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1. La lettera del 20 aprile 1606

1.3 Comunicare per tacere

Fornire informazioni al suddito non implicava dunque rinunciare alla censura: per Venezia rimaneva prioritario mantenere la maggior parte dei suoi sudditi ignari di quanto stava accadendo, al riparo dagli scrupoli etico-politici che la notizia delle sanzioni spirituali avrebbe potuto generare in loro. A tre giorni dalla pubblicazione del monitorio, con un mese a disposizione prima dello scadere dell‟ultimatum, Venezia auspicava ancora di risolvere gli attriti con Roma in via diplomatica, evitando di conferire al conflitto una dimensione pubblica. Il governo veneto fornì informazioni nella misura in cui tale concessione avrebbe evitato al Principe la richiesta da parte dei sudditi di ben più imbarazzanti spiegazioni sul suo operato: almeno per il momento, la circostanziata diffusione di notizie sulla crisi rappresentava un‟azione complementare a quella di censura, funzionale a salvaguardarne l‟efficacia. Il governo veneto scelse infatti di rivolgersi solo ed esclusivamente a quelle categorie di sudditi ritenute più esposte alla notizia delle sanzioni spirituali, se non già compromesse: da un lato dunque si ammonì il clero, destinatario dichiarato del monitorio,43 dall‟altro si scrisse ai consigli delle comunità maggiori della Terraferma veneta, alle élite locali, a soggetti dotati di un certo grado di cultura – giuridica e politica innanzitutto –, legati per parentela alle gerarchie ecclesiastiche, inseriti in circuiti e reti sovranazionali, dotati di capacità e competenze

42 DE VIVO, «Il vero termine di reggere il suddito» cit.; R.VILLARI, Elogio della dissimulazione: la lotta politica nel

Seicento, Roma, Laterza, 1987, pp. 1-48; J.R.SNYDER, Dissimulation and the Culture of Secrecy in Early

Modern Europe, Berkeley – Los Angeles – Londra, University of California Press, 2009, pp. 106-158; B.

DOOLEY, Introduction, in The Politics of Information in Early Modern Europe, a cura di Dooley e S. A. Baron,

Routledge, Londra – New York, 2001, pp. 3-4 (pp. 1-16).

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specifiche nonché di strumenti di accesso all‟informazione.44 Non potendo garantire in alcun modo un controllo efficace sulla corrispondenza, sulla circolazione di manoscritti e sulle conversazioni private – per non parlare delle confessioni – delle élite di Terraferma, la Repubblica preferì parlare loro nel tentativo di richiamarli al dovere della fedeltà. In un tono conciliante e paternalista, la lettera illustrava l‟assurdità delle pretese romane, la legittimità della legislazione contestata, e la sua assoluta utilità per il bene comune.45

Pur rimanendo fedele alla censura e alla cosiddetta strategia del diniego, la decisione di scrivere alle comunità maggiori segnava già un parziale superamento di quella linea politica: con la lettera del 20 aprile il governo veneto operava allo scopo di consolidare la tenuta dei nodi che legavano il Dominio alla sua Dominante, nodi stretti faticosamente in due secoli di dominazione veneziana e che nell‟aprile del 1606 Paolo V si era riproposto di sciogliere con l‟arma spirituale. Una corretta interpretazione della svolta impartita dal governo veneto alla sua politica di gestione della crisi e dell‟informazione non può prescindere da una riflessione sulla struttura politico-istituzionale dello Stato da Terra. Il Senato aveva optato per un‟apertura della comunicazione politica dalla portata limitata, ma proprio per questo estremamente efficace: garantirsi l‟appoggio delle élite cittadine e distrettuali avrebbe significato mantenere il controllo dei centri nevralgici dell‟amministrazione statale e tramite essi di interi distretti, in virtù delle ampie prerogative di controllo sul territorio accordata ai centri maggiori sin dai tempi della prima conquista veneziana della Terraferma. Il Principe scelse di rivolgersi non all‟intera popolazione, bensì ai suoi rappresentati, a quelle istituzioni e oligarchie locali capaci di mediare e rappresentare la fedeltà delle masse suddite verso Venezia. In un conflitto le cui sorti si sarebbero giocate sull‟ottenimento del consenso del suddito-fedele, la lettera del Senato rappresentava dunque il tentativo di Venezia di attestarsi su una posizione di vantaggio sia sul piano della persuasione delle coscienze, sia su quello più concretamente geo-politico del controllo del territorio. Scelta estrema e rischiosa, la concessione alle élite locali di informazioni sull‟operato di governo dimostra la precoce comprensione da parte del

