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Noblesse oblige e senso pratico nei precetti di Ise Sadachika (1417-1473)

Così come il Confucianesimo tende a minimizzare la dimensione dell’individuo a favore di ambizioni universalistiche, allo stesso modo il Sekyōshō enfatizza il codice di conoscenza piuttosto che l’esperienza del singolo individuo. L’attrito fra i due approcci appare evidente quando si guarda alla ricezione dell’ideologia, ad esempio osservando come alcuni attori abbiano riconfigurato la dicotomia bunbu secondo i propri interessi. Gusoku no tame no kyōkun

issatsu 為愚息教訓一札 (“Lettera per istruire il mio stupido figlio”) di Ise Sadachika 伊勢

貞親 (1417-1473) esemplifica questo processo di appropriazione e adattamento.29

Nominato a capo del dipartimento amministrativo (mandokoro shitsuji) nel 1460, Sadachika era stato precettore del giovane Ashikaga Yoshimasa e uno stretto rapporto di fiducia lo legava alla sua influente consorte Tomiko. Forte di questo legame, la famiglia Ise conquistò un enorme potere, fino al punto da agire come mediatore privilegiato tra lo shōgun e gli altri daimyō. Inoltre, Sadachika avrebbe interferito con le dispute di successione dei clan Hatakeyama e Shiba e tirato le fila dietro le quinte per condizionare Yoshimasa nella scelta di un erede. Tale coinvolgimento accelerò il cammino verso i tumulti Ōnin, guadagnando a Sadachika la reputazione di servitore scaltro e senza scrupoli.30

La lettera trasmessa al figlio Sadamune 貞宗 (1444-1509) risale agli anni dell’era Chōroku (1457-1460) e fu scritta con ogni probabilità in occasione della sua cerimonia di passaggio all’età adulta (genpuku). Appartiene al genere comunemente noto come kakun 家訓 o “precetti di famiglia,” una tipologia testuale estremamente utile per tracciare l’evoluzione della morale guerriera attraverso il concetto-chiave del bunbu.31 La mia ipotesi è che questo

29 Esistono diversi testimoni del testo ma, per praticità, si è soliti indicare questo scritto come Ise

Sadachika kyōkun 伊勢貞親教訓. Nondimeno, il titolo interno della versione al Naikaku Bunko è

“Gusoku no tame no kyōkun issatsu” e con ogni probabilità questa era l’intestazione originale. Per una disamina filologica, vedasi Kakei (1967), pp. 126-131.

30 L’anonimo autore dello Ōninki descrive Sadachika come un uomo avido e immorale, “dedito ai piaceri

della carne, coinvolto in affari lascivi e facilmente corruttibile” (Varley 1967, p. 140).

31 La parola kakun deriva dall’espressione “ie no kyōkun” 家の教訓, che significa “precetti di famiglia”.

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documento testimoni un allontanamento significativo dagli ideali del XIV secolo verso una più fluida definizione di guerriero-aristocratico.

Una differenza lampante col Sekyōshō si riscontra nella visione disincantata della cultura che Sadachika propone. Il termine “duplice Via” (nidō) appare per la prima volta all’articolo 14, che significativamente sostituisce al pennello il cavallo: «Arco e cavallo (kyūba 弓馬) sono le cose più importanti. Pratica queste due Vie giorno e notte senza mai venir meno al tuo obbligo. [...] Esercitarsi in altre discipline è un bene, ma non è essenziale» (Ozawa 2003, p. 82). Di conseguenza, Sadachika sconsiglia di praticare il sarugaku in sostituzione alle arti marziali, poiché ignorare arcieria ed equitazione sarebbe una ignominia assai più grave che trascurare gli esercizi di danza. Altrove incoraggia il figlio a perseguire diverse forme di intrattenimento, come la lotta corpo a corpo, la falconeria e le prove di forza – sicuramente più consone all’educazione di un rampollo guerriero, purché praticate con la giusta

