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Comunità dell’essere-con

2. La comunità inoperosa

Quattro anni dopo la pubblicazione de La partizione delle voci. Verso una comunità

senza fondamenti, Nancy riaffronta il problema della comunità in un testo la cui divulgazione in Francia avrebbe portato ad un acceso dibattito tra importanti pensatori quali Derrida, Badiou, Agamben, Esposito, e che sarebbe culminato nella risposta di Maurice Blanchot5.

Si tratta de La comunità inoperosa.

Nella prefazione all’edizione italiana l’autore esplicita le difficoltà che l’utilizzo del termine “comunità” comporta (cioè il riferimento già sempre presente nella parola stessa a tutta la tradizione precedente, che invece si vorrebbe qui superare), e la sua decisione di utilizzare allora il termine “comparizione” (da intendersi come “apparire insieme”, al mondo e gli uni agli altri); tuttavia, il testo in questione non può esimersi dal trattare proprio la tematica del problematico rapporto tra l’essere-in-comune e la comunità:

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«Come cogliere l’essere-in-comune, se è ormai chiaro che la comunità in quanto idea di

un essere comune intimo, sostanziale e proprio, in quanto effettività di un soggetto comune, non è

che una proiezione dell’onto-teologia del “Soggetto”, per lo più accompagnata da illusioni

nostalgiche o profetiche? Alla luce di questa questione, la “comunità” è un concetto caduco,

qualunque sia la determinazione che assume. Ma al tempo stesso e per gli stessi motivi la parola

“comunità” viene a segnare un posto vuoto: quello dell’essere-in-comune. Come determinare

quest’ultimo? Qual è il suo modo d’essere? E ancor più, qual è il modo dell’essere in generale – o

dell’esistere – se la dimensione dell’in-comune non è seconda, avventizia, ma originaria o

addirittura archi-originaria?»6.

L’analisi di questo duplice problema parte dalla considerazione secondo cui tutte le forme tradizionali (sia religiose che politiche) che hanno affrontato il problema della comunità partivano dagli stessi presupposti e giungevano alle stesse conclusioni: ci sarebbe una forma mitica e perduta di unità originaria a cui dover tornare, un’identità collettiva da dover ricreare tra i singoli per superare la conflittualità derivata dalla molteplicità; si tratterebbe di riformare “un punto di coagulo delle differenze”, una comunità-soggetto ricca di connotazioni metafisiche quali l’unità, l’assolutezza, l’interiorità… in poche parole, si tratterebbe di edificare (in un passaggio lineare e senza residui dal mito alla politica) la comunità perfetta. In ciò consiste quell’operosità che Nancy vuole decostruire: l’idea che la comunità possa raggiungere una forma definitiva creando una totale corrispondenza tra l’utopia e la realtà attraverso

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l’identificazione collettiva, ed i continui tentativi per attuare quest’idea nel corso della storia hanno spesso portato alla degenerazione nel totalitarismo (che ingabbiava la realtà molteplice e mutevole in un progetto politico rigido e nella gerarchia di regime); occorre allora una comunità inoperosa, che non cada nella nostalgia di un’epoca che in realtà non è mai esistita (giacché “la comunità non ha avuto luogo”), ma che rinunci a farsi opera compiuta e che accetti la propria perenne mutevolezza e perdita costitutiva. Questa “perdita costitutiva” starebbe nell’improprietà radicale del singolo soggetto componente la comunità, finito, ex-posto “su quel bordo che è il suo essere-in-comune”: «L’individuo è solo quel che resta dell’esperienza della dissoluzione della comunità. Per sua natura - come dice il suo nome – egli è l’atomo, l’indivisibile: l’individuo si rivela come il risultato astratto di una decomposizione. Ma […] per fare un mondo non

bastano dei semplici atomi. Ci vuole un clinamen7. Ci vuole un’inclinazione una

pendenza, dell’uno verso ‘altro, dell’uno attraverso l’altro o dall’uno all’altro.

La comunità è almeno il clinamen dell’”individuo”»8. Questo clinamen, dunque,

deve essere inteso come spaziamento dell’essere-in-comune che ci spartisce, in quanto ogni singolare è sempre già presente all’altro: l’essere non è una proprietà comune agli individui, ma l’essere è in comune, senza differire in nulla dall’esistenza ogni volta singolare; la Quarta Parte de La comunità

7 Riferimento alla teoria degli atomi di Epicuro, secondo cui grazie appunto al clinamen (ovvero

la deviazione improvvisa degli atomi dalla loro caduta rettilinea, con consecutivo urto con altri atomi reso possibile dal vuoto) si avrebbe la generazione dei corpi.

