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ALLONTANARE

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IL FORMARSI DI UNA DISCIPLINA DELLA MOBILITÀ

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TALIA POST

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UNITARIA

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«…lei non è del Castello, lei non è del paese, non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente è un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre tra i piedi, uno che vi procura un mucchio di grattacapi, che vi costringe a sloggiare le fantesche, che non si sa quali intenzioni abbia…».

F.KAFKA, Il Castello

S

TRANIERI IN

I

TALIA A FINE XIX SEC

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«Cavour durante una riunione nel circolo dei nobili di Torino vantò che nel Piemonte la polizia era rispettosa dei principi liberali quanto in Inghilterra. Era presente tra gli invitati un giovane giornalista inglese. Racconta una cronaca dell’ottocento che egli avanzò verso Cavour e disse: “Signor capo del governo per tagliar corto alle discussioni accademiche facciamo una scommessa: prima di notte senza violare alcuna legge sarò imprigionato”.

Cavour sapeva che agli inglesi piaceva scommettere e non volle mostrare che un piemontese si tirava indietro. Dunque, “per onor di firma”, accettò.

La cronaca dà questo seguito: “Il giovane inglese, uscito di là, si truccò mirabilmente da cialtrone, indi, a sera inoltrata, si ridusse in una bettola di piazza Italia dove bazzicava la gente di malaffare. Bevette vistosamente, poi, quando gli parve di parere brillo, estrasse, per pagare, un involto contenente alcuni biglietti da mille. Tanto bastò. Venne adocchiato, denunziato, ghermito. Quando fu in carcere, mandò al suo contraddittore due righe di lettera: “Signor conte: sono in prigione senza aver fatto niente, venga a liberarmi”»(290).

Pur avendo ottenuto il suo scopo, immediato (la scommessa con Cavour) e ideale (dimostrare le brutture del sistema di polizia piemontese), il giornalista si era, come minimo, reso colpevole della condotta prevista dall’art. 449 del Codice Penale sardo che metteva in relazione aspetto, comportamento e disponibilità di beni o denari con mendicanti, oziosi, vagabondi o altre persone sospette: questi, infatti, «saranno punite col carcere da tre mesi a due anni se si troveranno presso delle medesime generi, od altri effetti, o somme di denaro non confacenti al loro stato e condizione, quando non ne giustifichino la legittima provenienza». In quanto inglese, poi, il giornalista protagonista

290

dell’aneddoto avrebbe potuto incappare anche nei rigori dell’art. 439 del Codice Penale che disponeva l’espulsione dei vagabondi stranieri.

La polizia, per l’occasione, non sembrava aver commesso particolari abusi (a meno che ghermito non implicasse altro) limitandosi ad applicare correttamente una seppur problematica legge. Il problema, nello specifico episodio, non era tanto la polizia (che, anzi, ne usciva con grande efficienza, avendo catturato un reo con estrema rapidità!) quanto una legge penale che prevedeva l’arresto e una dura pena per qualcosa che dipendeva dalla confacenza di stato e beni ostentati.

Qualche tempo dopo questi fatti il nuovo Stato unitario – costituito con il fondamentale contributo proprio del suo co-protagonista, il conte di Cavour – si costituiva in continuità istituzionale con il vecchio regno sabaudo, ereditandone la monarchia, l’impianto costituzionale, organizzativo e burocratico, nonché il sistema di leggi, incluse quelle penali e di polizia e la forma mentis che le sottendevano.

Dal punto di vista organizzativo e ideologico, le politiche di sicurezza pubblica che lo Stato unitario ereditava dall’esperienza piemontese si imperniavano su una polizia ramificata sul territorio, centralizzata in un’apposita amministrazione posta alle dipendenze del Ministero dell’Interno sul modello della polizia francese. Era una polizia nella quale alle forze di origine piemontese si erano aggiunti in Lombardia gli arruolamenti volontari di ex-poliziotti asburgici, dalla fama di grande efficienza e di origine italiana, facilmente integrabili con le forze già esistenti. Al contrario, l’annessione delle regioni meridionali comportava una sostanziale discriminazione degli ex-poliziotti già in forza della polizia borbonica, generalmente discriminati perché ritenuti troppo compromessi con le repressioni politiche attuate dal precedente regime e non venivano inclusi nella nuova forza nazionale (291). Nel complesso, la polizia godeva di poco credito e affezione pubblica e a lungo sarebbero risultati vani tutti i tentativi governativi di “nobilitarla” – anche a causa di scelte logistiche che la rendevano un corpo dotato di pochi mezzi, frequentato da uomini di bassa cultura e scarsa professionalità soprattutto ai livelli più bassi, quelli a più diretto contatto con la popolazione e il territorio.