di un’attività commerciale, le leggi per disciplinare la condotta di funzionari e commessi, fino a includere documenti relativi a lasciti e volontà testamentarie. In questa ampia categoria trovano spazio questioni di eredità e filosofia del commercio, indicazioni pratiche e massime di vita. Il genere vanta in Asia una lunga tradizione. I primi esempi di kakun risalgono alla Cina pre-Tang: il più famoso è attribuito al nobile Yan Zhitui (531-591), che verso la fine del VI secolo raccolse a beneficio dei figli una serie di insegnamenti morali e filosofici in sette rotoli dal titolo Yanshi jiaxun (g. Ganshi kakun) 顔氏家訓. A questo esempio ne seguirono altri, accomunati dai medesimi tratti: il richiamo alla modestia e alla coltivazione di sé, alla perseveranza e alla determinazione, a uno stile di vita sobrio e lontano da ogni eccesso (Moriya 1990). In Giappone, alcuni considerano la “Costituzione dei diciassette articoli” promulgata da Shōtoku Taishi nel 604 come una sorta di kakun ante litteram. Del resto, già in periodo Nara compaiono i primi trattati didascalici di ispirazione cinese: uno di questi è lo Shikyō ruiju 私教類 聚 di Kibi no Makibi (695-775), che oltre a fornire consigli di vita quotidiana illustra i cinque precetti del Buddhismo e le cinque virtù cardinali confuciane. Similmente, l’imperatore Uda (r. 887-931), nell’atto di abdicare in favore del figlio, avrebbe compilato una sorta di prontuario per trasmettergli le nozioni politiche necessarie a un governo retto e giusto (Kanpyō no goyuikai 寛平の御遺誡). Verso la fine del XII secolo, quando il potere si accentrò nelle mani dell’aristocrazia militare, fecero la loro comparsa i “kakun guerrieri,” primo fra tutti quello di Hōjō Shigetoki (1198-1261). Tuttavia, lungi dal rimanere appannaggio esclusivo della classe dominante, l’uso di redigere liste di precetti si diffuse a vari livelli e nei secoli successivi venne adottato con le modalità e gli obiettivi più disparati anche da altre enclave sociali, in particolare quelle mercantili. Ogni kakun conserva le tradizioni della famiglia in cui nasce e a cui si rivolge, mantenendo una propria specificità all’interno del dialogo ideale che si instaura fra l’autore-capofamiglia e la sua discendenza. Alcuni si presentano come codice asistematico di norme e regole, altri in forma epistolare, altri ancora come autobiografia commentata, annotazione di pensieri sparsi o raccolta di citazioni. Non mancano inoltre “kakun lirici,” in cui è la poesia a veicolare un preciso insegnamento morale. Per una panoramica dettagliata sul genere kakun nel Giappone premoderno, vedasi Kakei (1967), Kagotani (1975), Kondō (1983) e, in lingue occidentali, Steenstrup (1979) e Wilson (1982).

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moderazione (art. 13). Tuttavia, è in questo passo che il pragmatismo di Sadachika appare più che mai evidente:

Per quanto riguarda la Via della poesia, anche se non dimostri particolare attitudine, dovresti sforzarti di conoscere almeno la forma. Una volta, quando presi parte a una competizione letteraria, mi ritrovai intrappolato nella stanza allorché mi fu chiesto di estrarre un foglio e improvvisare una poesia sul tema “Ciò che resta della

notte,”32 senza poter lasciare il mio posto o consultarmi con altri.33 Non capivo

neppure cosa significasse e già stavo arrossendo dalla vergona, quando Nōa[mi],34

compresa la situazione, scrisse su un bigliettino la definizione e le regole di composizione e me lo passò di nascosto. Non appena lo lessi, seppi cosa fare ed evitai un’umiliazione pubblica. Nel ricordare questo episodio, non posso sottolineare abbastanza quanto sia importante trovarsi preparati. Come dicevano gli antichi, “più che alla Via (michi 道), dedicati alla Tecnica (gei 芸)!” [...] Tuttavia, evita di trascurare le due Vie dell’arco e del cavallo per perseguire questa. Ricorda

