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Complanarità deontiche: cenni per uno studio della parenesi medievale

Saperi e poetiche del quotidiano nella lettera di Tago Tokitaka (1494-1562)

3.5 Complanarità deontiche: cenni per uno studio della parenesi medievale

Nelle sezioni precedenti abbiamo osservato come il testo tragga la sua forza veridittiva da una messa a sistema di strategie e saperi, nonché da un uso abbondante di figure retoriche più o meno ascrivibili alla tradizione letteraria classica o alla filosofia (neo)confuciana. Qualunque scritto nasce infatti entro una compagine ideologica, la cui ricostruzione è imprescindibile per decodificare correttamente le funzioni assegnate all’opera e il suo orizzonte di lettura. All’atto pratico, tale progetto si concretizza in una attenta disamina della trama intertestuale, cosicché i legami semantico-pragmatici tra unità testuali possa servire da parametro di riferimento per inquadrare un testo nel suo contesto di produzione e fruizione. Pertanto, nei paragrafi che seguono cercherò di rendere conto – seppur in minima parte – del complesso intreccio discorsivo di cui il Tago Tokitaka kakun non è che una manifestazione, mettendo in luce come la ricorrenza di specifici temi e motivi che di tanto in tanto affiorano sulla superficie testuale non sia frutto del caso, bensì di profonde logiche strutturanti il genere parenetico così come concepito nel tardo medioevo.

Si evince anzitutto la presenza di una tassonomia unificante, che incorpora elementi propri del diritto e di altri campi del sapere entro un sistema polifunzionale. Nel caso di Tokitaka, abbiamo osservato come il concetto di san’yō servisse da collante nel raccordare tra loro pratiche distinte ma insieme costitutive l’essenza del guerriero. La spiccata eterogeneità dei contenuti può dirsi diretta conseguenza di questo assunto totalizzante, d’altra parte riscontrabile in numerose storielle e racconti coevi (otogizōshi). Lo stesso avviene negli ōraimono, modelli epistolari largamente impiegati come materiale didattico per insegnare ai bambini a leggere e scrivere, oltreché trasmettere informazioni utili alla vita di tutti i giorni (Yamada 1996). È interessante notare che la medesima attitudine si riscontra anche in una famosa nota di Kenkō Hōshi, quando alla sezione 122 dello Tsurezuregusa elenca le discipline che ogni uomo di cultura dovrebbe praticare:

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Quanto alla preparazione che un uomo deve possedere, la padronanza dei classici e una buona conoscenza degli insegnamenti del Saggio ne sono considerati i pilastri. Quindi la calligrafia (tekaku koto 手書く事), che bisogna apprendere anche se non è il nostro principale interesse perché può aiutare nello studio (gakumon 学問). Poi bisogna imparare l’arte medica (ijutsu 医術): per curare il proprio corpo, aiutare la gente, assolvere ai doveri di sudditi e figli devoti, la medicina è infatti assolutamente indispensabile. Seguono il tiro con l’arco (yumii 弓射) e l’equitazione (uma ni noru

koto 馬に乗る事), discipline queste già incluse tra le Sei Arti: bisogna senz’altro

averne almeno una certa dimestichezza. In verità, la conoscenza delle lettere, delle arti militari e della medicina (bun bu i 文武医) non dovrebbe mancare mai: chi vi si dedica non sarà mai considerato un perdigiorno. Poi viene il cibo (shoku 食), che è il cielo dell’uomo, e dev’essere ritenuto pregevole il talento di chi sa armonizzare bene i sapori dei cibi. Segue l’abilità manuale (saiku 細工), che è di grande utilità in mille occasioni. Quanto poi ad altre discipline, troppe abilità sono disdicevoli per l’uomo esemplare. Sovrano e sudditi sono affascinati dal saper comporre abilmente poesie (shiika 詩歌) e suonare strumenti (shichiku 糸竹) con maestria, ma voler governare ai giorni nostri il mondo con questi mezzi rasenterebbe la follia. (Boscaro 2014, pp. 110-111)

