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Comparazione tra scrittura privata cartacea e documento informatico sotto il profilo del valore

Nel documento Il Testamento Digitale. (pagine 79-97)

giuridico e dell’efficacia probatoria

Quando si parla di comparazione, si allude al confronto tra due modelli o istituti, che richiede la piena conoscenza delle caratteristiche proprie di ciascuno di tali modelli; la comparazione che qui interessa riguarda due modelli che, per certi versi, presentano profonde differenze e, per altri, molte analogie. La difficoltà di una simile comparazione è data dalla recente regolamentazione relativa al secondo di tali modelli, vale a dire il documento informatico.

Il documento informatico è un istituto recentemente introdotto nel nostro ordinamento giuridico e, quindi, sarebbe opportuno partire dalle certezze che offre il nostro ordinamento, e cioè dalla disciplina prevista per la scrittura privata cartacea agli articoli 2702 c.c. e ss.. Come più volte accennato, la scrittura privata ha efficacia di prova legale laddove la sottoscrizione sia riconosciuta dal suo autore o sia considerata come legalmente riconosciuta e, in tali casi, fa prova, fino a querela di falso, della provenienza della dichiarazione da chi l’ha sottoscritta. La scrittura privata cartacea fa piena prova soltanto tra le parti di una determinata controversia e, come già detto, la sua efficacia è subordinata al riconoscimento o mancato disconoscimento da parte del suo autore. Se la norma sostanziale dell’art. 2702 c. c. collega l’efficacia probatoria della scrittura al riconoscimento della sottoscrizione, le norme processuali degli artt. 214 e

80 215 c. p. c. stabiliscono le modalità di tale riconoscimento; nel far questo, tuttavia, esse si occupano esclusivamente del c.d. riconoscimento tacito, cioè, più propriamente, del mancato disconoscimento, senza nulla prevedere per il riconoscimento espresso.

Del riconoscimento espresso il codice di rito si occupa nell’art. 217 sulla verificazione della scrittura privata, che, nell’elencazione delle scritture che devono servire da comparazione, contempla quelle la cui provenienza “è riconosciuta”; fattispecie, questa, che la prevalente giurisprudenza riferisce alla sola ipotesi del riconoscimento espresso, non anche a quella del riconoscimento tacito in cui la scrittura “si ha per riconosciuta”88. Se si esclude tuttavia tale previsione, del tutto incidentale, il riconoscimento espresso risulta soltanto dall’art. 2702 c. c., dove peraltro è contemplato come ipotesi tipica, rispetto alla quale il mancato disconoscimento si pone come equipollente , al pari delle altre ipotesi in cui la scrittura “è legalmente considerata come riconosciuta”.

Rari, e scarsamente problematici, sono i casi di riconoscimento espresso. In particolare, si è ampiamente discusso sulla sua natura ed effetti. Da una parte se ne è affermata la natura negoziale, ma a tale opinione si è opposto che gli effetti del riconoscimento sono interamente determinati dall’ordinamento, senza alcuno spazio per l’autonomia privata, e che la dichiarazione in cui esso consiste è data da una mera dichiarazione di scienza e non di volontà; dall’altra parte, si è sostenuto che il riconoscimento espresso avrebbe natura confessoria o di ammissione di

88

Cfr., ad es., Cass., sez. I, 5 gennaio 2001, n. 129, in Giustizia Civile, 2002, pag. 237.

81 fatti a sé sfavorevoli; a tale opinione, tuttavia, si è replicato che la dichiarazione sull’autenticità della sottoscrizione può provenire anche dal difensore e che, contrariamente alle dichiarazioni confessorie, le quali richiedono sempre il filtro della libera valutazione del giudice, il riconoscimento produce sempre e automaticamente l’effetto di attribuire autenticità alla sottoscrizione89.

Tuttavia, non esiste una condivisa definizione sulla natura giuridica di tale atto e occorre, dunque, limitarsi ad accettare la sua importanza ai fini dell’efficacia della scrittura privata. Il riconoscimento espresso, non testualmente richiamato dalla legge, si fonderebbe sulla regola di esperienza secondo la quale una dichiarazione contraria ai propri interessi non potrebbe che essere vera. In realtà, più che una regola di esperienza, quel che entra in gioco in tal caso è una regola logica, che si può argomentare nel seguente modo “ se l’incertezza sulla provenienza della scrittura nasce dal potenziale contrasto su detta provenienza, il venir meno del contrasto fa cessare l’incertezza, risultato questo che si produrrebbe anche nel caso in cui la sottoscrizione riconosciuta, contrariamente alla citata regola di esperienza, risultasse palesemente falsa”90. In tal senso il riconoscimento non è prova dell’autenticità della firma ma atto che, indipendentemente da detta autenticità, è di per se stesso produttivo di certezza sulla provenienza delle dichiarazioni.

