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Fare filosofia nell’abbandono del senso

Il confronto con Heidegger

1. Fare filosofia nell’abbandono del senso

«Heidegger certo determina una certa chiusura della metafisica che ai suoi occhi si riassume nel nome di Nietzsche, ma al tempo stesso indica il compito del pensiero come pensiero di quel limite in cui egli stesso si colloca attraverso tale interrogazione. Heidegger (ri)apre in filosofia la possibilità della questione proprio quando i vari strutturalismi ai loro inizi cominciavano invece a decretarne la superfluità»75. Con queste parole Nancy rende all’autore tedesco il

merito non solo di aver affrontato l’annuncio nietzschiano della fine della

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filosofia, ma soprattutto di aver pensato per primo una filosofia al limite del pensiero stesso, quella nell’abbandono del senso; e proprio da qui si deve ripartire.

Il vuoto aperto dalla morte di Dio è incolmabile, il ritorno al Senso è impossibile (sia esso quello vecchio o uno nuovo da inventare): bisogna sottrarsi alla

tentazione dell’oltrepassamento metafisico della condizione umana,

concentrarsi su di essa ripensandola proprio nei termini inevitabili della sua finitezza e del suo abbandono, fino ad inaugurare l’ek-sistenza come vero senso, fondato sulla singolare pluralità dell’essere.

Si deve dunque “fare esperienza” nell’accezione heideggeriana dell’essere abbandonati dal senso, ovvero si deve esser capaci di esporsi a tale abbandono, divenendo così passibili di senso, pronti a riceverlo ed accoglierlo: «L’uomo abbandonato […] non è più autore del senso, né conquistatore o scopritore, ma è semplice luogo di una inscrizione, di una venuta, di una passibilità che è apertura alla possibilità dell’evento»76.

Ma che significa “abbandonato”? Che cosa si intende precisamente con “abbandono” in Heidegger, prima, e in Nancy, dopo?

Il termine Gelassenheit compare per la prima volta in Heidegger nella conferenza del 1930 Vom Wesen der Wahrheit (Sull’essenza della verità, testo pubblicato solo tredici anni più tardi), e verrà utilizzato sporadicamente fino ad una trattazione

76 S. Piromalli, Vuoto e inaugurazione. La condizione umana nel pensiero di Marìa Zambrano e Jean-

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specifica nel colloquio tra uno Scienziato, un Erudito e un Maestro77: i tre

peripatetici sono in cammino alla ricerca di ciò che sta alla base del pensiero, ciò da cui esso scaturisce, e giungono alla conclusione che solo “volgendo lo sguardo via dal pensiero” sarà possibile coglierne l’essenza stessa; ciò significa (se è vero che nella tradizione che va dagli antichi greci fino a Kant il pensiero è prima di tutto rappresentazione e volontà) rinunciare alla volontà e passare ad un atteggiamento di abbandono da intendersi come un “restare in attesa”. L’attesa qui assume un significato diverso da quello presente in Essere e tempo: se là indicava ancora un esercizio di volontà rappresentativa associandosi all’aspettativa, qua sta per un vero e proprio lasciare-aperto ciò che è atteso, senza rinchiudere l’apertura del possibile in qualche predeterminazione. Da ciò i tre interlocutori arrivano a definire l’abbandono come un “lasciarsi ricondurre all’Aperto”, essendo noi «già da sempre appartenenti a quell’Apertura che è anche ciò di cui restiamo incessantemente in attesa»78; allora l’essenza del

pensare starà proprio in questo “lasciarsi-ricondurre-nella-prossimità” dell’Aperto.

Da qui riparte Nancy, e in modo radicale:

77 M. Heidegger, Per indicare il luogo dell’abbandono. Da un colloquio sul pensare lungo un sentiero tra

i campi, in Id., L’abbandono, o anche in M. Heidegger, Colloqui su un sentiero di campagna (1944/45), tr. it. di A. Fabris e A. Pellegrino, Il Melangolo, Genova 2007.

78 S. Piromalli, Vuoto e inaugurazione. La condizione umana nel pensiero di Marìa Zambrano e Jean-

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«L’essere abbandonato ha già cominciato a costituire, senza che noi lo sappiamo, una condizione ineludibile per il nostro pensiero, e forse persino la sua condizione unica»79.

Dunque il pensiero e l’esistenza umana sono già esposti all’abbandono del senso, al venire meno di ogni categoria e trascendentale: per questo la dialettica è costretta ad una cessazione o sospensione dei discorsi, dal momento che per definizione la dialettica è «quella che non abbandona niente e mai, quella che riunisce, che riannoda e che riprende senza fine». Se a partire da Parmenide attraverso la dialettica filosofica si nominava l’essere in molteplici modi (alla maniera dell’aristotelico pollakôs légetai) cercando di coglierne il Senso e la Verità o, meglio, di definire l’Essere stesso come il Senso e la Verità, con l’abbandono del senso si ha la sconfitta della dialettica e quindi un essere senza identità: questo essere svuotato si sottrae alla comprensione e al tentativo parmenideo di riduzione al pensiero abbandonandosi al linguaggio stesso e mostrando come «l’essere non è altro, non è mai stato altro – se è mai stato – che il pollakôs legómenon, il detto-in-molteplici-modi (il detto, o meglio, secondo il greco di Heidegger, il greco della filosofia, o del pensiero, il raccolto, e il lasciato-

disteso, il disponibile)»80. La cosa da sottolineare a questo punto è che

l’abbandono comunque non è il nulla, perciò il vuoto dell’essere abbandonato non nasconde affatto una deriva nichilistica ma, come abbiamo detto, un

79 J.L. Nancy, L’essere abbandonato, tr. it. di E. Stimilli, appendice de L’imperativo categorico, p. 149.

42 pollakôs, un’abbondanza, sottraendosi alla logica dell’unità in cui era stato forzatamente chiuso ed aprendosi ad una “profusione di possibili”:

«L’abbandono dell’essere, l’essere abbandonato di Nancy ci consegna dunque un vuoto inaugurante, un vuoto che offre se stesso nell’abbandono, un abbandono che è apertura e proliferazione di possibilità d’essere, germinazione plurale e disseminazione di sensi»81.