44 J. GRUBB, La famiglia la roba e la religione nel Rinascimento. Il caso veneto, Vicenza, Neri Pozza, 1999, in

particolare pp. 173-210. Con riferimento alle reti commerciali si veda E.DEMO, Mercanti di Terraferma.

Uomini, merci e capitali nell'Europa del Cinquecento, Franco Angeli, 2012. Sul tema della diffusione

dell‟informazione presso le élite locali si veda F.J.LEVY, How Information Spread Among the Gentry, 1550-

1640, in “The Journal of British Studies”, 21, fasc. 2 (1982), pp. 11-34.

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governo veneto delle implicazioni del monitorio e della centralità conferita al suddito dalle sanzioni spirituali.

Una centralità che, se il monitorio si impegnava a enfatizzare, la lettera, al contrario, cercava di minimizzare. Fornire informazioni al suddito non significava dialogare con esso, così come concedere paterne spiegazioni sulla natura delle leggi contestate non implicava conferire alle élite di Terraferma una facoltà di giudizio sull‟operato del Principe.46 Significativo il fatto che nel corpo della missiva Sua

Serenità scegliesse di non rivolgersi mai direttamente al suo destinatario, di riferirsi ai

consigli delle comunità sempre e solo con un‟impersonale terza persona plurale.47 L‟andamento assertivo e monologante di quella singolarissima lettera ne faceva uno strumento di comunicazione unidirezionale; con essa il Principe si riservava di illustrare – comunicare –48 lo stato della crisi e esprimere le sue ragioni come in un soliloquio al quale il suddito era stato invitato ad assistere in qualità di passivo spettatore. La lettera inviata alle comunità del Dominio esponeva le ragioni del Principe, ma si guardava dal porre domande o sollecitare risposte: se con essa il governo veneto si riproponeva di sondare la fedeltà delle élite di Terraferma, bisogna comunque rilevare come in nessun passo della lettera venisse formalmente chiesta loro la benché minima esternazione di consenso. Assertivo, il Principe si riferiva alla «continuata devozione» dei sudditi verso la Repubblica come a un dato acquisito, indiscutibile e indubitabile: 49 come è stato intelligentemente rilevato, seppur contraddistinta da diverse fasi, la politica di comunicazione tenuta da Venezia durante l‟Interdetto fu caratterizzata da una ricerca del consenso attraverso la sua artificiosa rappresentazione, la sua pubblica esibizione per mezzo di strumenti di comunicazione fortemente performativi.50

Con la lettera del 20 aprile il doge elargiva dunque insindacabili argomentazioni calate dall‟alto insieme a rassicuranti informazioni che il suddito si sarebbe dovuto limitare a recepire con riconoscenza, senza dibatterle. Il soliloquio del Principe cessava solo al termine dello scritto, quando «Sua Serenità» si rivolgeva – questa volta direttamente – ai rettori, i patrizi veneziani che in qualità di emanazione periferica della Repubblica avrebbero dovuto riferire le sue parole ai consigli delle comunità:

46 DE VIVO, Patrizi, informatori, barbieri cit., pp. 46-47. 47 Ibidem.

48 Ibidem.

49 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15, c. 19r-20v, parte del 20.04.1606; c. 20r. 50 DE VIVO, Patrizi, informatori, barbieri cit., passim.