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Cfr. G. DI BENEDETTO, op. cit., pag. 111.

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82 Da tale ultimo assunto, si può affermare che al riconoscimento espresso non si può negare natura di atto negoziale cui l’ordinamento ricollega l’effetto tipico della piena prova della provenienza delle dichiarazioni. Inesatta è l’affermazione secondo cui in esso sarebbe ravvisabile una dichiarazione di scienza, atteso che quel che rileva col riconoscimento non è l’intrinseca autenticità della sottoscrizione, ma la volontà di farla propria.

Dalla natura del riconoscimento espresso, si ricavano conseguenze di particolare rilievo sui suoi effetti. Contrariamente a quel che accade, come si vedrà in seguito, nel riconoscimento tacito, o mancato disconoscimento, in cui l’efficacia probatoria acquisita dalla scrittura è circoscritta al solo processo in cui si è prodotto, nel riconoscimento espresso lo scritto assume efficacia di piena prova fra le parti in qualsiasi ulteriore controversia fra le stesse. Se è quindi possibile disconoscere la scrittura che in un precedente giudizio fra le stesse parti sia stata oggetto di c.d. riconoscimento tacito, non è mai possibile disconoscere la scrittura che sia stata oggetto di riconoscimento espresso.

Radicalmente diverso è il c.d. riconoscimento tacito o, più propriamente, il mancato disconoscimento. Si tratta dell’ipotesi, largamente più diffusa nella pratica, di cui specificamente si occupano le norme degli artt. 214 e 215 c. p. c.. L’art. 214 c. p. c. stabilisce che colui contro il quale è prodotta una scrittura ha l’onere di disconoscerla negando “formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione”. Tale dichiarazione è sottoposta a un rigoroso termine di preclusione, non

83 potendo più essere compiuta oltre “la prima udienza o prima risposta successiva alla produzione”, oppure, nel caso di contumace successivamente costituitosi, oltre “la prima udienza o il termine assegnatogli dal giudice istruttore” (artt. 215 e 293 c. p. c. ). A differenza del riconoscimento espresso, che è utilizzabile in qualunque altra controversia instaurata tra le parti, il riconoscimento tacito è utilizzabile soltanto in quel determinato processo, con la conseguenza che la scrittura privata oggetto di riconoscimento espresso potrebbe essere utilizzata come scrittura di comparazione in un successivo processo, mentre lo stesso discorso non potrà farsi per la scrittura oggetto di riconoscimento tacito. Giova ricordare che il riconoscimento tacito è considerato come un’eccezione di parte e dunque non rilevabile d’ufficio, in quanto prevista nel solo interesse di colui che ha prodotto la scrittura in giudizio. La giurisprudenza di legittimità ha pertanto affermato che il riconoscimento tacito della scrittura non segue in modo automatico al mancato disconoscimento nella prima udienza o difesa successiva alla produzione, ma può essere rilevato solo su eccezione di parte91.

In conclusione, nel caso di riconoscimento della scrittura privata cartacea, di qualunque tipo esso sia, la scrittura ha valore di prova legale e fa prova, fino a querela di falso, della provenienza della dichiarazione da chi l’ha sottoscritta.

91

Si fa riferimento a Cass., sez. II, 1 febbraio 2002, n. 1300, in Diritto e Giustizia, 2003, pag. 145.

