il documento, identificava immediatamente lo status o l’appartenenza di gruppo dell’individuo, così come era il marchio inciso

262

J. TORPEY, Aller et venir…, cit., pp. 3-4.

263

Cfr. ad esempio R. ZAUGG, Stranieri di antico regime. Mercanti, giudici e consoli nella Napoli del Settecento, Roma,