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Queste tutte cose et validissime ragioni volemo, et co‟l Senato vi commettemo, che fatto riddure quel Magnifico Consiglio debbiate con accomodata forma di parole rapresentare a quei fedelissimi nostri.51

I rettori, prima ancora che le assemblee locali, avrebbero beneficiato delle informazioni contenute nella lettera: almeno dal punto di vista formale, bisognava ammettere come a loro fosse destinato il dispaccio e come fosse il loro nome e non quello delle «Magnifiche comunità» suddite a comparire nella soprascritta.52

Il 20 aprile 1606, sotto forma di parola del doge, il Senato consegnava dunque alle magistrature periferiche l‟esito del dibattimento interno alle magistrature centrali con l‟ordine di farne parte una determinata categoria di sudditi: l‟informazione avrebbe raggiunto la Terraferma seguendo un iter usuale e ampiamente riconosciuto, proprio delle lettere ducali, uno degli strumenti consueti attraverso i quali Sua Serenità – in realtà, secondo la già rilevata convenzione, le più svariate magistrature lagunari –, tramite i suoi rappresentanti, era solita informare il suddito delle decisioni assunte tanto in via deliberativa (parti) quanto in via giudiziaria (sentenze).53 Veicolando l‟eccezionale contenuto della lettera attraverso i più abituali percorsi della comunicazione tra magistrature centrali, magistrature periferiche e istituzioni locali, il governo veneto ammantava di normalità quella che restava una concessione di informazioni del tutto straordinaria: per quanto la lettera del 20 aprile 1606 costituisse un unicum irriducibile a modelli precostituiti, la quasi totalità dei rettori non ebbe esitazioni a definirla «lettere di Sua Serenità»54 e alcune comunità si spinsero a riferirsi ad essa con l‟appellativo di «lettere ducali».55

51 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15, c. 20r, parte del 20.04.1606. 52 Ivi c. 19r, parte del 20.04.1606.

53 Dedicandosi al tema del rapporto tra città e Stato in una prospettiva comparativa, Marino Berengo

ha rilevato nelle lettere ducali veneziane una assuoluta peculiarità dal punto di vista della comunicazione tra Principe e comunità suddite: «Il doge di Venezia [...] non intrattiene corrispondenza coi consigli delle città suddite; le lettere ducali – che costituiscono il canale ordinario di comunicazione tra il governo e le amministrazioni locali – sono indirizzate ai rettori, ai membri cioé del patriziato veneziano» (M.BERENGO, L‟Europa delle città, Torino, Einaudi, 1999, pp. 44). Per un raffronto tra lo

stile della lettera del 20 aprile 1606 e quello delle consuete lettere ducali, rimando a registri di ducali conservati negli archivi delle comunità di Terraferma (si veda ad esempio il ben ordinato fondo padovano in ASPD, ACA, Ducali) o ancora alle numerose raccolte a stampa (a puro titolo esemplificativo si veda *Raccolta di privilegi, ducali, giudizi, terminazioni, e decreti pubblici sopra varie materie

giurisdizionali, civili, criminali, ed economiche, concernenti la Città e provincia di Brescia, in Brescia, dalle stampe di

Gian Batista Bossino, 1732).

54 ASV, Sen., Disp. dei rettori, Bergamo, f. 4 c. n.n., alla data 23.04.1606; ivi, Brescia, f. 6, c. n.n., alla data

25.04.1606 (da Orzinuovi); ivi, Brescia, f. 6, c. n.n., alla data 26.04.1606 (da Salò); ivi, Belluno, f. 1, c. 37, c. n.n., alla data 27.04.1606; ivi, da Feltre, f. 1, c. n.n., alla data 23.04.1606; ivi, Padova, f. 3, c. n.n., alla