Prendendo a modello l’ideale del dotto confuciano, Kenkō argomenta l’importanza di una formazione classica improntata sul sistema pedagogico delle “Sei Arti” o rikugei 六芸: riti, musica, tiro con l’arco, guida della biga, calligrafia e matematica.25 La stessa tensione

multidisciplinare anima numerosi scritti di periodo Muromachi con cui si suppone Tokitaka avesse una certa familiarità. Tra questi vale la pena menzionare il Chikubashō 竹馬抄, che tradizione vuole scritto da Shiba Yoshimasa (1350-1410) ma che studi più recenti

25 In giapponese, le “Sei Arti” sono dette rispettivamente rei 礼, gaku 楽, sha 射, gyo 御, sho 書, sū 数.

Per una disamina del concetto in contesto cinese si rimanda a Lippiello (2010), p. 33 (note 3-4) e p. 41 (nota 2).

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attribuiscono verosimilmente al guerriero-letterato Imagawa Ryōshun.26 Un altro esempio

significativo è senza dubbio il Sekyōshō, che similmente enumera arti e mestieri stabilendo l’ideale modus vivendi di ciascuno. Infine, non sfuggirà l’analogia con lo Shokunin utaawase 職 人歌合, una fittizia competizione letteraria inscenata tra esponenti di varie professioni che a turno si confrontano su tradizionali temi poetici ricorrendo alle modalità espressive offerte dai rispettivi ambiti di lavoro.27

Tale propensione a una polifonia di voci, competenze e soggettività sembra in qualche modo ascrivibile a dinamiche istitutive e ordinatrici, che potremmo riassumere a grandi linee con le seguenti parole di Umberto Eco: «Nella misura in cui una lista caratterizza una serie per quanto difforme di oggetti come appartenenti allo stesso contesto o visti dallo stesso punto di vista, […] essa conferisce ordine, e dunque un accenno di forma, a un insieme altrimenti disordinato» (2009, p. 131). Le fitte corrispondenze lessicali, le sincronie tematiche e non ultimo una diffusa “poetica della lista” (monozukushi) che vede nel Makura

no sōshi il suo antecedente più illustre lasciano supporre una comune “coscienza di genere”

soggiacente la produzione di tali scritti, difformi eppure affini, quasi fossero riconducibili a una funzione comune. In molti passi, lo stesso Tsurezuregusa – che pure è annoverato fra i massimi “capolavori” della letteratura giapponese – non nasconde un certo didatticismo di fondo. Ad esempio, si legge nel secondo capitolo:

Ci sono persone che hanno dimenticato il governo dei santi sovrani dell’antichità e ignorano le lamentele del popolo e la rovina arrecata al Paese: costoro pensano che sia segno di magnificenza concedersi in ogni cosa il lusso più sfrenato e si mostrano

26 Shimauchi (1986, pp. 36-38) ha cercato di dimostrare questa ipotesi attraverso un serrato confronto

tra il Chikubashō e altri scritti di Imagawa Ryōshun, ma ad oggi manca ancora una prova che possa essere considerata in qualche modo risolutiva della questione.

27 Esistono alcune varianti di quest’opera, la più antica risalente al periodo Kamakura. Il corpus

originario andò arricchendosi nel tempo, inglobando un sempre maggior numero di professioni, tant’è che l’edizione più tarda consta di ben settantuno turni. Si ritiene che quest’ultima sia stata prodotta intorno al 1500 presso i più alti ambienti della corte imperiale e sotto la supervisione diretta dei Kyōgoku – come suggerito dal dialoghetto di apertura tra un carpentiere e un arrotino (SNKT 61, p. 5). L’ipotesi necessita di una indagine più approfondita per essere verificata, ma alla luce del rapporto vassallatico sussistente tra i Tago e i Kyōgoku, sembra legittimo supporre che Tokitaka conoscesse lo Shokunin

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tronfi e arroganti come se non ci fosse spazio abbastanza per loro; ma così facendo si dimostrano invece del tutto privi di discernimento.