84 Tutt’altro discorso è da farsi nel caso di disconoscimento della scrittura, il quale non rappresenta però una preclusione assoluta all’efficacia della stessa, in quanto si dà pur sempre la possibilità a colui che l’ha prodotta di provarne la provenienza dal presunto sottoscrittore. Il disconoscimento può provenire soltanto da colui al quale la scrittura è attribuita, anche se con alcune eccezioni; infatti, l’ultima parte dell’art. 214 c. p. c. prevede che gli eredi o aventi causa del sottoscrittore possono dichiarare di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione del loro autore; da ciò si ricava che, in taluni casi, la scrittura privata può produrre effetti nei confronti di un soggetto diverso da quello che l’ha formata, parlandosi in tal caso non di “disconoscere” bensì di “non conoscere” tale scrittura o sottoscrizione. Tale differenza risiede in una scelta propria del legislatore, il quale ha ritenuto troppo impegnativo parlare di disconoscimento con riferimento ai soggetti che non hanno formato personalmente il documento; tuttavia, ad un più attento esame, emerge come gli effetti del “non conoscere” sono identici a quelli del “disconoscere”, essendo entrambi finalizzati a far venir meno l’efficacia probatoria dello scritto92. Presupposto necessario per il disconoscimento è che la scrittura privata sia stata concretamente prodotta in giudizio, poiché prima di tale adempimento essa è priva di efficacia probatoria: tale assunto può facilmente evincersi anche dal testo della legge, che parla di “colui contro il quale la scrittura è prodotta” e “colui contro il quale è prodotta una

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85 scrittura privata”. Tale adempimento, comunque esso venga denominato, è presupposto necessario per il disconoscimento in due direzioni: la prima riguarda il sorgere dell’onere di disconoscimento in capo al presunto autore dello scritto, mentre la seconda riguarderebbe l’efficacia del disconoscimento, che potrebbe produrre i suoi effetti soltanto laddove intervenisse successivamente alla produzione del documento. Affinché il disconoscimento possa produrre i suoi effetti è inoltre necessario che la scrittura privata, alla quale si riferisce, esista, e cioè sia completa di sottoscrizione. Tale assunto, però, è suscettibile di diverse interpretazioni poiché anche documenti privi di sottoscrizione possono essere equiparati alle scritture private in senso stretto e, del resto, tale affermazione potrebbe essere condivisa facendo riferimento al testo dell’articolo 214 c. p. c., il quale parla di ”propria sottoscrizione” e “propria scrittura”. A questo punto, la questione si sposterebbe sull’interpretazione da dare al termine “propria scrittura”, col quale si intende fare riferimento non all’intera scrittura privata bensì alla sola parte del documento costituita dal testo delle dichiarazioni; dunque, si dovrebbe concludere che la sottoscrizione è l’oggetto proprio del disconoscimento, che dovrebbe consistere in una negazione “della propria sottoscrizione”, fatta eccezione per quei documenti nei quali anche la dichiarazione deve essere scritta di pugno, come il testamento olografo, in cui si potrà ammettere un disconoscimento ”della propria scrittura”93. Con tale ultima locuzione, ”disconoscimento

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86 della propria scrittura”, si dovrebbero allora richiamare tutti quei documenti per la cui validità è richiesta non solo la sottoscrizione, ma anche l’autografia del testo, come il testamento olografo. La dichiarazione di disconoscimento, nonostante non siano previste particolari formule sacramentali, deve avere un contenuto specifico e chiaro, dal quale si possa desumere la negazione dell’autenticità della scrittura o sottoscrizione e deve essere resa entro i termini perentori fissati dalla normativa di settore94. Tali termini decorrono a partire dalla produzione in giudizio della scrittura privata e consistono nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla stessa produzione; essi sono termini perentori perché è fatto divieto al giudice di assegnare un eventuale e ulteriore termine. La perentorietà di tali termini è stata ribadita dalla Corte di Cassazione, la quale nel 200295 ha disposto che i due termini, vale a dire la prima udienza o la prima risposta, non sono alternativamente rimessi alla volontà della parte che ha l’onere del disconoscimento; infatti, il sopraggiungere di un termine evita che possa essere fatto il disconoscimento entro il secondo96.

Conseguenza dell’avvenuto disconoscimento è la c.d.

verificazione, che deve essere richiesta da colui che intende valersi della scrittura disconosciuta; da tale assunto, emerge come il disconoscimento

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Si fa riferimento all’art. 215, n. 2 , c. p. c..