77 inoperosa si intitola Dell’essere-in-comune, e tratta appunto di che cosa questo significhi ripartendo ancora una volta da Heidegger.

Nancy ribadisce fin da subito la mancanza di Heidegger: non aver pensato fino in fondo ciò che egli stesso aveva chiamato Mitsein o addirittura Mitdasein, senza riuscire a riconoscere in modo chiaro che il mit non qualifica né il sein nel

Mitsein, né il Dasein nel Mitdasein, ma che costituisce quest’ultimo

essenzialmente; pur affermando in Essere e tempo che «il mondo è già sempre quello che io con-divido con gli altri. Il mondo dell’Esser-ci è con-mondo. L’in- essere è un con-essere con gli altri. L’essere-in-sé intramondano degli altri è un

conEsserci»9, l’autore tedesco non spiegherebbe perché l’essere-con sia

essenziale e come possa co-determinare l’essenza dell’esistenza (oltre compiere una riduzione della dimensione del “Si” al “comune-mediocre” su cui viene appiattito anche il “comune-con” essenziale). Si deve dunque ripartire da una definizione di ciò che è questo in dell’essere-in-comune, e di ciò che è quel con dell’essere-con: «La logica del “con” – dell’essere-con, del Mitsein che Heidegger rende contemporaneo e correlativo del Dasein – è la logica singolare di un dentro-fuori […] Sarebbe la logica di ciò che non appartiene né al puro dentro né al puro fuori. […] Una logica del limite: ciò che è tra due o più, che appartiene a tutti e a nessuno e che non appartiene neppure a sé»10. Non c’è

“io” senza “con”, non c’è essere senza condivisione o partizione (partagé): per

9 M. Heidegger, Essere e tempo, §§ 25-26 (passim).

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questo (come già detto più volte) è il con la struttura ontologica essenziale, per questo la nuova ontologia fondamentale dovrà basarsi sull’essere singolare plurale11; ma ciò che si deve sottolineare è che “plurale” è diverso da

“molteplice”:

«Presi insieme, gli esseri non costituiscono una totalità, ma un insieme. L’essere non è

una totalità di cui ciascuno è una parte. Questa totalità non è originaria e pre-data, ma già

sempre s-partita. L’insieme, in cui l’uno è con l’altro, è originario. La pluralità di cui parla il

filosofo esclude l’uno e il tutto. Cosa vi è tra gli esseri che costituiscono l’essere plurale?

Sappiamo già che bisogna considerarli senza totalità presupposta e senza contenuto di

comunicazione. Ciò implica uno spaziamento e una dislocazione dell’essere e insieme un dis-

piegamento. Pensare l’essere come totalità e unità o come soggetto, significa parlare di esso fuori da ogni riferimento spaziale e temporale e dunque pensarlo in astratto. Al contrario, riconoscere

che l’essere è plurale, è riconoscere immediatamente la sua condizione più propria. Tale

condizione è quella dell’esteriorità; la pluralità suppone infatti lo spaziamento, la dislocazione e

la disposizione dell’essere come modalità esteriore. Ciò vuol dire quindi che tutti gli essenti

sono es-posti, posti cioè gli uni fuori degli altri»12.

Solo grazie al loro essere abbandonate all’ex-posizione le esistenze singolari divengono com-partecipi della con-divisione del senso e dell’essere stesso, annodandosi in un reticolo singolare plurale in cui il singolare non viene

11 Per la trattazione di questo tema rimando ai primi due capitoli della prima parte del presente

lavoro.

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cancellato ma mantenuto in perenne connessione-sconnessione13: il reticolato

risultante dall’intreccio delle varie annodature/singolarità è la spaziatura di queste, loro esposizione e dispiegamento, nella quale vengono connesse a loro volta alle altre infinite singolarità del mondo fisico e biologico in una rete ancora più co-estensiva. Questo è l’essere singolare plurale, il significato di quel “con” dell’essere-con e di quell’”in” dell’essere-in-comune; questa è la vera struttura della comunità, inoperosa e «degli altri, che non vuol dire che parecchi individui abbiano una qualche natura comune al di là delle loro differenze, ma che semplicemente partecipano alla loro alterità. L’alterità è, ogni volta, l’alterità di ogni “me stesso” che è “me stesso” solo in quanto è un altro. L’alterità non è una sostanza comune, ma è la non-sostanzialità di ogni “sé” e del suo rapporto agli altri. Tutti i sé sono in rapporto attraverso la loro alterità. Essi, cioè, non sono “in rapporto” – in nessuna maniera determinabile del rapporto – sono insieme. L’essere-insieme è l’alterità»14.