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1. La lettera del 20 aprile 1606

1.7 I rischi del contraccambio

Come suggerito dall‟iconografia delle tre Grazie e come il Senato stesso ammetteva liberamente nella sua lettera, il ciclo della gratitudine si configurava al pari di un moto auto-poietico: almeno in linea di principio, i dovuti ringraziamenti delle comunità, le loro enfatiche esibizioni di fedeltà, avrebbero finito coll‟obbligare il Principe a ringraziare a sua volta, a contraccambiare impegnandosi a perseverare con maggiore sollecitudine nella sua azione tutoria. In prima istanza l‟onere del ringraziamento alle comunità venete non poté che ricadere sui rettori, mediatori di quell‟inusuale dialogo tra Principe e suddito. Così, dopo aver suscitato nei veronesi una generosa e veemente profferta di devozione, il capitano Bernardo Marcello si trovò costretto a corrispondere in maniera adeguata, promettendo loro il favore del doge e tutta la gratitudine della Repubblica.194 La medesima dinamica è riscontrabile anche a Padova195 e a Rovigo,196 altre rettorie dove si registrarono esibizioni di fedeltà particolarmente elaborate, ma anche in centri minori quali Este, dove Emilio Da Canal «aggradendo così degna risposta» da parte del Consiglio locale promise apertamente di «darne conto» a Sua Serenità affinché volesse «tenir et conumerare»

193 Sulla retorica dell‟umiltà nell‟ambito della comunicazione politica tra governanti e governati si veda

A. WÜRGLER, Voices from among the “Silent Masses”: Humble Petitions and Social Conflicts in Early Modern

Central Europe, in Petitions in Social History cit., pp. 11-34.

194 ASV, Sen., Disp. dei rettori, Verona, f. 3, c. n.n., alla data 23.04.1606, dispaccio di Bernardo Marcello,

capitano di Verona.

195 «Non habbiamo mancato di comendare questa tanto affettuosa et divota loro dimostratione come

effetto non nuovo ma sicuramente aspettato dai cuori loro affirmandole che come sarà da noi debitamente rappresentata alla Serenità Vostra così riuscirà anco a lei altre tanto cara et grata» (ivi,

Padova, f. 3, c. n.n., alla data 21.04.1606.

196 «Io resi loro quelle gratie che mi parve convenirsi à tanto, et così pronto affetto verso la Serenità

Vostra la quale non può desiderarsi sudditi li più preparati né li più intenti al suo servitio di questi» (ivi,

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quei «fedelissimi suditi [...] tral li suoi più carissimi».197 Nella vicina Montagnana il podestà Giovan Pietro Giustinian, terminata l‟orazione di risposta, non mancò di ringraziare i consiglieri «a nome di [Sua] Serenità come si conveniva».198

Promettendo di mettere al servizio della Repubblica vite, averi e discendenza, le comunità di Terraferma contrassero con il Principe e i suoi rappresentanti un credito di gratitudine che non tardarono tuttavia a riscuotere. Leonardo Valier, provveditore e capitano di Salò, scrisse a Venezia di non aver potuto negare ai rappresentanti della Magnifica Patria di presenziare alla stesura del suo dispaccio per non dimostrarsi ingrato nei confronti di una popolazione che solo pochi istanti prima aveva mostrato tutto il suo eccezionale ardore filo-veneziano.199 Nell‟immediato, le comunità di Terraferma investirono il proprio credito di gratitudine nel tentativo di ampliare i margini del dialogo che, suo malgrado, il governo veneto aveva finito per avviare e che con tanta fatica stava cercando di controllare. Pur dichiarandosi certi del fatto che Sua Serenità fosse stata «pienamente raguagliata dal‟Illustrissimo Signor podestà [...] del riverente et sviscerato [loro] affetto» i vertici della comunità di Cologna Veneta vollero indirizzare al «Serenissimo Principe» una propria lettera di ringraziamento. In essa ribadivano quanto preannunciato dal podestà nel suo dispaccio: la comunità aveva reputato quanto mai utile delegare al «governator cittadino» Tebaldo Stanga di presentarsi ai piedi del doge affinché attestasse «con viva voce [...] l‟hereditaria et non mai interrota costantissima fideltà» colognese e porgesse le «humili et riverenti gratie che con eccesso di tanto amore habbi voluto partecipare con [...] suoi divotissimi servi quanto passa nelli travagliosi negotii promossi dal moderno sommo pontefice».200

La comunicazione avviata con la lettera del 20 aprile aveva ormai travalicato gli stretti confini pensati dal Senato: ben lungi da costituire un messaggio assertivo, un discorso performativo201 calato dal vertice dello Stato alla sua base e destinato ad essere accolto da un semplice assenso, la lettera generò nelle comunità suddite il desiderio di presentarsi a Venezia per dar voce ai propri pensieri, aprendo il dialogo

197 Ivi, Padova, f. 3, c. n.n., alla data 23.04.1606 dispaccio di Emilio Da Canal, podestà di Este. 198 Ivi, c. n.n., alla data 27.04.1606 dispaccio di Giovan Pietro Giustinian, podestà di Montagnana. 199 ASV, Sen., Disp. dei rettori, Brescia, f. 6, c. n.n., alla data 26.04.1606, dispaccio di Leonardo Valier,

provveditore e capitano di Salò.

200 Ivi, Verona, f. 3, c. n.n., alla data 24.04.1606, lettera della Comunità di Cologna al Principe e ivi,

23.04.1606, dispaccio di Tommaso Duodo, podestà di Cologna.

