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Ruolo del linguaggio e della morte nell’essere-gli-uni-con-gli-altr

Co-esistenza: essere insieme, essere in comune, essere in società

5. Ruolo del linguaggio e della morte nell’essere-gli-uni-con-gli-altr

Il capitolo XII di Essere singolare plurale vede un’analisi approfondita del ruolo del linguaggio nella struttura dell’essere-con fin’ora descritta.

Vi si dice innanzi tutto che, se il rapporto delle origini singolari tra di loro è il rapporto del senso, il linguaggio è “l’esponente” della singolarità plurale: nel linguaggio «l’essente tutto intero è esposto come senso del linguaggio, vale a dire come spartizione originaria in cui l’essente si rapporta all’essente, come

circolazione di un senso del mondo che non ha né inizio né fine»68; io parlo con

gli altri esattamente nello stesso modo in cui parlo con me stesso (dialogando), giacché nel linguaggio si ha la simultaneità di “noi” ed “io”, essendo quel “con” dell’essere-con direttamente in me, fin da subito. La singolarità, la sua essenza, consiste allora nell’essere ogni volta infra- e trans-individuale, «la puntualità di un “con” che annoda una certa origine di senso e la connette con un’infinità di

data dallo stesso Heidegger all’essere-con (comunque sottolineato come ciò che co-determina l’essenza dell’esistenza).

67 Ivi, p. 111.

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altre origini possibili […] È per questo che non c’è “il” linguaggio, ma ci sono i linguaggi, e parole, e voci, una spartizione originariamente singolare delle voci

senza la quale non ci sarebbe alcuna voce»69. Nel linguaggio l’uomo non espone

se stesso ma il mondo ed il proprio “essere-con-tutto-l’essente” nel mondo, quindi, in quanto “dotato” di linguaggio, l’uomo è ex-posto nel suo essere; se il dire finisce sempre per dire l’essere, giacché “essere” è il “con” di tutti gli essenti singolari, allora l’essere stesso viene esposto solo nell’incorporeo del dire. Ecco perché Nancy può affermare che «il linguaggio è essenzialmente nel

con»: ogni parola è tale solo poiché già sempre con altre parole (almeno due, quella detta e quella intesa), ed il dialogo non fa altro che “tendere” il con del senso, la pluralità della sua insorgenza. Bisogna vedere in che modo il linguaggio espone il con (ogni volta e con ciascun significato) e si espone a sua volta come con, in che maniera si ex-scrive in esso fino ad esaurirvisi svuotato di significato (ovvero «rimettendo ogni significato alla circolazione del senso» da un’origine all’altra). I modi sono due: quello della chiacchiera comune e quello dell’assoluta distinzione poetica, che indicano rispettivamente «esaurimento per insignificanza “fàtica” e per intercambiabilità inesauribile, ed esaurimento per pura significanza “apofatica”, dichiarazione o mostrazione della cosa stessa in una parola che non si può cambiare, che non si può alterare,

69 Ivi, p. 115. Dice Chiara Zamboni: «In tale contesto c’è immediatezza del senso che emerge dal

nostro essere in una partizione con gli altri, dove ognuno di noi è voce singolare per differenza da quella altrui. Il senso emerge come sinfonia di voci. Affiora nell’immanenza del reticolo». (Prefazione a Vuoto e inaugurazione. La condizione umana nel pensiero di Marìa Zambrano e Jean-Luc

Nancy). Per approfondire questo tema, cfr. J.L. Nancy, La partizione delle voci. Verso una comunità

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come la cosa stessa, ma come la cosa in quanto tale»70. Dall’uno all’altro «il

conatus è sempre lo stesso: il “con” nel quale noi ci esponiamo gli uni agli altri,

in quanto “uni” e in quanto “altri”, esponendo il mondo in quanto mondo. Il linguaggio si costituisce e si articola a partire dall’”in quanto”»71.

Partendo da una frase di La Bruyère, che recita «Tutto è detto, e si giunge sempre troppo tardi», Nancy introduce la tematica della morte.

