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Il rimpatrio era una misura di polizia preventiva prevista sia per l’italiano che per lo straniero rintracciati in condizioni di indigenza e nell’impossibilità di provare la contezza di sé.

Già la legge di P.S. del 1859 aveva disposto che chiunque

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ACS, MI, PS, PG 1913-1915, b. 109, fasc. 12100.1, anno 1914, «Sospensione invio stranieri alla frontiera austriaca», telegramma n. 5133 dalla Prefettura di Udine al Ministero dell’Interno del 28 luglio 1914.

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ACS, MI, PS, PG 1913-1915, b. 109, fasc. 12100.1, anno 1914, «Sospensione invio stranieri alla frontiera austriaca», telegramma n. 5159A dalla Prefettura di Udine al Ministero dell’Interno del 29 luglio 1914.

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ACS, MI, PS, PG 1913-1915, b. 109, fasc. 12100.1, anno 1914, «Sospensione invio stranieri alla frontiera austriaca», telegramma n. 15988 dal Ministero dell’Interno ai Prefetti di Bomo e Novara.

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ACS, MI, PS, PG 1913-1915, b. 109, fasc. 12100.1, anno 1914, «Sospensione invio stranieri alla frontiera austriaca», telegramma n. 5422 della Prefettura di Como al Ministero dell’Interno del 2 agosto 1914.

«sarà trovato fuori dal circondario nel quale è domiciliato, senza che possa dare contezza di sé in alcuno dei modi accennati nei tre precedenti articoli, verrà presentato all’Autorità locale di Pubblica sicurezza, la quale potrà farlo munire di foglio di via obbligatorio per rimpatriare, oppure, secondo le circostanze, farlo anche tradurre per mezzo della forza»(408).

Formulazione che rimaneva intatta anche nella legge del 1865 (409), quando era già ordinariamente applicata come forma di rientro forzato al proprio Comune di origine, inteso come luogo di nascita o come precedente luogo di domicilio / residenza nel caso in cui non si riuscisse a determinare l’originario. Un elemento, questo relativo alla destinazione finale dell’allontanato, che vedremo essere molto importante nelle pratiche con gli stranieri, perché dava luogo ad un’interpretazione del concetto di origine / di precedente domicilio molto particolare e ben più ampio del suo significato letterale. Il rimpatrio era sempre accompagnato dal foglio di via, ordine perentorio di allontanamento che indicava la destinazione finale, il tragitto vincolato da seguire nel viaggio di rientro e l’obbligo di presentarsi alle autorità di pubblica sicurezza (preventivamente informate dagli uffici di partenza) subito dopo l’arrivo e comunque entro il termine stabilito. Non comportava di per sé conseguenze di lungo periodo, se non abbinato a ulteriori misure, ma il ripetersi sulla stessa persona per un numero di volte superiore a due poteva dar luogo a denuncia di ammonizione per oziosità e vagabondaggio (410). Per le sue intrinseche caratteristiche, il rimpatrio si affermava subito come una misura molto funzionale alla gestione degli stranieri ritenuti in qualche modo sospetti ma non passibili di provvedimento di espulsione – con una procedura ordinaria che sarebbe rimasta sostanzialmente immutata per decenni.

Il sospetto – lo straniero per il quale venivano avviate le procedure di ufficiale identificazione – veniva trattenuto in stato di fermo e interrogato, per acquisire informazioni basilari – talvolta del tutto sommarie, stando alle lacune presenti nei verbali – sull’identità, sulla cittadinanza e, soprattutto, sulle intenzioni rispetto al proprio futuro (rimanere in Italia, accettare il rimpatrio, intenzione di spostarsi in un altro Stato, imbarcarsi, e così via).

L’ufficio di P.S. si metteva quindi in contatto con il Consolato di riferimento – criterio per la verità non sempre rispettato – per averne la conferma sull’appartenenza nazionale e soprattutto per verificarne la volontà di prendere in carico l’assistenza del proprio connazionale in vista

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Legge 13 novembre 1859 n. 3720, art. 72.

