Co-esistenza: essere insieme, essere in comune, essere in società
2. Come criticare la “società dello spettacolo”?
Nel capitolo 8 di Essere singolare plurale Nancy torna sul ritrarsi del politico e del religioso come problema dell’essere-insieme: quello che bisogna chiedersi è se, una volta abbandonato a se stesso e privato di ogni forma di identificazione e rappresentazione, l’essere-insieme sia in grado di sostenere tali assenze e se la sua “sostanza” consista solo nella proprio spaziatura. Si passa dunque all’analisi delle due forme simultanee in cui quel ritrarsi si presenta.
Da una parte abbiamo il ritrarsi del teologico-politico nello spazio del diritto, e tale passaggio divide il “politico” stesso in due: l’astrazione formale del diritto e la realtà del rapporto di forza; qui la Legge è sempre Legge di un Altro o in quanto Altro, e l’autore a questo punto tratta separatamente i casi di tale Legge in un regime teologico e in uno ateologico:
«[Tale Legge può fondare] in un regime teologico, un “divieto della rappresentazione”, che presuppone la natura sacra dell’Altro, e con essa tutta un’economia del sacro, un’economia sacrificale, gerarchica e in fondo ancora ierofantica, anche se la teofania resta negativa e la teologia altrettanto: un accesso alla Presenza, o addirittura a una “superpresenza”, viene comunque preservato. In un regime ateologico, invece, il divieto diventa una sconfessione
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della rappresentazione: l’alterità della legge ricopre, rimuove o rinnega la propria stessa origine, e il proprio fine, nella presenza singolare di ciascun altro. E in tal modo l’istanza di un “impresentabile”, o “inimmaginabile”, rischia di rivelarsi assai oppressiva e terrificante, se non terroristica, esponendo tutti all’angoscia di una Mancanza originaria. L’”immagine”, viceversa, può a questo punto rivelarsi qualcosa che consente di aprirsi al “con”, che diventa il bordo e il limite del suo tracciato»48.
Quindi non si vuole negare il diritto stesso, ma se ne vuole sottolineare l’”anarchia originaria”, il fatto che nasca dall’esistenza ingiustificabile: per Nancy la subordinazione della politica ai diritti dell’uomo è già sempre una subordinazione surrettizia dell’uomo all’Altro, sicché il richiamo all’”etica” diventa nella maggior parte dei casi «un’impresentabilità trascendentale della presenza più concreta».
Dall’altra parte del ritrarsi del teologico-politico abbiamo il trionfo della rappresentazione, senza più rimando ad un’origine ma solo al vuoto della
propria specularità: resta la “società” posta solo di fronte a se stessa, un singolare plurale che si perde in un gioco di specchi e che rende equivalenti tutte le rappresentazioni di sé che si offre ormai al proprio stesso consumo. Questa situazione è stata definita “società dello spettacolo” dal così detto, appunto,
Situazionismo49, movimento post-marxista o meta-marxista.
48 Ivi, p. 68.
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Passiamo quindi, seguendo la cronologia del capitolo, all’analisi che l’autore compie di tale movimento.
Riprendendo termini marxisti, il Situazionismo afferma che «il “feticismo della merce” – cioè il dominio del capitale – è giunto a compimento con la mercificazione generale dei feticci, ossia con la produzione e il consumo di “beni” materiali e simbolici (tra cui, in primo luogo, l’ordinamento del diritto democratico) che hanno tutti il carattere d’immagine, d’inganno o di sembiante […] La società dello spettacolo è quella che porta a compimento pieno l’alienazione, grazie a un’appropriazione immaginaria dell’appropriazione reale […] Ciò di cui si fa commercio universale è per l’appunto una rappresentazione dell’esistenza come invenzione e come evento appropriante di sé. Un soggetto della rappresentazione – cioè un soggetto ridotto alla somma o al flusso delle rappresentazioni che acquista – viene ad occupare il posto e il ruolo di un soggetto dell’essere e della storia»50. Il Situazionismo arriva a
concludere due cose: che il marxismo non ha afferrato il momento dell’appropriazione simbolica nel giusto modo (confondendolo con quello dell’appropriazione produttrice, o pensando che questa dovesse auto-produrre se stessa per trasformarsi in appropriazione simbolica, mentre infine essa si è prodotta come simbolizzazione della produzione stessa), e che le “scienze umane” hanno finito per essere l’autentico supporto di ciò che viene definito come “spettacolo” generalizzato ( per cui la “mediatizzazione” consiste nel fatto
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che la società offre una rappresentazione di sé sotto forma di simbolicità, dunque vi è una sorta di psico-sociologia generalizzata che si sostituisce all’assunzione di un’immagine o di un’identità dell’essere-sociale). Quello che vede il Situazionismo è la miseria dello “spettacolo”, che consiste in «una co- esistenza il cui co- non rinvia più a qualcosa grazie al quale l’esistenza possa simbolizzare con se stessa […] L’essere-insieme è definito allora dall’essere- insieme-allo-spettacolo, e questo essere-insieme interpreta se stesso come un calco inverso di quella rappresentazione di se stesso che esso crede di potersi dare come originaria (e perduta)»51. La reazione, la replica allo “spettacolo”
consiste allora nella libera creazione della “situazione”, evento appropriante sottratto per un momento alla logica dello spettacolo; così il Situazionismo, movimento che proviene dall’arte, rinvia ad un paradigma della creazione artistica nemico di ogni forma di estetismo.
Ma, a questo punto, Nancy ritiene necessaria una critica della critica.
Secondo l’autore, l’intuizione del Situazionismo era corretta: vi è una società esposta solo a se stessa, che rivela il proprio essere-sociale come nudo, senza riferire il suo essere-insieme ad alcun Senso esterno ad esso; questa intuizione, però, è stata interpretata come “regno dell’apparenza”, come sostituzione dello spettacolo alla presenza “autentica”, dimostrando dunque che il situazionismo era ancora radicato nella tradizione filosofica dello svilimento delle apparenze in nome di una realtà autentica. Diventa necessario chiedersi «fino a che punto
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la critica dell’alienazione non corra il rischio di restare a sua volta compromessa con un’altra alienazione, simmetrica alla precedente: quella che io tento di definire col riferimento a ogni sorta di Altro»52. Bisognerà allora che la critica
(teoria e prassi) si regga su un principio diverso, ed ecco che si torna a ribadire che questo principio deve consistere nell’ontologia dell’essere-gli-uni-con-gli-altri, un’ontologia per tutto il mondo: prima di tornare a fare critica si dovrà capire se la critica stessa non possa fare altro che restare impantanata nel modello classico della realtà contrapposta all’apparenza e dell’unità contrapposta alla pluralità, o se possa trovare un altro atteggiamento che non sia di rassegnazione; inoltre, si dovrà cercare di capire se lo spettacolo rientri nella dimensione costitutiva della società, e come conseguenza ne deriverà una nuova concezione dell’arte. «In definitiva, diventa urgente sapere se la critica della società è svolta a partire da un presupposto che non ha nulla di “sociale” (a partire da un’ontologia dell’essere-tout-court, se così possiamo dire), oppure a partire da un’ontologia dell’essere-in-comune, cioè dell’essenza singolare plurale dell’essere»53.