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Delocalizzare il centro: frammenti per una topologia della pratica scrittoria

Burocrazia, poesia e ordine sociale negli scritti di Sagara Tadatō (1430-1506?)

2.4 Delocalizzare il centro: frammenti per una topologia della pratica scrittoria

Si può affermare che le province di Higo e Chikuzen fossero “periferiche” rispetto a Yamaguchi almeno tanto quanto la città degli Ōuchi era periferica rispetto a Kyōto. La capitale imperiale rimase un modello indiscusso durante tutto il periodo Muromachi, sebbene i mutevoli equilibri di potere all’indomani della guerra Ōnin avessero accelerato un

33 Tadatō compare nella raccolta con lo pseudonimo Shōjin Hōshi, autore dei componimenti nn. 548,

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processo di decentramento, o piuttosto una ri-centralizzazione delle province più floride. La crescente autonomia politica e le nuove risorse a disposizione dei daimyō locali portarono alla nascita di nuovi spazi, ognuno dotato di una sua identità caratteristica. Nonostante la presenza di tratti comuni, infatti, queste sfere culturali presero forma in risposta a esigenze e preferenze diverse, che necessitano di essere indagate nella loro specificità. Se vogliamo superare un certo riduzionismo che appiattisce le periferie a un pallida mimesi del centro, credo si debba ripartire “dal basso” e rendere finalmente conto di queste realtà poliedriche nelle loro analogie e differenze. Tale approccio impone di guardare alle traiettorie dei singoli attori sociali, perché solo attraverso una scrupolosa mappatura di queste “comunità in movimento” si potrà accedere a più ampie esplorazioni del panorama tardo medievale. In questa sezione, metterò a fuoco Yamaguchi per studiare quali politiche furono adottate al fine di trasformare il capoluogo di Suō in una “piccola Kyōto.” Ancora una volta, l’attività di Tadatō servirà a tracciare nel concreto il dispiegarsi di queste dinamiche complesse.

Sotto il regime degli Ashikaga era consuetudine che gli shugo trascorressero qualche anno a Kyōto prestando servizio allo shōgun di turno. Alcuni di loro colsero questa come un’opportunità per acquisire una istruzione formale e, rientrati nei propri domini, consolidare la propria posizione con i mezzi della cultura. In molti casi, ciò si tradusse nell’applicazione tout court dei tradizionali schemi governativi. Il più “invasivo” consisteva nel riprodurre in scala l’urbanistica della capitale (Yamaguchi Hōsō Kabushiki Gaisha 1992, p. 32). Gli Ōuchi condussero questa operazione con relativa semplicità, poiché Yamaguchi condivideva con Kyōto un simile assetto geografico. Entrambe le città giacevano in una conca, circondata da montagne e solcata da un fiume (Kamogawa/Fushinogawa). Tuttavia, più dell’affinità topologica, era la funzionalizzazione dello spazio a rendere comparabili i due agglomerati urbani. Per “funzione” intendo una rete infrastrutturale altamente sviluppata, dotata di un suo centro (palazzo dello shōgun/residenza degli Ōuchi) e di un circuito di istituti politico-religiosi costruito su impronta delle regioni centrali. Ad esempio, i signori di Yamaguchi eressero un distaccamento del santuario di Yasaka, con un festival

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annuale che coscientemente imitava il famoso matsuri di Gion. Tra i vari parallelismi, si osserva a Yamaguchi la presenza di un piccolo santuario di Ise, oppure un altro dedicato a Hachiman e paragonabile al celebre Iwashimizu di Kyōto. Persino lo Enryakuji, il potente stabilimento della scuola Tendai sul monte Hiei, trovava un suo analogo nel Kōryūji 興隆 寺, tempio tutelare (ujidera) degli Ōuchi (fig. 5). L’edificio andò in fiamme durante la ribellione di Sue Harukata nel 1551, ma sappiamo per certo che il suo culto acquisì di importanza al termine del XIII secolo, quando gli Ōuchi elessero Myōken Bosatsu a divinità protettrice e il Kōryūji a sacrario del loro clan (Mori 1998, p. 3).