Secondo l’autore la morte mostrerebbe come il dire-tutto altro non sia che un “tutto è detto”, una completezza discreta e transitoria: per questo non la morte, ma solo la sua rappresentazione ha luogo per il soggetto e, come diceva Heidegger, essa espone l’esistenza in quanto tale (non scompare con “me” alla “mia morte”). Se la morte è un’interruzione del dire del tutto e della totalità del dire, e il linguaggio dice sempre l’interruzione del senso come propria verità, allora il linguaggio dice sempre la morte:

«La morte in quanto tale – e la nascita in quanto tale – ha luogo come linguaggio: essa ha luogo nel e attraverso l’essere-gli-uni-con-gli-altri. È la firma stessa del “con”: il morto è colui che non è più “con” e, simultaneamente, prende posto nell’esatta misura, nella giusta misura dell’incommensurabile

“con”. La morte è l’”in quanto” senza qualità e senza complemento»72.

70 Ivi, p. 118.

71 Ibid.

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Ne deriva che nasciamo e moriamo come origini di senso, per cui non si nasce né si muore soli, ma gli uni con gli altri, gli uni agli altri, esponendoci ed esponendo ogni volta l’”inesponibile” singolarità dell’origine.

La morte è ciò che viene portato al linguaggio, e allo stesso tempo ciò che vi porta: la letteratura è «l’essere-in-comune di ciò che è senza origine comune, ma originariamente in-comune o con». Bisognerà dunque affermare due cose fondamentali: la prima è che Heidegger sbaglia nel dire che, nell’assunzione della propria morte, l’essere-con perde ogni pertinenza (dato che la morte di ognuno è una «co-possibilità, la più propria, della possibilità propria degli altri esistenti»); la seconda è che né la morte né il linguaggio sono o praticano la

negatività: lo scarto della dis-posizione è “nulla”, ma questo “nulla” non è il negativo di nulla (semmai è l’essente che si mostra all’essente e in mezzo ad esso). Si può dire che «il non-essere dell’essere – il suo senso – è la sua dis- posizione. Il nihil negativum è il quid positivum in quanto singolare plurale: cioè in quanto nessun quid, nessun essente, è posto senza con. Esso è senza (a distanza) nell’esatta misura in cui è con: mostrato e dimostrato nell’essere-con,

prova d’esistenza»73. Se si tenta di colmare il con, riempiendolo o svuotandolo,

si avranno due tipi di singolare (o come particolare di una totalità, o come totalità stessa) mancanti dell’essere singolare plurale: in entrambe i casi si tratterebbe di omicidio, opera dell’”Uno-Tutto” o dell’”Uno-Io”, e non di morte, dato che questa è il con inoperante ma esistente. Dunque, il modo corretto di

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intendere il con è vederlo come nient’altro che essere-con, «il con incorporeo dell’essere-corpo in quanto tale». Allora, tornando al linguaggio, esso è prima di tutto « l’estensione e la simultaneità del “con” in quanto esso è la più propria

potenza di un corpo, la sua proprietà di toccare un altro corpo (o di toccar-si), che non è altro che la sua de-finizione di corpo […] Il “linguaggio” non è uno strumento di comunicazione, e la comunicazione non è uno strumento per l’essere: ma, per l’appunto, la comunicazione è l’essere, e l’essere di conseguenza non è che l’incorporeo in cui i corpi si annunciano gli uni agli altri in quanto tali»74. Quel nulla dello scarto della dis-posizione (già definito) in

questo contesto può dirsi allora anche l’incorporeo che espone i corpi nel loro essere-gli-uni-con-gli-altri, a contatto e quindi a distanza gli uni dagli altri, tra di

loro come delle origini; e il rapporto delle origini singolari tra di loro è il rapporto del senso. Del resto, Nancy lo dice chiaramente: l’ontologia dell’essere-

con è un’ontologia dei corpi, giacché il corpo è innanzitutto ciò che è fuori, con altri corpi, nella dis-posizione, spartizione e partenza da sé.

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