32 “Ciò che resta della notte” (joya 除夜) si riferisce alla sera di capodanno, un momento intimo

associato al ricordo di avvenimenti e persone, al dolore per il tempo perduto e a un vago senso di malinconia, in qualche modo mitigato dall’arrivo imminente della primavera. La prima opera a presentare questo tema è lo Horikawa hyakushū (KT nn. 1105-1120), una importante raccolta di centurie poetiche compilate all’inizio del XII secolo che avrebbe trovato vasta eco e influenza. Apparentemente, questo soggetto poetico godette di una certa risonanza presso la scuola Kyōgoku, tanto da apparire oltre trenta volte nella collezione personale del suo più illustre rappresentante, il Fushimi-in gyoshū dell’imperatore Fushimi (r. 1287-1298). Non stupisce, quindi, trovarne due esempi anche nel Gyokuyōshū (KT nn. 1032 e 2759), la quattordicesima antologia imperiale compilata nel 1312 da Kyōgoku Tamekane (1254-1332). Tuttavia, “joya” non compare in nessun altra chokusenshū, tantomeno in quelle della scuola Nijō. La perplessità di Sadachika suggerisce che non divenne mai un argomento di composizione diffuso, probabilmente oscurato da seibo 歳暮 (“Fine dell’anno”), il suo equivalente più comune (UUD p. 473). Questo fatto spiegherebbe anche il motivo per cui nel Kanjinshū di Inawashiro Kensai (1452- 1510) troviamo scritto in piccolo la nota esplicativa «[joya] indica la notte del cambiamento stagionale» (sechibun no yo no koto nari, KT n. 226), altrimenti pleonastica. Nella scuola Reizei, il poeta Seigan Shōtetsu (1381-1459) opera un distinguo tra seibo e joya, specificando che il primo ha in effetti una connotazione più ampia e può includere anche il penultimo giorno dell’anno (Shōtetsu monogatari, cap. 55; Ogawa 2011, p. 50).

33 Questa pratica va sotto il nome di saguridai 探題 e consiste nell’assegnare casualmente ai concorrenti

del certame un foglio lungo e stretto (tanzaku) con un tema poetico (kadai) indicato nella parte superiore. Esaurito il tempo, un giudice raccoglie le composizione estemporanee per declamarle pubblicamente e annunciare il vincitore.

34 Nōami (1397-1471), noto anche come Shinnō, era consulente personale dello shōgun in materia di

gusto. Esperto di pittura e poesia renga, raggiunse la posizione di dōbōshū 同朋衆 sotto Yoshinori e fu supervisore della preziosa collezione d’arte degli Ashikaga. Il suffisso –ami, spesso omesso, era identificativo di sacerdoti e seguaci della Jishū, un gruppo affiliato al Buddhismo della Terra Pura.

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che la poesia è prima fra le altre, ma seconda alle due Vie [di arco e cavallo]. (Art. 15; Ozawa 2003, pp. 82-83)

Risulta chiaro da questa citazione che il significato racchiuso nel motto di “duplice Via” è radicalmente mutato. Sebbene il significante sia sempre lo stesso (nidō), il suo contenuto è marcatamente più orientato al bu. La designazione metonimica subisce un assestamento equivalente. Non troviamo più alcun riferimento al pennello, bensì una serie di articoli che trattano dell’abbigliamento da adottare nelle quotidianità come nella guerra (art. 3, 16, 18). Ad esempio, Sadachika detta un codice di condotta per il suo giovane erede, soffermandosi su quanto lunga debba essere la sua spada nelle occasioni formali (art. 17). Infine, nel descrivere una dimora ideale, afferma che un bushi dovrebbe sempre esporre in casa armi e cavalli, senza curarsi troppo del mobilio. Oggetti potenzialmente violenti trasferiscono un potere simbolico al loro proprietario, delegandogli la scelta di attuarne il potenziale o limitarne l’impiego. Il testo mette in mostra proprio questi oggetti, in quanto essi rafforzano l’appartenenza dell’autore alla classe dominante. D’altra parte, qualsiasi accessorio inutilmente stravagante – come dipinti e rotoli illustrati – è detto ridondante e consono piuttosto alla casa di un mercante (art. 29).