Nello Yuikai [Istruzioni ai posteri] del Signore di Kujō è scritto: «Dal copricapo agli abiti, dalla carrozza trainata da buoi ai cavalli, in ogni cosa limitatevi a ciò che possedete: non ricercate il lusso».

Anche tra i passi del Kinpishō [Note segrete sulle cose di Palazzo] dell’imperatore in ritiro Juntoku si legge: «Per l'imperatore, gli abiti semplici sono i migliori». (Boscaro 2014, p. 37)

La citazione di opere testamentarie e manualistiche lascia supporre che Kenkō fosse intenzionato a reiterare i precetti ivi enunciati, inserendosi nell’alveo di un genere a metà strada fra scrittura “pubblica” e “privata” che nei secoli successivi i commentatori avrebbero ribattezzato col termine zuihitsu 随筆, tutt’ora in voga per definire il saggio miscellaneo. Ora, non dissimile è l’attitudine di Tokitaka nel porsi di fronte al proprio lettorato. Qualunque aspetto si consideri, infatti, è evidente come ogni sforzo dell’autore sia orientato verso un preciso scopo istruttivo e (auto)legittimatorio. Dopotutto, secondo la definizione che ne dà Eco, «un testo è un artificio sintattico-semantico-pragmatico la cui interpretazione prevista fa parte del proprio progetto generativo» (1979, p. 67): nel caso dei

kakun guerrieri, il progetto in questione coincide con la trasmissione di un sapere pratico e

funzionale alla sopravvivenza della famiglia, ma anche alla volontà di postulare indici referenziali con «assegnazioni definitive di valori di verità» (ibidem, p. 75). Ne consegue che gli enunciati esposti concorrono a stabilire un “retto comportamento” cui il soggetto sarà chiamato a conformarsi per essere giustamente riconosciuto come tale.

Da questi brevi spunti di riflessione vorrei prendere le mosse per ripensare in modo critico le caratteristiche costitutive dei kakun in quanto genere letterario, spesso incasellato

a posteriori nella vaga nozione di zuihitsu. Com’è noto, preso alla lettera zuihitsu significa

“seguire il pennello” e rievoca il movimento fisico attraverso cui la mano dello scrittore verga i caratteri su carta, in un moto “spontaneo” e “naturale” simile a un flusso di coscienza. Si tratta di un vocabolo connotato da una storia secolare, giunto in Giappone dalla Cina

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attraverso la penisola coreana e utilizzato in tempi più recenti per indicare qualunque tipo di produzione saggistica. La sua lunga tradizione ne fa un’etichetta prestigiosa nonché euristicamente utile, poiché in grado di abbracciare svariate tipologie testuali e accomodare in un’unica classe opere di natura varia e composita (Chance 1997, pp. xiv-xv). In estrema sintesi, la categoria zuihitsu consente di conferire una “forma” anche a quei testi che ne sono sprovvisti, perciò non stupisce che diversi studiosi abbiano tentato di ascrivere a questo genere i kakun guerrieri, giustificando tale scelta nel loro modo di procedere asistematico, che incasella una lunga sequela di regole in liste frammentarie, scritte di getto e con un’andatura erratica (Kondō 1978, p. 19).