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In proposito è interessante Cass., sez. III, 24 giugno 2002, n. 9159, in

Dirittoitalia.it., 2003, pag. 45. 96

87 comporti l’inutilizzabilità della scrittura laddove non sia seguito da un’istanza di verificazione. La tesi secondo la quale la mancata proposizione dell’istanza di verificazione potrebbe essere equiparata ad una dichiarazione di non volere utilizzare la scrittura come mezzo di prova, è stata oggetto di una precisazione; si ritiene97, infatti, che la mancata proposizione dell’istanza corrisponda ad un “atto di esercizio della libertà di scelta dei mezzi di prova”, equivalente, per presunzione di legge, ad una dichiarazione di non volersi avvalere della scrittura come mezzo di prova. La verificazione può essere sia incidentale che principale e, in tale ottica, si discute sulla natura del procedimento di verificazione incidentale; a riguardo, si oscilla tra natura istruttoria e natura di accertamento incidentale, collegando a tali qualificazioni le preclusioni proprie di ciascuna. Infatti, laddove la verificazione fosse considerata come istanza istruttoria, questa potrebbe essere proposta anche in sede di precisazione delle conclusioni e in appello, mentre nel caso in cui la si qualificasse come domanda di accertamento allora essa incontrerebbe dei limiti alla sua proposizione derivanti dall’impossibilità di proporre nuove domande in corso di causa; in quest’ultimo caso, però, limitatamente al disconoscimento avvenuto in primo grado (articolo 184 c. p. c.).

A tali contrapposti orientamenti, pose fine una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione98 che fondò la risposta al quesito

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A riguardo cfr. G. DI BENEDETTO, op. cit., pag. 205.

98

Si fa riferimento a Cass., sez. un., 11 ottobre 1965, n.2112, in Rivista di diritto

88 relativo ai termini di proposizione dell’istanza di verificazione, non sulla natura ma sulla funzione stessa di tale istanza. La Cassazione, partendo dall’assunto che la funzione della verificazione è quella di attribuire efficacia probatoria ad un documento che non la possiede, statuì che le uniche preclusioni alla proposizione dell’istanza sono quelle relative all’ammissibilità del documento in corso di causa, derivandone l’ammissibilità dell’istanza fino al giudizio d’appello. In definitiva, il procedimento di verificazione proposto in via incidentale si risolve in un mero incidente istruttorio, volto a rendere il documento utilizzabile come prova, per cui non costituisce esercizio di un autonomo potere di azione, al contrario inquadrandosi nell’ambito dell’attività istruttoria delle parti e, più precisamente, del potere processuale di produrre documenti. Sulla base di quanto detto, deve ritenersi ammissibile l’istanza di verificazione proposta per la prima volta nel giudizio di appello.

Per quanto concerne le modalità di proposizione dell’istanza, la giurisprudenza99 ha più volte affermato che non sono richieste formule sacramentali, a condizione che la volontà di chiedere la verificazione si possa desumere da manifestazioni univoche. Quindi sarebbero sufficienti sia la proposizione di una domanda basata sulla scrittura, sia la produzione di scritture contenenti sottoscrizioni identiche a quelle disconosciute; sia, infine, una prova testimoniale avente ad oggetto l’effettiva apposizione della scrittura ad opera della controparte. Occorre però segnalare come l’utilizzo della prova testimoniale sia insufficiente per il semplice motivo che

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Vedi, ad esempio, Cass., sez. I, 24 giugno 1975, n. 2508, in Giustizia Civile, 1977, pag. 124.

89 in tal caso rimarrebbe inadempiuto l’onere di indicare i mezzi di prova, gravante su colui che intende avvalersi della scrittura stessa.

Da queste considerazioni si ricava come il procedimento di verificazione può avere inizio con modalità assai informali100, attraverso richieste implicite o basate su mezzi di prova già acquisiti. L’istanza di verificazione è poi decisa dal giudice del procedimento principale, il quale deve anzitutto valutare la rilevanza della scrittura nella definizione della controversia; da ciò deriva l’inammissibilità dell’istanza in caso di irrilevanza dell’oggetto della verificazione.

L’istanza di verificazione, come accennato in precedenza, può essere proposta anche in via principale con atto di citazione, purché la parte “dimostri di avervi interesse”. Tale ultima locuzione trova fondamento negli artt. 2652 e ss. c. c., dove per “avervi interesse” si allude all’interesse ad annotazioni, trascrizioni o iscrizioni basate sulla scrittura privata autentica; secondo altra interpretazione101, si allude all’interesse a dare certezza alla scrittura, o all’interesse all’accertamento del negozio e non della scrittura. Quest’ultima interpretazione è poco condivisibile poiché la verificazione può avere ad oggetto soltanto l’autenticità del documento e mai il negozio. Sia nella verificazione principale che in quella incidentale, il giudice deve accertare l’autenticità o meno della scrittura utilizzando qualsiasi prova, non essendo obbligato a disporre una consulenza tecnica e potendo

100

Vedi G. DI BENEDETTO, op. cit., pag. 215.

