Il confronto con Heidegger
2. Sacrificio e morte
«Ogni volta che il nichilismo asserisce: “non c’è più comunità”, asserisce che non c’è più sacrificio»87.
In questa frase lapidaria non solo si riporta un’importante affermazione del nichilismo, ma il sacrificio si annuncia come tematica strettamente legata a quella della comunità e, più in generale, a quella della storia dell’Occidente: nelle prime pagine del quinto capitolo di Un pensiero finito (intitolato
L’insacrificabile) Nancy sottolinea come l’Occidente sembri nato proprio nel momento storico in cui il sacrificio presentava un fortissimo indebolimento, se non veniva addirittura a mancare; per quanto noi non comprendiamo il gesto sacrificale antico e tuttavia (o forse proprio per questo) ne siamo attratti, è bene evidenziare secondo l’autore come in realtà il termine “sacrificio”, di derivazione latino-cristiana, sia un’elaborazione occidentale, qualcosa che non va a tradurre un termine di altra provenienza ma «instaura una significazione», creando così il paradosso di volersi sovrapporre alle significazioni di termini anteriori e contemporaneamente di affermarsi in modo originale tendendo ad abolirli. Questa riflessione però viene interrotta subito per passare ad un confronto, per Nancy inevitabile, con Bataille: esso avrebbe continuato a vedere il sacrificio come modello di mancanza e finitezza, quindi dipendente dall’interpretazione che ne fa il Cristianesimo. Scrive Daniela Calabrò:
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«L’originalità della lettura di Nancy consiste nel porre l’Occidente come il luogo della
denegazione dialettica del sacrificio stesso, sottraendolo alla visione ontoteologica entro cui il
Cristianesimo ci ha abituati a pensarlo. Di fatto non ci è possibile conoscere o sperimentare
nulla del sacrificio reale o antico, perché l’accesso alla sua verità è storicamente, o meglio,
metafisicamente, proibito. Nancy vede l’instaurazione di una logica mimetica nel cuore della
relazione tra l’Occidente e il sacrificio. La verità onto-teologica del sacrificio occidentale è
rappresentata dalla doppia figura di Socrate e Cristo. Queste due figure riconducono all’antico
sacrificio, ripetendolo e modificandolo strutturalmente nel momento del superamento dialettico
(là dove cioè esso ha il suo completamento e/o la sua fine, realizzandosi). Il sacrificio
occidentale è auto-sacrificio, esso è unico, esso è la verità incarnata di tutti i sacrifici, o meglio,
ne è l’essenza costitutiva. Ecco perché l’auto-sacrificio si configura come l’eccedenza del
sacrificio, l’ultimo dei sacrifici. […] In altri termini, il sacrificio occidentale – e la sua presunta
legittimazione “morale” – si basa sulla verità ontoteologica dell’auto-sacrificio cristiano e sulla
chiusura della sua storia […] Secondo Nancy allora, piuttosto, tale sacrificio dovrebbe essere
pensato come la rivelazione e l’esposizione del suo orizzonte o della sua spettrale essenza che
sfida ogni logoca della fine e libera se stesso oltre una economia del ritorno (de la revenance)
spirituale»88.
Resta da compiere il passo più difficile: riconoscere la fascinazione del sacrificio (per noi inevitabile ed inaccettabile), cercare di comprenderne i motivi, e superarla.
Secondo Nancy sia Heidegger che Bataille è in questo che devono essere corretti: nella loro attrazione verso il sacrificio, legata «alla fascinazione di un’estasi rivolta verso un Altro o verso un Fuori assoluti, che riversa in esso il
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soggetto al fine di ripristinarlo meglio, promettendo al soggetto, per mezzo di qualche mimesis o di qualche “superamento” della mimesis, la methexis con il Fuori o con l’Altro… Il sacrificio occidentale risponde a un’ossessione del “Fuori” della finitezza, altrettanto oscuro e senza fondo che questo “fuori”. In sé, già, la “fascinazione” indica l’oscuro desiderio di comunicare con questo
fuori»89; ma tutto ciò si rivela assurdo, dal momento che non c’è alcun “fuori”
rispetto all’evento dell’esistenza, non c’è nient’altro se non l’esistenza stessa, quindi il sacrificio occidentale sarà sempre “a niente”: l’Occidente attua un sacrificio che rimane, nella sua esigenza, tra «l’impossibilità della sua piena realtà e la tentazione della sua pura simulazione». Quello che adesso si deve indagare è il rapporto tra tale sacrifico e la morte, la cui trattazione si ha sia in Bataille che in Heidegger.
