Comunità di corp
1. Corpo e anima
Nel suo recente saggio Toccare, Jean-Luc Nancy, Derrida compie un’analisi di quella che è la recente fenomenologia francese: oltre a portare in rilievo quanto la riflessione husserliana abbia influenzato non solo Merleau-Ponty, ma anche
33 M. Vozza, A fior di pelle. Jean-Luc Nancy e la filosofia del corpo, Introduzione a Indizi sul corpo,
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gran parte dei pensatori contemporanei, si nota come vi sia da sempre una relazione ambivalente tra la fenomenologia e la tradizione occidentale radicata nel cristianesimo; la problematica ruota attorno al “corpo” o, meglio, alla “carne”, con inevitabile riferimento all’”incarnazione”.
Capibile dunque l‘interesse dell’autore verso Nancy, che si propone esplicitamente da un lato di spogliare il “corpo” di ogni riferimento trascendentale (segnando una svolta decisiva rispetto a quegli autori che, continuando a trattare il tema della “carne”, ricadevano comunque nell’ottica cristiana), e dall’altro di sottolinearne l’aspetto fecondamente esteriore (mentre tutta la metafisica occidentale si è da sempre basata sul modello di una
profondità/interiorità autentica da contrapporre ad una
superficialità/esteriorità sterile). Come prima cosa, dunque, occorrerà liberarsi della connotazione metafisica e spiritualistica dei concetti di “carne” ed “incarnazione”, attraverso una vera e propria decostruzione del cristianesimo ed una diretta analisi della proposizione biblica “verbum caro factum est”; in secondo luogo si dovrà scandagliare il rapporto tra corpo e anima attraverso la decostruzione del cogito cartesiano.
Verbum caro factum est (in greco logos sarx egeneto, nel Vangelo di Giovanni) è la formula dell’incarnazione, con la quale Dio si fa uomo. Secondo Nancy, questa “umanità di Dio” è il tratto fondamentale del cristianesimo e dunque determinante dell’intera cultura occidentale: l’umanesimo sarebbe segnato indelebilmente da tale tratto, se non fondato da esso stesso (che si rovescerebbe
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qui in una “divinizzazione dell’uomo”, per così dire); ma alla base dell’interpretazione di questa proposizione fondamentale vi è per l’autore francese un errore che dev’essere corretto.
Secondo l’interpretazione comune, il termine “incarnazione” indica l’entrata di un’entità incorporea (spirito, dio, idea) in un corpo o, più raramente, la penetrazione in una parte del corpo da parte di un’altra parte del corpo o di una sostanza, generalmente estranea (Nancy fa l’esempio dell’”unghia incarnata”); ma può anche arrivare ad assumere il significato di una “figurazione”, se viene intesa come l’occupazione di un corpo come di uno spazio “non connaturato alla realtà data” (l’attore “incarna” il personaggio). In questo contesto il corpo viene visto come esteriorità e manifestazione sensibile, opponibile all’anima o allo spirito in quanto interiorità ed entità non direttamente figurabile. Qui sta l’errore di cui si era accennato: secondo Nancy, se si legge attentamente la formula del credo cristiano è facile capire che «se il verbo è stato fatto carne, oppure se (come si dice in greco) lo è divenuto, se è stato generato o si è generato come carne, è proprio perché non doveva penetrare all’interno di una carne, data inizialmente fuori di lui: è lui stesso che è divenuto la carne. (La teologia ha prodigato sforzi sovrumani – è il caso di dirlo – per pensare questo divenire
che produce, in una sola persona, due nature eterogenee)»34.
[Aprendo una parentesi, bisogna ricordare che nonostante le differenze tra i vari cristianesimi (cattolico, ortodosso e riformato), si può dire che la maternità
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umana del logos e la “transustanziazione” del corpo di Cristo nel pane e nel vino della “comunione” rappresentano due possibili sviluppi dell’incarnazione: «da una parte, dando all’uomo-dio una provenienza già nel corpo umano e nel corpo della donna (in un certo senso l’incarnazione tiene conto dei sessi) e, d’altra parte, fornendo al suo corpo divino la capacità di convertirsi in materia (facendo così investire da “dio” un’infima particella dello spaziotempo, e una realtà – il pane e il vino – che è il prodotto di una trasformazione della natura da parte della tecnica umana)»35.]
Se ne deduce che in realtà il corpo cristiano è tutt’altro che semplice involucro, prigione o sepolcro dell’anima: è il logos fattosi corpo in quanto logos e secondo la sua logica più propria, è lo spirito uscito fuori da sé (o dalla sua pura identità) non per identificarsi con l’uomo ma come uomo e donna e materia. Secondo Nancy lo spirito cristiano è già da sempre fuori-da-sé, e questa sarebbe la sua stessa natura trinitaria. A questo punto, però, Nancy espande il suo discorso anche alla stessa essenza divina:
«Bisogna anche risalire fino al dio monoteista comune alle tre religioni “del Libro”, per
considerare che egli stesso è già essenzialmente un dio che si mette fuori di sé con e in una
“creazione” (che non è per niente una produzione, ma precisamente la messa-furoi-di-sé). In
questo senso il dio cristiano (propriamente monoteista) è il dio che si aliena: è il dio che si ateizza
o si ateologizza, per usare questi neologismi. […] L’ateologia come pensiero del corpo sarà
quindi il pensiero che il “dio” si è fatto corpo, svuotandosi di se stesso (altro motivo cristiano,
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quello della kenosis paolina: il divenire-vuoto di Dio o il suo “svuotarsi di sé”). Il “corpo”
diventa il nome dell’ateo, nel senso del “non c’è dio”. Ma “non c’è dio” non vuol dire
autosufficienza immediata dell’uomo o del mondo, bensì: non c’è presenza fondatrice. […] Il
“corpo” dell’”incarnazione” è quindi il luogo o piuttosto l’aver-luogo, l’evento di questo
svanire»36.