101

90 comunque ordinare, alla parte che ha disconosciuto la scrittura, di scrivere sotto dettatura. Si può dunque sostenere che, in materia, viga il principio di libertà di prova, dato che l’unica limitazione relativa a tale principio è costituita dall’obbligo per il giudice di avvalersi delle sole scritture di comparazione già autenticate; questo perché un giudizio di autenticità non può basarsi su scritture non ancora riconosciute o autenticate. Il giudice dovrà utilizzare le scritture definite come autentiche sulla base di un accordo tra le parti e, in mancanza di tale accordo, potrà fare esclusivo riferimento alle scritture ”la cui provenienza dalla persona che si afferma autrice della scrittura è riconosciuta oppure accertata per sentenza di giudice o per atto pubblico”(articolo 217 c. p. c.). Tuttavia, nel caso in cui non si possano rintracciare scritture autenticate, il giudice potrà ricorrere a documenti che presentano un grado di certezza superiore ad altri, facendosi riferimento alle scritture munite di c.d. autentica minore102. Infine, oggetto di verificazione, potrà essere soltanto la scrittura originale, per ragioni sia di ordine pratico che di ordine giuridico; infatti, da un lato è dell’originale del documento che va accertata l’efficacia probatoria e dunque l’autenticità, mentre dall’altro, soltanto sul documento originale possono individuarsi quegli elementi che consentono di risalire al reale autore della sottoscrizione.

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L’autentica minore può essere considerata un tertium genus dell’autenticazione delle sottoscrizioni, ma vi è da ritenere che debba essere più propriamente ritenuta una forma semplificata dell’autentica prevista dall’art. 72 legge notarile.

91 E’ necessario, a questo punto, prendere in esame l’oggetto della nostra trattazione e cioè il testamento olografo, nella forma di documento informatico, cercando di analizzare il valore e l’efficacia probatoria di tale strumento e comparandolo successivamente con la scrittura cartacea. La prima nozione da prendere in considerazione è quella di “informatica”, trattandosi di una tecnica che consente il trattamento automatico di qualunque informazione attraverso i valori di un linguaggio simbolico elementare, caratterizzato dal ricorso all’alternativa fra due soli simboli organizzati in sequenze variamente composte. Tale tecnica si chiama “linguaggio binario” e le sue unità elementari sono dette “bit”. Il documento informatico, come ogni documento, è una cosa rappresentativa di un fatto, ma l’impiego dei computer per la lettura dei documenti informatici ha portato a classificare questi ultimi come documenti indirettamente rappresentativi; questo perché tali documenti non sono in grado di fornire immediatamente la rappresentazione del fatto che essi documentano. Si tratta di prove precostituite poiché tale qualificazione è legata al momento della formazione del documento e non al momento in cui l’osservatore percepisce la prova103.

Il documento informatico è, talora, definito anche come documento elettronico poiché i simboli binari oggetto dei documenti informatici sono trasmessi attraverso sequenze caratterizzate dall’alternativa tra l’emissione o l’assenza di impulsi elettrici104. In altri

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Cfr. F. RICCI, op. cit., pag. 88.

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92 termini, il documento informatico è quel documento che, al pari di tutti gli altri, contiene la rappresentazione di un fatto e, per essere sottoscritto, necessita non di una firma chirografa, bensì di una delle tipologie di firme elettroniche che sono state analizzate in precedenza. L’attuale disciplina di tale documento è contenuta nel Codice dell’Amministrazione digitale che, all’art.1, c. 1, lett. p lo definisce come “la rappresentazione informatica di atti, fatti e dati giuridicamente rilevanti”.

La previgente disciplina era contenuta nel d. p. r. 445/2000 (testo unico sulla documentazione amministrativa) che, nella sua versione originaria, recepiva il d.p.r. 513/1997 contenente i criteri e le modalità per la formazione, archiviazione e trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici; testo unico che è stato poi modificato con d.lgs. 10/2002 e con successivi regolamenti e del quale nessuno mette in dubbio l’utilità, in un sistema come il nostro caratterizzato dalla disordinata sovrapposizione di una grande quantità di norme. Questo complesso normativo appena delineato trae origine dalla legge 59/1997, c.d. legge Bassanini, contenente la delega al Governo per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa; con tale legge è stata attribuita piena validità e rilevanza giuridica al documento

Nel documento Il Testamento Digitale. (pagine 79-97)