Numerose erano le festività che il tempio ospitava durante il corso dell’anno, consentendo all’autorità degli Ōuchi di trovare manifestazione in un ambiente rituale attentamente pianificato. Uno degli eventi principali era lo shūnigatsue 修二月会 (o più semplicemente nigatsue), il “raduno spirituale del secondo mese.” Questo incontro funzionava come una sorta di liturgia, contribuendo al consolidamento dei legami tra signore e vassalli. Il documento più antico al riguardo risale al periodo Nanbokuchō, ma è difficile stabilire esattamente quando, come e perché questa usanza ebbe origine. Apparentemente, Ōuchi Yoshihiro diede uno primo slancio nel ristrutturare il tempio, ma fu Masahiro a trasformare il nigatsue in un efficace dispositivo di potere e controllo. Per ragioni che appariranno chiare in seguito, mi soffermerò alcuni paragrafi sugli aspetti organizzativi alla base del rito così da evidenziarne la valenza socio-politica. Passerò poi a considerare il ruolo di Tadatō nell’istituzionalizzazione di nuove forme d’autorità alla fine del Quattrocento.

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Come osservazione preliminare, andrà puntualizzato che il nigatsue era una manifestazione molto laboriosa e dispendiosa. Il maestro di cerimonia (daitō 大 頭 , letteralmente “grande capo”) fungeva da ospite incaricato di pianificare, coordinare e presiedere il corretto svolgimento del progetto. Il candidato era estratto a sorte un anno prima e informato per iscritto. La lettera di nomina, detta tōyaku sajōjō 頭役差定状, veniva emessa direttamente dal capofamiglia Ōuchi il tredicesimo giorno del secondo mese e conservata presso il registro del tempio Kōryūji. La parte interessata riceveva un avviso da due segretari, che avevano il compito di trasmettere l’ordine dall’alto. L’ospite assumeva onori e oneri nel farsi carico dei costi. Per far fronte a tutte le spese necessarie e assolvere il suo compito, gli veniva concesso il diritto di riscuotere delle imposte aggiuntive. Inoltre, poteva contare sul supporto di due “assistenti” – wakitō 脇頭 e santō 三頭 – cui era richiesto di offrire rispettivamente una somma di venti e dieci kan.

Esistono una ventina di sajōjō emessi dagli Ōuchi e altrettanti dai Mōri, che mantennero viva la tradizione del nigatsue per un paio di decenni anche dopo la caduta degli Ōuchi. Da uno studio sistematico di queste fonti si evince che i daitō erano scelti entro la più stretta cerchia di familiari (ichimon) e vassalli (fudai), perlopiù residenti a Yamaguchi, mentre wakitō e santō erano eletti a rotazione e appartenevano al gruppo dei vicegovernatori (shugodai) e amministratori distrettuali (gundai). Se escludiamo qualche sporadica eccezione, gli Ōuchi sembrano aver seguito alla lettera questo principio, probabilmente per offrire una rappresentanza anche ai villaggi delle province più esterne, tra cui Buzen e Chikuzen. Questa confluenza di individui con background sociali ed esperienze diverse pare fosse l’obiettivo primario del nigatsue, il cui intento era promuovere un senso di comunità all’interno del kashindan Ōuchi (Saeki 1978, pp. 290-291).

Tuttavia, lo sforzo economico da sostenere era così ingente che alcuni daitō furono costretti a indebitarsi. In una di queste circostanze, Yoshioki (1477-1529), figlio di Masahiro, decise persino di intervenire con un editto al fine di ripristinare le proprietà del bancarottiere. Questa misura è tanto più significativa se si considera che gli Ōuchi prestavano enorme

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attenzione agli equilibri economici – in particolare all’emanazione dei tokusei 徳政, “decreti virtuosi” con cui si aboliva ogni debito contratto in precedenza – e certamente non avrebbero approvato un’azione del genere senza fondate motivazioni politiche. Piuttosto, Yoshioki è noto per le sue sentenze draconiane, che adottò nel bollare come “intollerabile” (motte no hoka) ogni richiesta di moratoria da parte dei gruppi contadini. Nondimeno, accordò quello stesso privilegio all’ospite del nigatsue, una prassi che negli anni successivi sarebbe divenuta consuetudinaria. Si presume che l’intenzione del leader fosse quella di impiegare i tokusei come strumento per affermare un’autorità induscussa, o addirittura per creare un’immagine di signore severo ma giusto, disposto a riconoscere lo sforzo dei suoi servitori e garantire alle loro famiglie il supporto necessario per adempiere un mandato importante come il daitō (Ōta 1981, p. 207).