Il corpo, insomma, non è né la prigione dell’anima, né espressione di un’interiorità, né pura presenza: esso è semmai la verità di un’”anima” che si sottrae, spaziatura, estensione, esposizione dello “spirito” che esce fuori da sé. Non vi è alcuna trascendenza, in questo.
Il rapporto tra corpo e anima è indagato anche nei primi tre saggi della raccolta
Indizi sul corpo, nonché nel testo Ego sum.
«Nancy sostiene che l’anima non costituisce l’interno di un corpo ma al contrario
l’organo senziente della sua esteriorizzazione, la forma cioè di qualcosa che è sempre au dehors,
che si rapporta esclusivamente verso l’esterno, come l’intera esperienza. Qui, cioè altrove, un
corpo accede a se stesso, a ciò che gli è più proprio, alla sua estensione esposta, offerta e aperta
al di fuori, nella sua determinazione singolare, nella sua ecceità, nella sua inalienabile
contingenza, spinozianamente necessaria. Il sentire del corpo, sempre esposto, è tale nel tocco
che lambisce la pelle dell’altro, nell’esperienza dell’andar fuori, nel tono di chi si dispone
all’avventura senza prevedere il ritorno presso di sé. Sentirsi scosso, affetto o alterato, provare
commozione: sentire il corpo nel’extra partes e nel cum dell’exsistere, percepirlo in una
comunione emotiva che non rinvia ad alcuna interiorità senziente ma ad un costitutivo Mit-da-
Sein. La comunicazione tra anima e corpo – scrive Nancy – commuove l’estensione ed estende
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l’emozione, in una simultaneità che determina la totalità del mondo e produce un senso che
coincide con l’esistenza stessa qui partage hors de soi»37.
Se queste sono le convinzioni espresse dall’autore nel testo del 1994 (e confermate dalla successiva conferenza veneziana), vero è che già nel 1979 nel suo Ego sum Nancy affronta il problema del rapporto tra corpo e anima attraverso la decostruzione del cogito cartesiano.
«Il problema del giunto è in Descartes la questione ultima, quella dell’unione dell’anima e del
corpo. La sua posizione e la sua difficoltà sono noti. Però non abbastanza da mettere la parola
fine a un discorso, che crediamo sia ben fondato, sul famoso “dualismo cartesiano”. Non c’è
dubbio che questo “dualismo” di sostanza pensante e sostanza estesa in Descartes occupi
interamente il posto che sappiamo. Però non c’è dubbio che la divisione rigorosa di quelle due
istanze sia compiuta lungo il drittofilo di un’intensione e di un’esigenza il cui termine ultimo è
l’unione dell’anima e del corpo (almeno è quanto ci sforzeremo qui di dimostrare). E a questo titolo tutto quello che la modernità non ha smesso fino a noi di investire nella ricostruzione di
un’unità “psicofisica” o “psicofisiologica” o “psicosomatica” dell’essere e dell’uomo […] tutta
quella incessante rivendicazione anticartesiana di una re-incarnazione, deriva direttamente da
Descartes. Di Descartes ripete il gesto ultimo, ma – come vedremo – non è certo per questo
motivo che sa riconoscerne la costrizione convulsiva»38.
Ciò che è di fondamentale importanza è riconoscere che già nella divisione tra
res cogitans e res extensa è data la loro inestricabile unione: vi sarebbe una doppia
37 J.L. Nancy, Indizi sul corpo, p. 10.
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distinzione, da porsi simultaneamente tra me e il mio corpo e tra due cose mie, due cose del “me”, due cose che sono “me”; ma questa non dev’essere intesa come una distinzione tra un avere e un essere, dal momento che io sono una “cosa che pensa” e ho un corpo, ma sono unito a questo corpo. Per Nancy, dunque, nel pensiero dello stesso Cartesio il dualismo tra corpo ed anima era in realtà una distinzione che li teneva uniti nell’unum quid, in un’identità necessariamente articolata nella separazione tra sostanza pensante e sostanza estesa, che sono la stessa cosa (girando le cose l’una verso l’altra) eppure differiscono assolutamente (poiché non hanno niente in comune, il rapporto va al di dentro e l’esposizione al di fuori): passano l’una attraverso l’altra, si urtano ma si ignorano e si escludono ribaltandosi i ruoli. Si dirà che il corpo è irriducibile allo spirito, ma in un “essere-corpo” dello spirito stesso:
«Concepire l’ego, il soggetto di enunciazione, conoscenza ed esperienza, come “unito a tutto il corpo” costituisce la risorsa impensata del cogito cartesiano al di là delle letture di Nietzsche, Heidegger e Derrida: si dischiude un nuovo scenario che rinvia all’apertura/contrazione di una bocca senza volto che dice
io, determinando la dimora dell’uomo in quella spaziatura, nell’estensione
incommensurabile del pensiero, così come la psiche in quella nota sorprendente e a lungo trascurata di Freud che allude alla sua estensione di cui non di sa (forse ancora) nulla»39.
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In tale apertura il soggetto sprofonda ma ego vi si “esteriorizza”, ovvero si fa esteriorità, in un’estroversione del soggetto nel mondo dell’”estensione plurale dei corpi”: estensione (come nota Derrida) è la parola chiave attraverso cui comprendere tutta l’analisi del rapporto corpo/anima compiuta da Nancy, mentre l’esteriorizzazione ne è il fine.