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L. 20 marzo 1865 n. 2248, art. 65, c. 2.

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L’ammonizione, «potente ed efficace provvedimento di polizia»(F. MANDUCA, Diritto penale e…, cit., p. 154) pronunciato dal presidente del Tribunale penale o da un Giudice delegato ad hoc, poteva durare due anni ed essere eventualmente rinnovata e, fra l’altro, comportava l’impossibilità di rilascio del passaporto per l’interno senza preventivo nulla osta Prefettizio. L’ammonito, aveva l’obbligo di «darsi a stabile lavoro in un determinato tempo, fissare stabilmente la propria dimora, farla conoscere nello stesso termine all’autorità di pubblica sicurezza e non abbandonarla senza preavviso all’autorità medesima»(Ivi, p. 156), oltre ad una sfilza di divieti sulle frequentazioni, sugli orari di uscita e rientro a casa, sul trattenimento abituale in osterie, bettole e case di tolleranza.

dell’allontanamento, atto che avrebbe costituito la principale garanzia di effettiva riuscita dello stesso. Al contempo, l’ufficio di P.S. della Prefettura che aveva eseguito il fermo, trasmetteva al Ministero dell’Interno le informazioni sulle circostanze del fermo, copia del Verbale di interrogatorio, copia del Foglietto di indicazioni, il rapporto sui passi svolti sino a quel momento ed ogni altra eventuale necessità in relazione all’identificazione nonché l’indicazione di massima sul provvedimento che sarebbe stato opportuno adottare.

Il Ministero dell’Interno rispondeva inviando le proprie istruzioni – che potevano confermare le indicazioni giunte dal territorio, dando le opportune istruzioni e autorizzazioni, o disporre altri tipi di azioni – mentre il Consolato poteva rispondere prendendo in carico il connazionale, oppure comunicava il proprio totale disinteresse, oppure non rispondeva affatto – eventualità che si verificava molto spesso con fermati per ozio e vagabondaggio o altri profili di povertà e indigenza, il cui destino veniva lasciato totalmente nelle responsabilità, e soprattutto spese, delle autorità che li aveva rintracciati.

Ottenute le istruzioni e nulla osta ministeriali, la Prefettura dava corso agli atti necessari al rimpatrio: emanava il foglio di via obbligatorio, consegnava i mezzi di viaggio eventualmente concessi, allertava la Prefettura di confine competente sul valico dal quale lo straniero sarebbe uscito e organizzava la scorta armata in caso di traduzione coatta. Giunto al confine, lo straniero veniva liberato dal fermo e indirizzato, volontariamente o forzatamente (sotto scorta sino nelle immediate vicinanze della barriera confinaria), al passaggio della frontiera, sempre attentamente vigilato dalle autorità confinarie, che ne sorvegliavano l’effettiva uscita dal territorio italiano. Questa, infine, veniva comunicata alla Prefettura di invio del rimpatriando, la quale, a sua volta, provvedeva a darne notizia al Ministero dell’Interno a Roma per la chiusura del fascicolo personale dello straniero, a suo tempo aperto con la notifica del fermo.

Questa procedura rimaneva in vigore senza sostanziali cambiamenti anche dopo l’entrata in vigore della legge di pubblica sicurezza del 1889, che ridefiniva il concetto di rimpatrio marcandone la relazione con la dimensione del fondato sospetto e, di fatto, ampliandone la possibilità di applicazione ad una più vasta gamma di fattispecie. La legge disponeva infatti che, se nei riguardi dell’individuo rintracciato fuori dal proprio circondario di residenza o di origine e fermato per sospetti, l’autorità di pubblica sicurezza «trovi fondati i sospetti, può farlo rimpatriare, con foglio di via obbligatorio, o anche, secondo le circostanze, per traduzione»(411).