Il rituale raggiunse pieno sviluppo alla fine del XV secolo, andando incontro a una progressiva standardizzazione dopo la morte di Masahiro, e numerose prove sostengono l’ipotesi che Tadatō abbia svolto un ruolo decisivo nell’istituzionalizzazione del nigatsue. Sappiamo infatti che fu lui a detenere la posizione di daitō nel 1501 e che negli anni successivi contribuì significativamente all’organizzazione della cerimonia, mettendo a disposizione del nuovo capofamiglia le sue conoscenze in fatto di “precedenti rituali” (senrei 先例). È emblematico anzitutto un documento della raccolta Kōryūji monjo datato 1502 e intitolato “Elenco dei nominativi non ancora incaricati di organizzare la cerimonia del secondo mese” (Nigatsue daitōyaku mikinshu no chūmon 二月会大頭役未懃衆注文, n. 184). Lo storico Mori Shigeaki ha riscontrato una somiglianza sorprendente tra questo scritto e la grafia dello

Shōjinki, inducendolo ad attribuire la lista a Tadatō. Sarà quindi opportuno ripercorrere nel

dettaglio la genesi del documento.

Da una serie di monjo dello stesso periodo risulta che Sue Hiroaki 陶弘詮 (?-1523), fratello e successore di Hiromori, nutriva un certo interesse per le procedure di selezione del maestro di cerimonia. Come si è detto, era responsabilità del capofamiglia nominare il

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officiata dal sommo rappresentante Ōuchi in quanto medium terreno del volere di Myōken, divinità del Kōryūji. Tuttavia, Yoshioki era in procinto di lasciare Yamaguchi per trasferirsi a Kyōto nel 1508 e mettersi al servizio dello shōgun Yoshitane. Forse per contrastare l’insorgere di future complicazioni, sembra che Hiroaki stesse raccogliendo tutte le informazioni necessarie ad amministrare la provincia durante l’assenza del capofamiglia. In quel frangente, Tadatō fu interrogato poiché l’unico a conservare memoria di quanto accaduto anni prima, quando si trovava alla capitale con Masahiro.

Disposti in successione, questi documenti formano una sorta di protocollo rituale in forma dialogica, assortito in una serie di domande e risposte. In particolare, le lettere vergate da Tadatō certificano il modus operandi ortodosso per effettuare la lotteria anche in assenza del capofamiglia. Nel ricostruire come il rito era performato ai tempi di Masahiro, Tadatō si avvalse dell’opinione di altri esperti – tra cui l’abate Genkō e il direttore monaco Genshun, entrambi affiliati al Kōryūji – e, in ausilio alla memoria, consultò anche del materiale segreto conservato presso il tempio. L’ultima lettera del set, indirizzata al funzionario Hironaka Takenaga, chiarisce le circostanze che portarono alla compilazione del suddetto elenco di nominativi. Nel mettere insieme questa documentazione, Hiroaki sperava di collezionare precedenti utili su cui poter fare affidamento in caso di impasse (Mori 1998, p. 29).

Durante l’assenza di Masahiro, Hiromori era vicegovernatore di Suō e Tadatō si era dovuto interfacciare con lui per dirimere la questione. Secondo quanto riferito, la consultazione assunse l’aspetto di un reciproco scambio d’opinioni “tra centro e periferia” (tohi 都鄙), alludendo con questo termine alla fitta corrispondenza epistolare occorsa tra le due sfere geografico-culturali. Con ogni evidenza, la dicotomia centro-periferia aveva incalzato una riconfigurazione del nigatsue in modo che l’autorità degli Ōuchi potesse manifestarsi anche in absentia. La posizione “decentrata” di Masahiro non influì negativamente sul suo ruolo di leader politico-religioso; anzi, se possibile uscì rinnovata dal legame materiale tra Yamaguchi e Kyōto. In ultima battuta, la madre di Masahiro sostituì

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temporaneamente il figlio nello svolgimento di alcune mansioni, mentre la vicinanza di Masahiro alla sede centrale funse da trait d’union col potere legittimo.

Qualsiasi violazione del protocollo avrebbe seriamente compromesso questa operazione di trasferimento simbolico dal centro verso la periferia, e ciò spiega almeno in parte il motivo per cui la conoscenza dei precedenti fosse tenuta in così alta considerazione. Nel caso specifico di Tadatō, le nozioni inscritte sulla carta (e nella memoria) gli avrebbero permesso di ottenere in tarda età una solida reputazione, con cui esercitare un’influenza durevole sul

kashindan Ōuchi e sulla famiglia Sagara in particolare. Come abbiamo constatato anche nel

caso di Tametsugu o dello Shōjinki, un flusso costante di fogli e missive innervava il tessuto sociale massimizzando la connettività del network. A questi documenti, infatti, non era affidato soltanto il compito di trasmettere un messaggio effimero da mittente a destinatario. Nella sezione successiva intendo approfondire la questione del galateo epistolare e mostrare come la conservazione dei monjo fosse parte integrante di un più ampio processo di soggettivazione e formazione identitaria.