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Comunità di corp

4. Corpo e pensiero

Dice Nancy nel suo Corpus: «L’ontologia del corpo è l’ontologia stessa: l’essere non è in essa qualcosa che preesiste o soggiace al fenomeno. Il corpo è l’essere dell’esistenza. […] I corpo ontologico non è stato ancora pensato. […] Forse il “corpo ontologico” può essere pensato solo dove il pensiero tocca la dura estraneità, l’esteriorità non pensante e non pensabile di questo corpo. Ma soltanto un tale toccare, un tale tocco, è la condizione di un pensiero autentico». Ci vuole un nuovo pensiero, dunque, un pensiero che si mantenga spoglio “di

57 J.L. Nancy e F. Ferrari, La pelle delle immagini, p. 9.

58 D. Calabrò, Jean-Luc Nancy: alla frontiera di un pensiero a venire, introduzione de Il peso di un

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significati dati e di figure già tracciate”: occorre raggiungere una nudità ontologica, occorre uno svestirsi del pensiero.

Il denudamento del pensiero vede la duplice dimensione di “intrusione/esposizione”, e ha due momenti fondamentali: la “chenosi”, in cui si ha lo svuotamento dei fini e dei principi nell’accettare che il senso stia nell’apertura e nell’incompiutezza del presente, abbandonando la volontà di andare “al di là” (giacché quell’”al di là” è già nell’inesauribilità del presente); l’”ateologizzazione”, l’abbandono degli dei e di quella dimensione “mistica” che da sempre comporta il rifarsi a vecchi modelli che possano riempire l’apertura del qui e ora (quell’assenza di finale che da sempre tutti i totalitarismi e gli identitarismi cercano di colmare), ed il rimpianto per una pienezza perduta in realtà mai esistita. «Nel momento in cui si sveste del sapere, si sottrae a se stesso come atto intellettuale, il pensiero non incontra dunque la mistica […] ma l’etica: si fa rapporto, relazione all’altro, apertura del senso e non sua fissazione. La nudità, il sottrarci l’uno all’altro e a noi stessi, è ciò che ci accomuna, che ci lega e insieme mette al bando ogni appropriazione, ogni identificazione e ogni generalizzazione. Il rapporto nasce, sembra dire Nancy, dove il sapere fallisce, dove emerge un resto, o un eccesso: è questo il luogo (nascosto) del pensiero, la cui responsabilità è quella di non concludere. Il pensiero allora deve trattenersi in questa nudità e mantenere la pluralità e l’irriducibilità a un senso unico»59. Il

pensiero nudo è il pensiero finito, il cui compito è quello di “esporsi al finito del

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senso”60: la finitezza del pensiero determina il suo peso (la sua pesantezza, da

cui non può mai essere scisso: i pensieri sono sempre gravosi), ed esso indica la finitezza stessa, il peso della cosa che eccede il pensiero gravando all’esterno; così il senso «ha bisogno di uno spessore, di una densità, di una massa e dunque di un’opacità, di un’oscurità attraverso cui esso dà presa, si lascia toccare come senso precisamente là dove esso si assenta come discorso. Ora, questo là è un punto materiale, un punto pesante: la carne di un labbro, la punta di una penna o di uno stilo, ogni scrittura in quanto traccia il bordo del linguaggio e il suo debordare. È il punto in cui ogni scrittura si escrive, si deposita fuori del senso che essa inscrive, nelle cose il cui senso è tenuto a formare l’inscrizione. E questa escrizione è la verità ultima dell’inscrizione. Assente in quanto discorso, il senso viene in presenza nel cuore di questa assenza, come una concrezione, un ispessimento, un’ossificazione, un indurimento del senso stesso. Come un appesantimento, un peso improvviso, squilibrante del pensiero»61.

Si dovrà dunque considerare che oggi non si tratta più di pensieri su o a proposito di oggetti, ma che si tratta piuttosto di un pensiero che porta su di noi il peso di “un mondo privo di scappatoie”: nessuna trascendenza ma una

transimmanenza, una situazione in cui la fisica fa sentire sulla metafisica il suo peso, peso della materia, del corpo… Il corpo:

60 J.L. Nancy, Un pensiero finito, p. 61.

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«È poi così “estraneo alla filosofia” come dice lei? Vorrei rifletterci meglio. Non è

cominciato tutto con e come un corpo esposto: Socrate che si gratta la gamba nella sua prigione

– e l’amante del Fedro il cui desiderio gli drizza furiosamente le piume?... Voglio dire:

l’esposizione del corpo, cioè l’esposizione tout court, l’essere-esposto in quanto essere,

assolutamente, è la filosofia, vale a dire la fine degli dei e con essi la fine dell’essere-posto o

dell’essere-imposto, se vogliamo provare a dirlo così. In fondo, il corpo non è mai stato

umiliato, rimosso o negato nella filosofia se non in funzione stessa dell’esposizione che appariva

essere non appena il mondo non era più abitato dagli dei. Il corpo, è il fuori stesso: il “dentro” in quanto fuori. […] Il corpo, anima aperta sulla materia, cioè sul furoi-da-che. Anima fuori di sé, e

per questo anima, sì! “Corpo” è il peso dell’anima su di noi, oggi. È per questo che direi che

“corpo” non è poi così estraneo alla filosofia come si pensa: “corpo” è l’estraneità che la filosofia

nomina perché la scopre, e la scopre perché in effetti il mondo diventa estraneo a se stesso. È quello che chiamiamo “Occidente”… questo apre tanto all’umiliazione e al rigetto del corpo

quanto all’esaltazione e della potenza del corpo. In un modo o nell’altro questo introduce una

fondamentale estraneità a noi stessi, un’estraneità del mondo a se stesso. È quanto abbiamo

chiamato corpo/spirito, materia/idea, esterno/interno… in realtà, si tratta dello scarto dello

stesso dallo stesso, e quindi talvolta del rigetto dell’uno ad opera dell’altro, talvolta dello slancio

estatico dell’uno verso l’altro… L’estraneità non è nient’altro che questa estraneità a noi, in noi. È

il nostro tormento tanto tragico quanto erotico»62.

Il compito della filosofia finita sta allora nel pensare che non esiste un senso che si possa ricevere o trasmettere, ma che esso sia «indissociabile dalla

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“comprensione” singolare, ogni volta, di un’esistenza singolare»63; così Nancy

può vedere la comunità come una comunità di corpi, di singolarità finite che accolgono il limite dentro di sé e non lo lasciano all’esterno di una presunta unità, giacché questa dimensione comunitaria esibisce ciò che costituisce l’essere come “inappropriabile altro”.

Una comunità in cui il “noi” si rende palpabile, si tocca e si offre ad essere toccato.

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III