Il principale compito che l’esecutivo affidava a questa polizia era il controllo delle cosiddette classi pericolose, alle quali era dedicata una legislazione che presentava caratteri di forte continuità con il periodo assolutistico

«il cui contenuto si sostanziava nella limitazione della libertà personale, attuata senza processi o condanne.

All’identificazione, attraverso le norme, di intere categorie di persone sospette, nei cui confronti potevano essere applicate, molto spesso indiscriminatamente, misure quali l’ammonizione, si

291

aggiungevano le disposizioni che disciplinavano attentamente le tradizionali attività soggette alla vigilanza di polizia»(292).

Si trattava di una polizia orientata più sulla repressione che sulla prevenzione,

«poco propensa a risolvere le devianze alla fonte, come dimostrava la tendenza quasi ossessiva a dividere la società in “classi pericolose” e “classi non pericolose”. Sarà anzi proprio questa la principale destinazione d’uso della polizia, impiegata in una sorta di “chirurgia sociale” realizzabile solo attraverso una conoscenza approfondita della società»(293).

Non causalmente, la legge di riferimento per la pubblica sicurezza (L. n. 1339 del 26 febbraio 1852) in vigore al momento dell’avvio del processo di unificazione «era per lo più un’elencazione dei soggetti ritenuti tradizionalmente pericolosi – oziosi, vagabondi, ambulanti, inquilini e ladri di campagna – paradigmatica dell’epoca»(294).

La successiva legge per la pubblica sicurezza n. 3720 del 13 novembre 1859 – legge «di particolare rilievo, in quanto fu essa che, successivamente, venne gradualmente estesa a tutte le altre provincie italiane man mano che si costituiva l’Unità nazionale, e venne a costituire la base dei futuri e moderni ordinamenti»(295) – confermava il principio della dipendenza dell’amministrazione della P.S. dal Ministero dell’Interno e dello svolgimento dei compiti prevalentemente repressivi, affidati ad un sistema gerarchico territoriale articolato su Governatori, Intendenti, Questori (uffici istituiti nei capoluoghi di provincia con popolazione superiore a 60.000 abitanti), Ispettori, Delegati, Incaricati di P.S., integrato, laddove necessario dai Sindaci dei Comuni.

Con la successiva legge di unificazione amministrativa del Regno d’Italia n. 2248 allegato B del 20 marzo 1865, governatori e intendenti acquisivano la nuova denominazione di Prefetti e Sottoprefetti. I primi decenni di vita del Ministero dell’Interno dell’Italia unita conoscevano un susseguirsi continuo di provvedimenti organizzativi, spesso privi di un ben definito disegno organizzativo, che turbavano non poco la stabilità degli uffici e l’attuazione dei servizi da essi dipendenti (296). Di queste incertezze e forti ricambi risentiva anche la polizia, intesa come funzione positiva diretta alla protezione dei cittadini, che costituiva un settore fondamentale del Ministero dell’Interno nella sua connotazione di pubblica sicurezza. I continui cambiamenti al centro si riverberavano in tutte le strutture e attività sul

292

R. CAMPOSANO, Patria e Stato. La polizia prima e dopo l’Unità d’Italia, inserto speciale di Polizia Moderna, marzo 2011, p. III.

293

M. BONINO, La Polizia Italiana…, cit. p. 81.

294

Ibid.