Allo stesso tempo, però, l’art. 86 di quella stessa legge restringeva le ipotesi di concessione del rimpatrio gratuito e volontario ai soli casi di persone che si trovavano in condizione di indigenza per «pubbliche o private sventure» e per questo «in pericolo di cadere nel vizio o nel delitto» venivano pubblicamente sostenute nel tornare nei luoghi di origine. La misura era dunque concepita come

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azione di polizia preventiva finalizzata al benessere dell’individuo in difficoltà e della comunità nella quale tale triste condizione si manifestava (412). Con pubbliche sventure si intendevano infatti epidemie, inondazioni o altre calamità che colpivano tutti i componenti della comunità locale, occasionali o strutturali, mentre le private sventure erano tutte quelle circostanze eccezionali che incidevano sulla vita del singolo ma non dipendevano dalla sua volontà o azione (come ad esempio l’incendio del luogo di lavoro, la morte del marito per la moglie o, sottotraccia, il licenziamento). Entrambe le ipotesi erano estese anche gli stranieri – per i quali, tuttavia, rimaneva sempre aperta la facoltà di cercare il rimpatrio volontario rivolgendosi direttamente al proprio Consolato, senza necessitare per questo dell’ausilio delle autorità di P.S. italiane, se non in via eccezionale e su richiesta del Consolato stesso. In questo senso, un caso da manuale era quello di Gaetano Agius di Carmelo, inglese residente a Malta, arrestato nel porto di Catania il 4 maggio 1913 per «trasgressione al Codice per la marina mercantile (art. 316 e 317) ed all’art. 434 del Codice Penale», condannato da quel tribunale «con la legge del perdono» a tre giorni di reclusione e quindi rimpatriato, senza provvedimenti formali di sorta, in virtù dell’intervento del Consolato inglese che organizzava logisticamente e copriva economicamente il suo ritorno verso il Paese di provenienza, Malta (413). Vale però osservare che situazioni simili al caso Agius compaiono piuttosto raramente nelle carte di polizia: la più parte dei rimpatri degli stranieri che emerge dalla documentazione d’archivio, differisce sensibilmente sia da questo percorso, sia dalla lettera della norma di riferimento.

La prassi dimostrava, infatti, un’interpretazione del concetto di rimpatrio ben più ampia rispetto a quella letterale. Solo in minima parte gli stranieri fermati e rimpatriati venivano effettivamente indirizzati nello o verso lo Stato di appartenenza; nella maggioranza dei casi, la soluzione di uscita individuata prevedeva una destinazione terza, talvolta individuata in base all’espresso desiderio dello straniero, talaltra indicata a discrezione della autorità italiane e scelta probabilmente sulla base di una valutazione sull’effettiva efficacia dello scopo da conseguire. La destinazione, inoltre, veniva raggiunta con sotterfugi e modalità al limite della legalità, quando non proprio legali, che prendevano ben presto il nome di allontanamento a suo rischio e pericolo, ipotesi non contemplata da alcuna norma di legge o di regolamento, incardinata unicamente nelle pratiche di polizia e assolutamente di

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C. ASTENGO - G. SANDRI, La nuova legge…, cit., p. 529. Si trattava di una facoltà classica «esercitata dal governo che ebbe ed ha per ciò inserito in bilancio un’apposita somma»(Ivi, p. 528), ma che fino al 1889 non era disciplinata formalmente dalla legge di P.S. Nel dibattito che precedette l’approvazione della legge del 1888, l’on. Andrea Costa aveva proposto di estenderne il campo di applicazione anche alla «riconosciuta mancanza di lavoro degli operai» ma la proposta era stata categoricamente rifiutata «osservando che ciò sarebbe da una parte un pleonasmo, dall’altra un pericolo – pleonasmo, perché se l’operaio fosse in istato di indigenza e non potesse procurarsi da vivere per mancanza di lavoro rientrerebbe nella categoria degli indigenti; pericolo perché se la riconosciuta mancanza di lavoro desse diritto al rimpatrio gratuito, di questo ne fruirebbero anche gli operai non indigenti». L’on. Nocito, invece, ne proponeva la totale soppressione «altrimenti si sarebbe generalizzata la conoscenza di questa facoltà nel governo, si farebbero nascere speranze fino ad ora mal sicure e si avrebbero quindi molti allettati a tentar la sorte sapendo che in caso di insuccesso il governo avrebbe provveduto al loro rimpatrio». Anche questa proposta non veniva accolta (Ibid.).