Bataille afferma che sacrificare non è uccidere, ma “abbandonare” e “dare”: presentato così, il sacrificio condurrebbe ad una comunità che sperimenti la propria cancellazione attraverso la morte del singolo individuo, la comunità della morte che Bataille stesso cercò di fondare con l’esperienza estrema di
Acéphale90 (analizzata approfonditamente da Blanchot ne La comunità
89 J.L. Nancy, Un pensiero finito, pp. 259-60.
90Società segreta di artisti e filosofi dell'inizio del XX secolo, nonché rivista, che vide negli scritti
di Bataille il suo fulcro. Etimologicamente Acephale viene dal latino “a-cephalus”, che significa “senza testa”, ma è da intendersi anche come “senza un capo”. Circolo strettamente legato al pensiero di Nietzche (nel continuo tentativo, però, di liberarlo dall’interpretazione fascista), si sa solo che voleva restituire al mondo moderno un afflato "ferocemente religioso", che si riuniva in un luogo sacro, e che gli appartenenti al circolo dovevano sottostare ad una serie di regole e rituali (era proibito stringere la mano ad anti-semiti, ma soprattutto bisognava celebrare la decapitazione di Luigi XVI, evento che in sé prefigurava la nascita di quella società senza capo che "segretamente o no," scriveva Bataille, "deve diventare altro da sé, o cessare di esistere"). Per un’analisi dei significati di Acéphal rimando a La congiura sacra, a cura di M. Galletti, con
48 incoffessabile, scritto successivo a La comunità inoperosa ed in dialogo con questo); ma in tale comunità la presenza è sempre assenza, il sacrificio fonda la comunità disfacendola, e i soggetti non si trovano ma si disperdono (o si ritrovano nella propria e nell’altrui perdita), dal momento che l’unica cosa davvero condivisibile diviene la mancanza. È una comunità impossibile. In
Acéphale è la morte a non poter essere messa in comune, la morte dell’altro, perché essa non può divenire “misura” comune: Acéphale si rivela il sacrificio integrale, quello cioè dell’illusione comunitaria per cui la comunità sarebbe possibile come presenza soprattutto quando la presenza della comunità stessa venga riposta, come ultima istanza, nella morte di tutti; non è possibile, invero, ridurre la morte dell’altro a sé, poiché la morte dell’altro resta dell’altro, dunque la comunità è la sua assenza: essa assume e già contiene l’impossibilità di se stessa, è «la presentazione della finitezza e dell’eccesso senza ritorno che fonda l’essere finito»91.
Heidegger, dal canto suo, lo aveva detto: «Noi non facciamo mai veramente esperienza del morire degli altri; in realtà non facciamo altro che esser loro “vicini”. […] Nella misura in cui la morte “è”, essa è sempre essenzialmente la
mia morte»92. Se è nella morte altrui che la comunità “mi ordina al suo registro
introduzione di R. Esposito, Bollati Boringhieri, Torino 1997; a M. Galletti, La comunità
impossibile di Georges Bataille. Da «Masses» ai “difensori del male”, prefazione di J. Risset, Kaplan, Torino 2008; infine al testo di G. Blanchot, La comunità inconfessabile, tr. it. e postfazione di D. Gorret, SE, Milano 2002.
91 G. Blanchot, La comunità inconfessabile, p. 42.
92 Citazione da Essere e tempo di Heidegger riportata da Nancy stesso in La comunità inoperosa, p.
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più proprio”, vero è anche che «io non mi riconosco in questa morte d’altri il cui limite mi espone tuttavia senza rimedio […] Io riconosco che nella morte altrui non c’è niente di riconoscibile. Ed è così che si possono iscrivere la partizione e la finitezza: “Il finire proprio della morte non significa affatto un essere alla fine del Dasein, ma un essere-per-la-fine di questo ente.”93»94. La finitezza
dell’esistenza la rende insacrificabile, essa non è sacrificata ma offerta: benché questo termine riporti al registro del sacrificio, è da intendersi come un abbandono senza riserve, come un dono che non pretende niente in cambio; per cui, nel caso in cui si volesse dire che l’esistenza è sacrificata, si dovrebbe intendere comunque che essa è sacrificata da nessuno a niente.
Il sacrificio occidentale risulta vuoto (come già detto), la fascinazione del Fuori risulta luogo di appropriazione assoluta dell’Altro e quindi di illusione di un’esistenza infinita che può solo generare orrore (e i campi di sterminio nazisti ne sarebbero la prova): allora solo un’esistenza finita nella sua continua offerta ( e non sacrificio) al mondo risulta possibile.
«L’esistenza non è da sacrificare, e non la si può sacrificare. La si può solamente distruggere, o condividere [partager]. È l’esistenza insacrificabile e finita che è offerta da con-dividere […] Cancellazione del sacrificio, cancellazione della comunione, cancellazione dell’Occidente: il che non significa che l’Occidente ritornerebbe a quel che lo ha preceduto, né che il sacrificio occidentale
93 Ivi, altra citazione di Nancy da Essere e tempo di Heidegger, paragrafi 4 e 48.
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tornerebbe ai riti che riteneva dovesse spiritualizzare. Questo vorrebbe dire che noi siamo sull’orlo di un’altra comunità, di un’altra methexis, in cui la mimesis della con-divisione [partage] cancellerebbe la mimica sacrificale di un’appropriazione dell’Altro»95.