295

G. RENATO, Gli ordinamenti della pubblica sicurezza, Amministrazione Civile, a. V, 1961, n. 47-51, p. 338.

296

Su queste vicende, cfr. G. TOSATTI, Storia del Ministero dell’Interno. Dall’Unità alla regionalizzazione, Bologna, Il Mulino, 2009.

territorio, contribuendo così a mantenere in piedi tutte quelle contraddizioni (scarsa professionalità, ignoranza, metodi bruschi e coercitivi, facile corruttibilità, palese iato fra funzionari e guardie) che venivano indicate come cause principali della scarsa considerazione che la comunità italiana riservava alla propria polizia.

È utile ricordare i passaggi generali di queste riforme “al centro”, che riguardavano anche le strutture amministrative alle quali era affidata la gestione della tematica stranieri.

Il R.D. 9 ottobre 1861, n. 255 creava la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, retta da un Direttore generale e articolata in due Divisioni, una per il personale e una per la polizia amministrativa e giudiziaria, alla quale erano affidate anche le competenze sugli stranieri.

Questa struttura non era destinata ad una vita semplice essendo soggetta a ripetute abolizioni e ricostituzioni, a partire sin dal 1863, quando veniva soppressa e le funzioni di pubblica sicurezza assegnate alle due Divisioni che la componevano, poste ora alle dirette dipendenze del segretariato generale del Ministero (297).

Nel 1864 (298) veniva ricostituita Direzione generale di P.S. – che nel 1866 assumeva la denominazione di Direzione superiore di pubblica sicurezza – retta da un Direttore superiore e articolata in due Divisioni. Due anni più tardi, essa veniva abolita e le sue funzioni assegnate alla Divisione seconda-polizia giudiziaria e amministrativa (alla divisione prima rimanevano invece le competenze relative al personale) (299) che nel 1870 veniva rinominata in Pubblica sicurezza e, nel 1877, divenuta responsabile anche sul personale di P.S..

Una svolta si aveva nel 1880, quando tutto il sistema di polizia dello stato liberale veniva riordinato, probabilmente in conseguenza dell’attentato al re ad opera dell’anarchico Passanante: una congiuntura (riorganizzazione a seguito di attentato) non infrequente nella storia della polizia italiana, giacché anche

«sarebbero stati ancora gli attentati degli anarchici nel 1894 e quelli diretti contro Mussolini nel 1926 a determinare importanti riorganizzazioni delle strutture amministrative, oltre a gravi inasprimenti delle misure preventive di polizia e restrittive della libertà personale, introdotti nell’età crispina e nel periodo fascista»(300).

Grazie ad una grande opera di riorganizzazione generale condotta dal capo della polizia Giovanni Bolis, servizi di pubblica sicurezza venivano ripartiti in due Divisioni: Seconda per la polizia giudiziaria e la polizia amministrativa e Terza per il personale di pubblica sicurezza, affiancate da un 297 R.D. 4 gennaio 1863, n. 1194. 298 Con R.D. 30 ottobre 1864, n. 1980. 299 Con R.D. 23 aprile 1868, n. 4551. 300

Ufficio per la trattazione degli affari politici che assumeva poi la denominazione di Ufficio riservato competente sugli affari politici e riservati, la tutela dell’ordine pubblico, la prevenzione e repressione dei reati politici, il coordinamento del controllo sull’attività dei partiti, delle associazioni e della stampa, la sorveglianza delle persone sospette e la sorveglianza degli stranieri (301).

Nel 1887 (302), infine, veniva definitivamente istituita la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza retta da un Direttore generale (proveniente in genere dalla carriera Prefettizia), che nel 1919 veniva ripartita in cinque divisioni – Gabinetto e Servizio Ispettivo, Affari Generali e Riservati (che subentrava all’Ufficio riservato), Polizia Giudiziaria, Polizia Amministrativa e Sociale, Personale di Pubblica Sicurezza – affiancate da un Ufficio informazioni.

Al termine di queste riorganizzazioni, gli stranieri venivano affidati alle competenze della Direzione Affari Generali e Riservati; l’esecuzione delle espulsioni rimaneva invece a lungo assegnata alla Polizia giudiziaria, per passare quindi sotto il controllo della Direzione Affari Generali e Riservati - Sezione terza.