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La lettera del Senato divergeva tuttavia dalle normali comunicazioni del Principe per un aspetto sostanziale e rilevante: a differenza delle lettere ducali, il dispaccio del 20 aprile 1606 sarebbe dovuto rimanere nelle mani dei rettori e non venire in alcun modo consegnato ai rappresentanti delle comunità per l‟archiviazione nelle cancellerie locali. La disposizione – già applicata nell‟ordinare al clero di non accettare copie del monitorio e di perseverare nelle celebrazioni –56 non compariva nella lettera bensì in un dispaccio ad essa allegato, destinato ai soli rettori.57 La comunicazione dello stato della crisi e delle ragioni della Repubblica sarebbe dunque dovuta avvenire solo ed esclusivamente in forma orale.58 Un ulteriore diaframma complicava le possibilità di un dialogo diretto tra il Principe e i suoi sudditi: alle élite locali venne concesso di ascoltare la voce del doge, per quanto mediata dal rettore, ma non di conservarne una memoria scritta. Le rigorose indicazioni date dal Senato ai rettori testimoniano tutta la riluttanza della Repubblica ad aprirsi alla comunicazione: parlare al suddito di ragion di Stato rimaneva una rischiosa extrema ratio i cui esiti imprevedibili e compromettenti dovevano, per quanto possibile, essere tenuti sotto controllo. Il dispaccio allegato alla lettera commissionava ai rettori un puntuale resoconto delle reazioni dei consigli locali nel ricevere la notizia della crisi: se non si poté evitare di aprire una comunicazione con il suddito, almeno si tentò di celarne l‟esistenza nel segreto dei consigli locali e ancor più nel carteggio tra il Principe e i suoi rappresentanti in Terraferma. Affidando la difesa della sua posizione alla sola oralità, consegnando la lettera ai soli rettori, il governo veneto si premuniva contro il

data 21.04.1606; ivi, Padova, f. 3, c. n.n., alla data 23.04.1606 (da Este); ivi, Padova, f. 3, c. n.n., alla data 27.04.1606, (da Montagnana); ivi, Rovigo, f. 3 c. n.n., alla data 23.04.1606; ivi, Udine e Friuli, f. 3, c. n.n., alla data 23.04.1606 (da Pordenone); ivi, Verona, f. 3, c. n.n., alla data 23.04.1606 e 24.04.1606; ivi,

Verona, f. 3, c. n.n., alla data 23.04.1606 (da Cologna); ivi, c. n.n., alla data 22.04.1606 (da Peschiera);

ivi, Vicenza, f. 4, c. n.n., alla data 21.04.1606. I rettori di Brescia invece la definirono dapprima «commissione» e in seguito «communicatione» (ivi, Brescia, f. 6 c. n.n., alla data 23.04.1606). Parlando al Consiglio di Udine Francesco Erizzo, la definì «paterna e confidente communicatione» (ivi, Udine e

Friuli, f. 3, c. n.n., alla data 24.04.1606) ma rivolgendosi al Parlamento della Patria del Friuli la chiamò

«lettera della Serenità Vostra» (ivi, Udine e Friuli, f. 3, c. n.n., alla data 07.05.1606). «Communicatione» la definì Francesco Valier provveditore di Cividale del Friuli (ivi, Udine e Friuli, f. 3, c. nn., alla data 24.04.1606 da Cividale del Friuli).

55 Giustiniano Badoer, provveditore della fortezza bresciana di Asola, presentò la lettera come una

ducale (ASV, Sen., Disp. dei rettori, Brescia, f. 6, 25.04.1606). Per tale la comunità di Padova la registrò nei verbali del Consiglio cittadino (ASPD, ACA, Atti, b. 21, reg. anno 1606, c. 14r).

56 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15, c. 13v-14r, parte del 17.04.1606 e ivi, c. 19r-20v.

57 Si vedano gli ordini allegati alla lettera, destinati ai soli rettori (ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg.

15, c. 20v, parte del 20.04.1606).

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rischio di una circolazione scorretta e incontrollata di un messaggio inusuale e potenzialmente controproducente. Divulgati in maniera incontrollata, i provvedimenti varati dal Senato per arginare l‟offensiva romana avrebbero sortito effetti diametralmente opposti: paradosso della censura, negare la validità delle sanzioni pontificie avrebbe significato fare il gioco di Paolo V, contribuire alla loro divulgazione conferendo loro efficacia.59 Per la stessa ragione, tanto negli ordini dati al clero quanto nella lettera inviata alle comunità, il Senato evitò accuratamente qualsiasi riferimento specifico al monitorio – si sostituì il termine con elusive perifrasi – mentre le sanzioni spirituali vennero paventate come remota eventualità.60 Per quanto possibile, una simile comunicazione sarebbe dunque dovuta rimanere all‟interno dei binari unidirezionali e segreti che il Senato aveva predisposto.