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Co-esistenza: essere insieme, essere in comune, essere in società

4. La giusta misura del con

Abbiamo visto dunque come ci sia un fortissimo rapporto tra comparizione e capitale: l’esposizione del secondo è rovescio e sintomo dell’esposizione della prima, il capitale è l’alienazione dell’essere sociale in quanto lo mette in luce come tale, come esso è; difatti, parlando di valore assoluto dell’uomo (come nel caso dei diritti umani), si parla di qualcosa che ha un senso solo nella sfera di un essere-con, di un commercio, dando la misura di ciò a cui “noi” viene ad esporsi: l’essere-con singolare plurale è la sola misura, assoluta, dell’essere stesso, o dell’esistenza. Con questo non si vuole certo scusare la violenza del capitale (dato che nel regime dello scambio l’essere-insieme diviene essere-merce e essere-mercificato) né affermare di aver compreso come trasformarlo nel suo

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rovescio, ma solo sottolineare come attraverso la sua disumanità viene messa in luce la simultaneità del singolare e del plurale.

Nonostante l’assoluta incommensurabilità dei singolari, ci sarebbe comunque una misura comune: è l’uguaglianza di tutte le origini-di-mondo che, in quanto origini, sono ogni volta uniche ed insostituibili (quindi ineguali) , ma tali solo dal momento in cui sono tutte le une con le altre (quindi eguali). Ecco ciò di cui dobbiamo “prendere misura”: il fatto che “noi” non è un soggetto né un composto di soggetti, ma simultaneamente un “uno” singolare plurale, da pensarsi immediatamente come uno-con-l’altro.

Purtroppo qui l’attuale ontologia viene meno, ed il nostro pensiero inciampa. Nella filosofia tradizionale il “con” viene considerato una categoria minore, dato che l’essere è da sempre ritenuto solo, a sé stante: si parla ancora dell’essere come privo di una co-essenza (qualcosa che si possiede o meno) senza comprendere come esso sia la co-essenzialità dell’esistenza; allora, dovendo comunque confrontarsi con l’essere sociale, lo si fa attraverso la categoria di “altro”. Dice Nancy:

«Bisognerebbe mostrare come questa categoria […] definisca

l’incommensurabilità dell’essere come essere-gli-uni-con-gli-altri e corra tuttavia il rischio di mascherare o differire ancora il regime di quest’essere come regime del con, cioè come misura di questa incommensurabilità […] L’altro è pensabile, e necessario al pensiero, solo a partire dal momento in cui il sé appare e si appare come “stesso”. Ora, questa identificazione del sé in quanto

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tale ha luogo a partire dal momento in cui il soggetto […] si trova o si pone originariamente come altro da sé»62. Detta in termini hegeliani, il sé si sa altro

da sé per principio, e questo altro non è se non la sua “autocoscienza”.

Ma anche se il sé “esce” da sé, questa è una “falsa uscita”, in cui il momento del “con” viene saltato: il sé è originariamente nella perdita di sé, la sua provenienza e la sua destinazione avvengono nell’altro, cosicché «esistere diventa

esiliarsi», e questa forma dialettica porta alla solitudine del Sé; dunque l’autocoscienza è solitudine, e l’altro è questa stessa solitudine «esposta come tale» (come un’autocoscienza infinitamente ritratta in sé e a sé). Si arriva alla tematica dell’Altro divino, in cui l’altro generico trova la sua identità, che è anche l’identità di tutti: l’Altro è il luogo della comunità intesa come comunione, ovvero il luogo in cui essere-sé-nell’altro vede la propria alterazione diventare identificazione, e in cui “altro” diventa “prossimo”. Il prossimo è l’infinitamente altro e allo stesso tempo il più vicino rispetto al sé, e nella concezione cristiana il rapporto con esso si presenta tramite un imperativo di amore che sia «come l’amore di me stesso»63; ma questo amore comandato non fa che palesare

l’incommensurabilità dell’altro, l’impossibilità del “prendersi cura”di qualcosa che all’origine sfugge o si manca. Quello che interessa in questa sede all’autore è interrogarsi su come la dimensione del con appaia e scompaia in tale pensiero.

62 Ivi, p. 103.

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Da una parte la prossimità del prossimo indica il “presso a” in sé e per sé, senza alcuna ulteriore determinazione, quindi questo viene esibito nella sua nudità, senza misura: «la prossimità del prossimo, quale pura dis-tanza, pura dis-posizione, può contrarre così come può dilatare all’estremo questa dis- posizione. Nell’essere-gli-uni-con-gli-altri universale, l’in dell’in-comune si fa puramente estensivo e distributivo»64. Dall’altra parte il “presso a” del con si

espone come indeterminazione e quindi come problema, visto che di esso non si da alcuna misura: «l’altro gliela sottrae, nell’alternativa o nella dialettica dell’incommensurabile e dell’intimità comune. E, con un paradosso estremo, l’altro si rivela l’altro del con»65. Nella tradizione sono dunque reperibili due

concezioni contrastanti ed intrecciate dell’incommensurabile: una secondo l’Altro, concentrata sull’assoluto essere in sé per sé dell’Altro mancante dell’essere-con (o dell’essere in società), e una secondo il con (riguardante l’altro che non ritorna mai a se stesso e che quindi presenta la pluralità delle origini); Nancy ritiene che la giusta misura del con (l’essere-con come giusta misura) altro non è se non la misura della dis-posizione come tale, «la misura dello scarto da un’origine a un’altra origine», e a questo punto spiega come, secondo lui, Heidegger ancora non concedesse lo spazio necessario a tale misura nella sua analitica del Mitsein66. Essere-il-ci significa aprire ed essere aperto alla e dalla

64 Ivi, p. 109.

65 Ivi, p. 110.

66 Nuova critica del “si” heideggeriano, per Nancy trionfo della comune misura in senso

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pluralità delle aperture singolari, per cui «il con è il regime proprio della pluralità

delle origini in quanto esse si originano […] le une in vista delle altre o nei confronti delle altre.[…] Essere-con significa fare senso in modo vicendevole, e soltanto in questo modo. Il senso è la misura intera dell’incommensurabile “con”. Il “con” è la misura intera dell’incommencurabile senso (dell’essere)»67.