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dubbia legalità.

Allo stesso tempo, la misura del rimpatrio dello straniero veniva resa più incisiva dalla concessione di un sussidio con una frequenza ben superiore e per una serie di ipotesi ben più ampie rispetto a quanto previsto dalla legge . Il regolamento di attuazione della legge di P.S. del 1889 aveva infatti precisato che solo in caso di rimpatriando privo di mezzi e per «motivi di ordine, di sicurezza e di moralità»(414) – condizioni che dovevano essere congiuntamente presenti – l’allontanamento potesse avvenire a spese dello Stato, secondo quanto era già stato indicato nelle istruzioni ministeriali-linee guida per il rimpatrio coatto dettate nel 1876 (415). In base a queste linee guida, il rimpatrio gratuito valeva nei riguardi degli «stranieri diretti dallo stato alla frontiera per restituirsi al loro paese» e degli «stranieri provenienti dall’estero con indennità di via, che debbono necessariamente transitare sul territorio dello stato per recarsi in patria». Due profili che letteralmente corrispondevano ai presupposti impliciti nel verbo rimpatriare il cui significato, secondo il dizionario Treccani, è «Tornare in patria (…); tornare nel comune della propria residenza»(416).

Il sussidio copriva i costi dei mezzi di trasporto (ferrovia o piroscafo) per il viaggio di rientro o, in alternativa, consisteva in un’indennità di via ordinaria (strada percorsa a piedi) pari a 5 centesimi per km (solo in caso di impossibilità fisica a proseguire a camminare il rimpatriando poteva essere autorizzato a servirsi di carro o di altro mezzo di trasporto ordinario), e di un’indennità di vitto, calcolata in base al numero di chilometri da percorrere. Il tutto doveva essere documentato su apposite tessere allegate al provvedimento di rimpatrio obbligatorio – carte tutte che dovevano sempre viaggiare insieme, perché il secondo (il rimborso) dipendeva strettamente dal primo (il rimpatrio obbligato).

Condizione indispensabile per accedere al sostegno economico, era l’esistenza di un provvedimento di rimpatrio coatto, l’avvenuto accertamento della nazionalità e della condizione di assoluta indigenza, entrambi debitamente verificati dagli uffici di P.S.. Autorizzati a concedere il rimpatrio gratuito erano Prefetti, sottoprefetti, commissari distrettuali e questori (417), previa tuttavia certezza – documentata da scambio di note formali – che la Rappresentanza diplomatica di riferimento si facesse carico effettivo del loro rimborso.

Quest’ultima esigenza era di fondamentale importanza, giacché nell’attuazione pratica, il rimpatrio dello straniero indigente costituiva sempre un gravoso problema di costi e di rimborso del pagamento delle spese di viaggio, che dava spesso luogo a screzi e dissidi con le autorità degli Stati di re-invio o

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R.D. 8 novembre 1889, n. 6517, art. 84.

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Le istruzioni sono riportate in C. ASTENGO – G. SANDRI, La nuova legge…, cit., pp. 529-537, dalle quali sono tratte le citazioni nel testo.

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Vocabolario Treccani, ad vocem, on line all’URL: http://www.treccani.it/vocabolario/.