In effetti, bisogna riconoscere l’esistenza di numerose evidenze a supporto di questa interpretazione. Come si è detto, lo stile dei kakun si avvicina agli zuihitsu più “classici” nella misura in cui ciascun autore scrive attingendo alla ricchezza della proprio vissuto, ma filtrando la sua esperienza attraverso il prisma idealizzante del “precedente” in modo da trasmettere informazioni “di massima” a beneficio della comunità. La lunghezza dei testi è altrettanto variabile: alcuni – come quello di Tokitaka – sono caratterizzati da un periodare ampio e dal tono sostenuto, talvolta arricchito con l’inserimento di liriche nel tessuto della prosa; altri invece sono più brevi, contraddistinti da uno taglio incisivo e dall’immediatezza espositiva dei contenuti. Si tratta in ogni caso di elementi che rievocano lo stile eclettico dello Tsurezuregusa e di altri manuali di condotta. Tra i pensieri che Kenkō raccoglie durante quei “momenti d’ozio” molti ricordano la lettera di Tokitaka, dando credito all’ipotesi che lo Tsurezuregusa abbia esercitato un influsso cospicuo sui kakun compilati successivamente alla sua stesura (Shimauchi 1986, pp. 31-32). La struttura stessa dell’opera, organizzata in brevi sezioni indipendenti (dan 段), si riflette nella suddivisione in articoli (jō 条) tipica dei precetti di famiglia, senza contare che in più di un’occasione l’autore si sofferma a descrivere le virtù richieste a statisti, guerrieri e comandanti.28 In certi passi assume quasi un tono

perentorio nel giudicare cosa sia giusto o sconveniente, ricalcando anche linguisticamente

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le formule d’obbligo e divieto comunemente impiegate nei trattati di buon costume.29

Dopotutto, l’opera di Kenkō è spesso descritta come il “libro della Via,” quasi condensasse al suo interno la filosofia di un’intera epoca (Chance 1997, p. 40 e p. 115). Molte sue osservazioni possono essere lette alla stregua di consigli pratici e, lontano dal giudizio puramente estetico con cui si sarebbe guardato allo Tsurezuregusa negli anni della modernità, non è da escludere che in periodo Muromachi fossero percepiti come vere e proprie ingiunzioni. Peraltro, la stessa varietà di argomenti è riscontrabile in numerosi testi coevi, tant’è che in questo approccio enciclopedico al sapere sembra quasi possibile scorgere il minimo comun denominatore di tutta la produzione letteraria medievale (Ogawa 2014, pp. 273-77; Kosukegawa 2015).

A questo proposito, è significativo che Ise Sadachika faccia esplicito riferimento a Kenkō nella sua lista di precetti,30 manifestando chiara cognizione del modello (anche letterario)

da imitare:

Come dice Kenkō Hōshi, quando desideri conversare con qualcuno, che senso ha

intrattenersi con degli incapaci?31 Se chiacchierassi con persone simili non avresti

argomenti di discussione a parte futili sciocchezze o pettegolezzi. Non impareresti nulla di utile. Eppure, anche un incapace di provata onestà può diventare un modello per gli altri, può essere di compagnia durante un banchetto o intrattenere gli ospiti, che è altrettanto importante. Dovresti cercare di essere più accondiscendente. (Ozawa 2003, p. 85, art. 26)

Seppur fugace, questa citazione riveste una notevole importanza nella storia della ricezione del testo da parte della classe militare, poiché segue di appena una decina d’anni la prima menzione dell’opera di Kenkō attestata in un passo dello Shōtetsu monogatari 正徹物語, che il redattore conclude con una costatazione eloquente: «Lo stile dello Tsurezuregusa è come

29 Tali sfumature vengono rese soprattutto mediante gli ausiliari di dovere (beshi/bekarazu), gli imperativi

verbali (spesso in forma negativa), le domande retoriche e le espressioni assertive poste a fine frase (~koto nari).

30 Per una trattazione del kakun di Sadachika, si rimanda alla sezione 1.4 del presente elaborato. 31 Il riferimento più probabile è al capitolo 12 dello Tsurezuregusa.

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quello del Makura no sōshi di Sei Shōnagon» (Ogawa 2011, p. 60; cap. 74). Sebbene per ovvie ragioni il termine zuihitsu non compaia, l’associazione analogica proposta da Shōtetsu testimonia una spiccata inclinazione metaletteraria nel voler collocare i suddetti titoli sullo stesso scaffale. All’interno di questo gruppo più o meno omogeneo parrebbe possibile inserire anche trattati poetici di siffatta natura, o persino i kakun guerrieri oggetto del presente studio.