A questo punto, nel saggio L’essere abbandonato, troviamo un significativo riferimento all’ecce homo nietzschiano messo in relazione al grido del Cristo sulla croce: quel che si vuole mettere in luce è la condizione di irreparabile abbandono in cui l’umanità è gettata, intesa da un lato nella sua ecceità (cioè nel suo solo esser-ci, spogliato di tutto il resto) e dall’altro come segno dell’amore divino (poiché tutto il cristianesimo può esser visto secondo Nancy come una “dialettizzazione” dell’abbandono, e «è proprio nella possibilità dell’abbandono che si conosce quella dell’amore»). Lungi dal muoversi verso la realizzazione di un Senso (e qui sta la fine della Storia, assieme a quella della metafisica), l’esistenza nel tempo vuoto dell’abbandono è come sospesa, senza più fondamenti stabili e definitivi, e traccia una spirale dall’apertura che sempre si rinnova e che mai giunge ad un compimento; niente di tutto ciò viene scelto dal soggetto: esso è abbandonato nel senso che è consegnato al bando, legge sovrana dell’esistenza, e in questo non sta la sua scelta ma la sua condizione originaria ed

ineludibile.

81 S. Piromalli, Vuoto e inaugurazione. La condizione umana nel pensiero di Marìa Zambrano e Jean-

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«Ora Nancy, diversamente da Heidegger (con cui è pur sempre criticamente in dialogo), non ritiene che la filosofia debba solo “provvisoriamente” trattenersi nella dimensione esistenziale dell’uomo, interrogando l’esser-ci allo scopo di andare oltre, verso un’ontologia dell’essere […] per Nancy parlare di essere significa parlare dell’esistenza, del suo dispiegarsi nell’assenza di fondamento, del suo abbandonarsi e inaugurarsi nel vuoto del Senso, il vuoto lasciato aperto dalla morte di Dio»82.

Nell’odierna condizione di esistenza la filosofia deve trovare un modo per pensare questo abbandono, per sostenere questo vuoto senza cercare di colmarlo, ma restando esposta sul limite: c’è bisogno di comprendere che il pensiero dell’assenza di soluzione è il luogo stesso del senso, e tale pensiero può essere solo un pensiero finito che non cerchi più né di fornire un significato né di analizzare le condizioni che lo rendano possibile.

«Si tratta di avviare la filosofia ormai ad una diversa pratica, che consiste in una certa modalità di “descrivere dal di fuori”. Un “descrivere dal di fuori” che costituisce così il movimento inverso di una doppia pratica filosofica. Da una parte essa si traduce infatti nella concreta azione del parlare sulla fine del pensiero filosofico come il limite interno al suo significato stesso. Ma dall’altra si tratta – nel farla finita appunto con la “descrizione”, dall’interno della filosofia, di significati universali e presupposti già dati – di esporre la filosofia stessa al suo “fuori”, ossia alla “inscrizione”, sulla sua “pelle” per dir così, degli

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eventi del mondo nella loro ormai non più universalizzabile singolarità. Ma con questa avvertenza: che tale esercizio di “escrizione” (descrizione “del di fuori/dal di fuori”) non definisce semplicemente un nuovo orizzonte della filosofia; esso non è un semplice cambiamento dialettico atto a rinnovare la possibilità della filosofia. La finitezza non è una negatività che viene tolta e conciliata. È invece un evento che ferma l’attenzione “dentro” e “sul” suo stesso confine. L’orizzonte perduto del significato diventa così lo spazio in cui la sua

stessa assenza si espone»83. La finitezza, dunque, non riguarderà né

l’immanenza né la trascendenza, ma «l’”essenziale” molteplicità e l’”essenziale” non riassorbimento del senso, o dell’essere»84: nell’incessante sottrarsi della

finitezza si inscrive il movimento dell’esistenza, finita, della quale il senso si dà nell’apertura ai sensi finiti plurali. Il compito di un pensiero finito sarà quello di «esporsi al finito del senso», il senso (come esplicitato in Essere singolare plurale) che noi siamo: come «in questo momento il mondo non ha più senso, ma è il senso»85, così «noi non “abbiamo” più senso perché siamo noi stessi il senso»86.

Implicito in questo “noi” il rimando all’essere-in-comune (che ho già analizzato nei due capitoli su Essere singolare plurale e che analizzerò nella seconda parte del presente capitolo) e alle dinamiche della comunità.

83 D. Calabrò, Dis-piegamenti. Soggetto, corpo e comunità in Jean-Luc Nancy, Mimesis, Milano 2006,

p. 17.

84 J.L. Nancy, Un pensiero finito, p.18.

85 J.L. Nancy, Il senso del mondo, F. Ferrari, Lanfranchi, Milano 1997, p. 18.

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