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In via del tutto eccezionale, potevano essere autorizzati anche i Sindaci dei Comuni o gli Ufficiali di P.S. a ciò delegati dal Prefetto, ma nel solo caso di rimpatrio di cittadino italiano.

di transito (nel caso di stranieri indirizzati verso Paesi non confinanti con l’Italia), poco propense a pagare soprattutto per vagabondi e nullatenenti (ovvero la stragrande maggioranza degli stranieri rimpatriati), anche a costo di violare di accordi, trattati o convenzioni eventualmente esistenti.

Infatti, per ovviare agli inconvenienti economici sugli allontanamenti e definire regole condivise sia sulle modalità di esecuzione del viaggio di ritorno, sia sulla gestione delle spese e degli altri oneri, molti Stati erano ben presto ricorsi allo strumento degli accordi di rimpatrio per indigenti e altre categorie di concittadini. Così era stato anche per il Regno d’Italia, che aveva subito ricercato e concluso tali accordi innanzitutto con i Paesi a grande presenza di immigrati italiani (per ovvie ragioni di reciprocità), con i Paesi ai propri confini ed infine con i Paesi caratterizzati da fenomeni di forte mobilità verso l’estero. Convenzioni di questo tipo erano state stipulate, ad esempio, con la Germania (8 agosto 1873), con il Belgio (24 gennaio 1880) e con la Spagna (11 gennaio 1897) e venivano correntemente utilizzate per il rimpatrio sia volontario sia coatto degli indigenti, previo accordo fra tutte le autorità interessate.

Ciò nonostante, le difficoltà di applicazione di tali trattati erano all’ordine del giorno e si traducevano spesso in estenuanti (e talvolta infruttuosi) contenziosi diplomatici per il recupero dei crediti vantati – così frequenti da indurre più volte il Ministero dell’Interno ad intervenire presso tutte le autorità per ricordare che i rimpatri con concessione di sussidio agli stranieri avrebbero dovuto aver luogo soltanto “dopo” aver acquisito il formale impegno di pagamento spese da parte del Consolato interessato. In realtà, malgrado le ripetute sollecitazioni, i rimpatri con beneficio economico continuavano ad essere disposti anche in assenza di impegni da parte delle Rappresentanze diplomatiche estere ed anzi, erano spesso motivo di tensioni fra il Ministero dell’Interno e le Prefetture, più volte rimproverate per l’eccessiva autonomia che dimostravano nell’assumere questa decisione. Accadeva infatti che le Prefetture (e, con loro, le autorità di P.S. locali), evidentemente allo scopo di concludere il più rapidamente possibile il rimpatrio dello straniero sospetto, ne gestivano l’attuazione direttamente con i Consolati, senza seguire del tutto le dovute vie gerarchiche e cautele procedurali. L’accusa del Ministero era che proprio questa condotta fosse la causa principale dei mancati rimborsi delle spese di rimpatrio, difficilmente esigibile perché mancavano delle necessarie documentazioni giustificative. In realtà, al fondo di questa censura operava innanzitutto il timore da parte del Ministero dell’Interno che, agendo in periferia, direttamente sul territorio e sui Prefetti, le Rappresentanze estere riuscissero ad ottenere l’allontanamento dal territorio italiano di persone che altrimenti non avrebbero potuto esserlo, utilizzando il rimpatrio come forma mascherata di estradizione – pratica rischiosa soprattutto in relazione ai reati di natura politica e di opinione – e aggirando tutti gli eventuali dinieghi che i canali ufficiali avrebbero potuto opporre.

In secondo luogo, più concretamente, vi era il timore di una strategia deliberata da parte delle Rappresentanze estere per conseguire il proprio scopo (il rientro di un connazionale) senza assumersi

alcun obbligo verso lo Stato italiano, soprattutto dal punto di vista economico, ma, non secondariamente anche di relazioni estere, aggirando così anche gli impegni eventualmente assunti tramite convenzione.