Per contro, non si può ignorare l’impasse metodologica segnalata da Linda Chance, che diffida del termine zuihitsu denunciandone l’anacronia oltre al pericolo latente di riduzionismo. Dichiaratamente, lo Tsurezuregusa prende le mosse dal desiderio del suo autore di annotare pensieri sparsi “nel vuoto di ore oziose” (tsurezure naru mama ni), senza null’altro che il tedio a motivarne la scrittura. Tuttavia, nella sua analisi Chance prende in esame anche alcuni scritti didascalici e li confronta con l’opera di Kenkō, giungendo alla conclusione che «[t]he motivation for admonitions and court manuals was an effort to preserve in its totality a world of power and privilege» (1997, p. 180). Le stesse considerazioni sono quanto mai calzanti per descrivere i kakun, che, pur sembrando a una lettura superficiale la peregrinazione mentale di un autore disinteressato, rispondono a impellenti istanze concrete. Non sempre l’esposizione dei contenuti segue criteri di progressione logica, eppure si scorge una coerenza di fondo nel messaggio, pragmaticamente orientato alla trasmissione di saperi ritenuti in grado di garantire una continuità alla traiettoria sociale ascendente del gruppo di riferimento. In tal senso, l’applicazione tout court della categoria

zuihitsu rischia di celare invece di svelare le istanze generative profonde del testo.

Questa argomentazione ci consentirà di chiarire meglio il legame intimo che sussiste tra etica, prassi politica e scrittura dei kakun, in quanto tipologia testuale capace di esprimere un universo di valori e asserire al contempo l’autorità di chi se ne fa portatore. L’ipotesi sembra trovare conferma nelle strategie retoriche impiegate da Sadachika e da altri guerrieri, che come Kenkō tendono ad assumere un atteggiamento di (falsa?) modestia dichiarando l’inutilità delle loro “quisquilie” (yoshinashigoto), quasi fossero confabulazioni che il lettore

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sarà libero di accettare o meno. Nel caso specifico di Tokitaka, egli stesso arriva a definire

sōshi 草紙 – “libretto” – il proprio scritto, quando in calce impone un rigido veto di

segretezza e dissuade il destinatario della missiva dal mostrarla ad occhi estranei (Ozawa 2003, p. 167). Nello specifico, sōshi indica una raccolta di note in apparenza di carattere privato ma invero destinate a un pubblico relativamente ampio, vicino all’autore per formazione, gusti ed estrazione sociale. Naturalmente il termine non rappresenta di per sé una ragione sufficiente per inquadrare i kakun in un macrogenere sostitutivo dello zuihitsu, sebbene sia indubbio che col tempo tale designazione abbia assunto un peculiare connotato, che unisce idealmente anche nel nome il Makura no sōshi allo Tsurezuregusa e ne fa un discriminante potente nella tassonomia letteraria giapponese. Dopotutto, andrà ricordato che sōshi allude in prima battuta uno specifico formato librario, “antenato” dei kusazōshi di epoca Edo, con cui si indica un quaderno di medie dimensioni (chūbon, prossimo a un formato B5), rilegato “a sacchetto” (fukurotoji) e atto prevalentemente a ospitare appunti personali (Ogawa 2017b, pp. 202-205; Horikawa 2015, pp. 24-27). Ritengo dunque sia possibile scorgere nell’oggetto-libro un indizio prezioso per rimodellare la nostra comprensione del genere miscellaneo. In altre parole, sarà necessario ripensare al genere come pratica socio-scrittoria, inscritta nella materialità del documento in quanto dispositivo di supporto non neutrale.