Come già argomentato, gli oggetti codificano le pratiche e le pratiche definiscono i soggetti, ma ciò a cui assistiamo nel caso di Sadachika è una sorta di ricalibrazione della metonimia. Volontariamente o meno, infatti, questa operazione sovverte l’ideologia onnicomprensiva della “doppia Via” così come è formulata nel Sekyōshō. Sottolineando la disparità tra bun e bu e asserendo la preminenza del secondo, l’autore sceglie di ridurre la propria sfera d’azione; tuttavia, questa riduzione mira più all’accrescimento del potere che all’autocontrollo. Si può supporre che l’acquisizione del solo capitale culturale non fosse più ritenuta sufficiente in un’epoca di tumulti sociali e, da qui, la necessità di stabilire un controllo serrato attraverso l’esercizio della violenza fisica o simbolica. In altre parole, le mutate condizioni storiche portarono a un massiccio dispiegamento dei mezzi militari, che trasformarono la violenza stessa in una pratica di autoaffermazione anche sul piano della

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retorica. Dopotutto, come il missionario portoghese João Rodrigues (c. 1562-1633) ebbe ad ammettere un secolo più tardi, «il governo in Giappone dipende più dalle armi che dalle lettere» e perciò «[i giapponesi] imparano solo quanto basta all’ordinario uso sociale».35

Trattandosi di un funzionario d’alto rango, Sadachika riconosce il valore della nobiltà e dei suoi riti, ma solo nella misura in cui apportano prestigio sociale. Lo shōgun Yoshimasa era notoriamente appassionato di poesia (Keene 2003, pp. 115-117) e la preoccupazione di Sadachika potrebbe essere stata quella di compiacere il suo signore. Ciononostante, è facile supporre che questo suo investimento culturale abbia servito al contempo gli obiettivi carrieristici di una casata all’apice del successo, tanto che nei decenni a venire gli Ise si sarebbero imposti come legittimi depositari dei più antichi costumi guerrieri (buke kojitsu 武 家故実).36 Anche il timore della stigmatizzazione pubblica, espresso a più riprese in questa

lettera (art. 9, 11, 20, 22, 36, 37 ecc.), contribuisce al progetto di diventare «uno specchio per il paese» (tenka no kagami 天下の鏡, art. 38).

Indulgendo nella stessa metafora, potremmo dire che il punto di vista dell’autore ha prodotto una silhouette che evidentemente non coincide con l’immagine del guerriero ideale riflessa nel Sekyōshō. L’assassinio dello shōgun Ashikaga Yoshinori nel 1441 – episodio noto come Ribellione di Kakitsu – e successivamente il conflagrare delle guerre Ōnin destabilizzarono la configurazione di potere. Sotto queste spinte, ebbe luogo una conversione del capitale civile (bun) in capitale militare (bu) e guerrieri del calibro di Sadachika iniziarono a “colonizzare” il quadrante in alto a sinistra della Figura 2,37 riuscendo

35 La citazione è contenuta nel secondo libro della Storia della Chiesa in Giappone (Cooper 2001, p. 340).

Rodrigues riconosce anche l’importanza di “Ise-no-Kami Dono” come maestro di cerimonia, ammettendo di aver tratto molte informazioni dalla loro ricca biblioteca: «[Ise] family possesses copious books dealing in detail with the subject of their customs and the way of observing them. Some of the things that we have written here have been taken from their books» (libro primo, ibid. p. 177).

36 Nella sua ricerca sui riti guerrieri, Futaki descrive la rapida ascesa della famiglia Ise durante e dopo

l’era Ōnin. Inoltre, attribuisce il crescente interesse nel buke kojitsu a una nuova “autocoscienza” (jiishiki 自意識), che investì non soltanto gli emergenti signori della guerra, ma anche gli individui appartenenti a classi inferiori e in cerca di riscatto sociale (1985, pp. 239-240).

37 Le figure del discorso possono produrre risultati sia “artistici” che “realistici,” influenzando la

percezione che si ha del mondo. Tuttavia, quando parlo di “conversione” mi riferisco a uno spostamento simbolico, senza implicare che lo scambio sia necessariamente avvenuto anche a livello

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ad affermare la propria egemonia in uno spazio retorico incontaminato. Nei decenni successivi, molti signori della guerra si impegnarono a vari livelli in questa disputa attorno al concetto di bunbu, talvolta proclamando il primato della forza bruta, talaltra adottando una ratio più equilibrata. In entrambi i casi, il loro obiettivo deve essere stato quello di ricavarsi un posto nel campo discorsivo, stabilendo al contempo uno stile di vita proficuo (kafū 家風) per se stessi e la loro progenie.38