Da ultimo, vi era il timore che la prassi finisse per apparire misura generalizzata e normale, quasi una sorta di “diritto” accampato in particolare dallo straniero vagabondo e ozioso per farsi rimpatriare a spese del governo italiano e non, come sarebbe dovuto avvenire in caso di mancata presa in carico consolare, a spese proprie e sotto la propria personale responsabilità.

Era quanto appariva chiaro, ad esempio, in una circolare della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del 20 gennaio 1902, firmata dal capo della polizia Francesco Leonardi, che interveniva (nuovamente) sui rimpatri gratuiti, anzitutto puntualizzando che le convenzioni in corso con i governi stranieri

«non danno ai detti Consoli il diritto di domandare il rimpatrio dei loro connazionali. In base alle succitate stipulazioni il rimpatrio può solo aver luogo, quando la domanda sia fatta dal Governo del Re in via diplomatica, e la medesima sia stata accolta dal Governo cui il rimpatriando appartiene.

Vogliano le S.S.L.L. tenere presente tale considerazione nell’esame delle domande di rimpatrio che venissero loro presentate, avvertendo che l’accoglimento di queste potrà talvolta essere consigliato dalla convenienza di allontanare dal regno per ragioni di Pubblica sicurezza gli stranieri cui le richieste si riferiscono, od anche da speciali circostanze o riguardi internazionali, ma non mai dal diritto che abbiano gli stranieri stessi, per lo più oziosi o vagabondi, di essere rimpatriati a spese del nostro Governo. E bene inteso che nei casi dubbi si dovranno chiedere istruzioni a questo Ministero»(418).

Leonardi, per quanto consapevole dell’efficacia di tale prassi di allontanamento e della sua effettiva funzionalità rispetto agli scopi di polizia e di tutela dell’ordine pubblico che si prefiggeva, sollecitava tuttavia i prefetti ad adottare il provvedimento in funzione della reale opportunità contingente, ovvero della corretta relazione con il Consolato, della facile solvibilità successiva e dell’effettiva valutazione del bilanciamento di interessi fra individuo (lo straniero), esigenze di pubblica sicurezza e costi complessivi della procedura.

La circolare del 1902 metteva in evidenza quanto si fosse radicato il ricorso al rimpatrio come misura di allontanamento tout court soprattutto per la sua duttilità e facile adattabilità alle diverse circostanze, al quale si faceva ricorso in particolare come alternativa rapida e meno complessa rispetto all’espulsione anche in casi nei quali sarebbe stato logico e appropriato, dal punto di vista della norma, utilizzare questo secondo strumento.

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ACS, MI, PS, PG 1907-1909, b. 86, anno 1907, fasc. “Rimpatrio stranieri indigenti”, Circolare del Ministero dell’Interno - Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, div. IV, sez. 1, n. 11900-32-189022 del 20 gennaio 1902.

La preferenza accordata al rimpatrio aveva una serie di spiegazioni intrecciate: era un provvedimento di adozione più rapida rispetto all’espulsione, era forse più efficace, di certo analoga nel risultato e sicuramente era meno gravido di implicazioni diplomatiche e di rischi nelle relazioni internazionali fra Stati. A differenza dell’espulsione, infatti, il rimpatrio non privava sul lungo periodo il destinatario del diritto/possibilità di rientrare e soggiornare in Italia e, soprattutto, per la sua attuazione non entravano in gioco quegli obblighi internazionali che, stando alle consuetudini o ai trattati bilaterali, si correlavano all’espulsione – provvedimento che richiedeva assolute certezze di identità personale, esatta individuazione della nazionalità e di assenza di cause ostative e per la cui attuazione poteva essere richiesto un complesso iter di comunicazioni e autorizzazioni fra Stati diversi. Al contrario, il rimpatrio poteva essere definito con maggior elasticità, adattato e applicato ad una ampia casistica di situazioni perché ancorato al sospetto, non era vincolato da eventuali motivi ostativi, non richiedeva