Nel suo recente studio sulla codicologia, Sasaki Takahiro (2016) ha ampiamente dimostrato che nel Giappone premoderno l’aspetto esteriore di un libro, ovvero il suo confezionamento, non è mai svincolato dal contenuto o dalle modalità di circolazione e fruizione dello stesso. Al contrario, il filologo ha messo in luce come le componenti materiche nascondano informazioni di immenso valore e possano contribuire talvolta in modo sostanziale a ricostruire il processo generativo e la linea di trasmissione di un testo. Alla luce delle osservazioni sin qui condotte, sembra possibile supporre che buona parte degli scritti in prosa vernacolare (kana) con funzione velatamente didattica fossero vergati su libri di dimensioni e rilegatura standard, al punto da poter identificare il contenuto di un

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opera direttamente dalla copertina. L’ipotesi andrà posta al vaglio con futuri studi, ma è significativo che anche il testimone più antico del Tago Tokitaka kakun rispetti queste caratteristiche “fenotipiche” pur essendo solamente una copia dell’originale.

Messo da parte per un attimo il problema del medium librario come coacervo di complesse dinamiche sociali, sarà d’obbligo tornare al setaccio dei contenuti del Tago Tokitaka kakun per segnalare alcune interessanti corrispondenze intertestuali. Inevitabilmente, infatti, la persuasività di uno scritto tende ad accresce ogniqualvolta il suo enunciato è reiterato, sia dentro sia fuori i confini fisici del testo. Si tratta di una strategia “propagandistica” tutto sommato elementare, che attinge consapevolmente a un flusso discorsivo preesistente. Ora, di questo retroterra fa indubbiamente parte una prolifica letteratura aforistica a tema didattico-giurisprudenziale, della cui terminologia l’autore si appropria liberamente. Rovesciando la tendenza tanto diffusa quanto deleteria di guardare ai testi come la più “genuina” espressione della volontà autoriale, cercherò di mostrare come le prescrizioni emanate dal guerriero per la sua cerchia si innestassero su un sostrato decisamente più ampio e come la loro elaborazione rispondesse a specifiche regole compositive. Tale fenomeno di riscrittura dà adito a complanarità discorsive di non sempre facile individuazione, pur tuttavia rilevabili attraverso citazioni sporadiche e sottili assonanze, da cui la materia testuale trae vigore performativo e trasformativo. Con una analisi di questo tipo – qui solamente abbozzata – sarà possibile tracciare itinerari intertestuali sincronici e diacronici, definire i meccanismi che presiedono la sfera semiotico-ideologica di cui il testo fa parte e sciogliere i nodi costitutivi delle rappresentazioni sociali autoimpostesi dalla classe militare in epoca Sengoku.

In questa sede mi limiterò a fornire un paio di esempi al fine di suggerire possibili sviluppi di un’analisi tuttora in fase preliminare. Anzitutto, un modello di Tokitaka va sicuramente ricercato nel Kenmu shikimoku, la raccolta di leggi promulgata da Ashikaga Takauji e suo fratello Tadayoshi nel 1336. Questo codice si rivolge a un ideale guerriero-aristocratico, che emula i grandi sovrani del passato nel sintetizzare le virtù civili e militari, e che a sua volta

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trae ispirazione dalla “Costituzione in diciassette articoli” (Jūshichijō kenpō 十七条憲法) emanata dal leggendario principe Shōtoku Taishi all’inizio del VII secolo. Il numero diciassette va dunque inteso come un riferimento esplicito, atto a evocare il governo morale per eccellenza, e non a caso ricorre in numerosi scritti politico-testamentari tra cui il kakun di Tago Tokitaka o quello ancor più noto di Asakura Toshikage 朝倉敏景 (1428-1481). Come illustrato nella sezione 3.2, il manoscritto riporta molti più paragrafi ma Tokitaka li enumera col marcatore dai 第 solo fino al diciassette. La volontà di mettere in risalto i primi diciassette articoli rinunciando a una struttura complessiva più coesa e bilanciata sembra rispondere proprio al desiderio di appellarsi a un numero dalla forte carica simbolica. Sulla