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tra governanti e governati ad una pericolosa aleatorietà. La stessa prorompente spontaneità delle profferte di fedeltà, pienamente auspicata dal Senato e largamente incitata dai rettori, venne addotta dai consiglieri locali come valido motivo per abbandonare i canali di comunicazione pensati dalla Dominante, scavalcare il rettore e tentare di interloquire quanto più direttamente possibile con il Principe.202 Per i rettori di Vicenza la penna non poteva bastare a rendere conto del grado di fedeltà di quella città; più che legittima dunque la richiesta del Consiglio vicentino di dare commissione ai propri ambasciatori a Venezia di presentarsi ai piedi del doge:

potemo aggiungerle di conoscer, anzi veder espresso in ogn‟uno di questi Magnifici cittadini prontezza e vivezza tale verso l‟interesse della Serenità Vostra che penna non basta ad esprimerla. Et essi medesimi stimando poco quello che hora hanno potuto dirci, espediscono ai loro ambasciatori commissione efficacissima per farle riverenza in supplemento dell‟intero di loro accesi cuori, professando che di tutte le città soggette alla Serenità Vostra nonne habbi ella alcun‟altra che non pur non l‟avanzi, ma non la pareggi di ardire, di volontà e di fede verso la Serenissima Republica.

Vagliata in Senato il 20 aprile, la lettera del Principe venne letta a Vicenza il giorno successivo.203 Ancora un giorno e gli ambasciatori vicentini già presenti a Venezia, ricevuti ordini e informazioni da parte dei deputati cittadini, si presentarono in Pien Collegio per ringraziare personalmente il doge. La sera stessa scrissero di rimando a Vicenza, dando conto dell‟esito della loro ambasceria. A loro avviso, per quanto il doge Leonardo Donà in persona avesse dato «al solito gratiosa risposta», bisognava prestare orecchio anche a quanto «da diversi» si era sentito «prudentemente discorere»:

dovemo ben tutti viver pronti et rissoluti di seguire in ogni caso la fortuna di questi nostri Serenissimi Signori et di spendere il sangue et la vita per servitio loro in cadauna sorte di sua occasione, ma che però potemo ancho per diversi ragionevoli rispetti contentarsi di quanto fin hora ha fatto la nostra città senza

202 Sull‟ambasceria come strumento di comunicazione diretta e personale con il Principe si veda

DELLA MISERICORDIA, Como se tuta questa universitade parlasse cit., passim. 203 ASV, Sen., Disp. dei rettori, Vicenza, f. 4, c. n.n., alla data 21.04.1606.

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procedere più oltra ad altra publica dimostratione nel presente negotio senza novo et espresso ordine [del doge]. 204

Ufficialmente il Principe si compiaceva per la fedeltà mostrata dai vicentini, ma ufficiosamente chiedeva loro la cessazione di ogni ulteriore esibizione di lealismo. Gli ambasciatori cittadini rilevarono e interpretarono con acume lo scarto esistente tra i contenuti espressi dal doge in occasione dell‟udienza ducale e quanto emerso dai colloqui intrattenuti con «diversi», alte personalità di governo, patrizi veneziani, con ogni probabilità savi del Collegio, il cui nominativo venne prudentemente omesso. A questi più che ai cerimoniosi ringraziamenti del doge bisognava prestar fede. In quei prudenti discorsi bisognava ravvisare l‟effettivo sentire del Principe e le sue reali aspirazioni.

Ancora una volta, l‟informalità permise al governo veneto di dar corso alla sua strategia del diniego senza esporsi pubblicamente e soprattutto senza dare alle comunità suddite l‟impressione di voler interrompere il dialogo ormai avviato con la sua lettera. Che in Pien Collegio si presentassero delegazioni suddite pronte a giurare fedeltà a Venezia, che in Terraferma si organizzassero particolari esternazioni filo- veneziane, rappresentavano eventualità fortemente indesiderate dal governo veneto, ancora moderatamente fiducioso rispetto a una chiusura del contenzioso con il pontefice che non coinvolgesse le popolazioni venete. Non si poteva del resto ignorare come ringraziamenti eccessivamente fastosi avrebbero reso di pubblico dominio quella comunicazione che faticosamente il Senato stava tentando di secretare, né tantomeno come le esternazioni filo-veneziane pronunciate dai sudditi potessero finire, più o meno volontariamente, col confermare l‟esistenza dell‟interdetto, facendo il gioco del pontefice.205 Non poteva inoltre esserci certezza sui contenuti di quei ringraziamenti: le parole utilizzate dai delegati sudditi, le

204 BCBVI, AT, b. 1348, c. n.n., alla data 22.04.1606, lettera degli ambasciatori ai deputati.

205 La straordinaria ambasceria vicentina in ringraziamento alla lettera del 20 aprile non passò

inosservata a Flaminio Buttiron, il rappresentante stabile – nunzio – della comunità di Padova presso Venezia, il quale – benché non rientrasse nelle sue mansioni – sentì di doverne scrivere ai suoi deputati: «Heri matina li Signori anbaciatori di Vicenza che sono venutti per cause publiche si hano fatti chiamar in Pleno Coleggio et hano esposto a Sua Serenità che havendo gli Illustrissimi Signori suoi rettori fatto legier nel suo Conseglio le litere ducalli dalle qualli hanno benissimo inteso il suo desiderio, et che oltra la offerta che tutta la città ha fatto alli Illustrissimi rettori, hanno havutto anco comissione di comparire a suoi piedi, et a nome della sua città offerirli la robba, le persone et figliolli in serivicio di Sua Serenità et per ché questo atto fatto mi par di qualche consideratione gli ho voluto avisare» (ASPD, ACA, Nunzi, f. 45, c. n.n., 23.04.1606, lettera del nunzio Flaminio Buttiron ai deputati).

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richieste che avrebbero potuto formulare, 206 la loro stessa presenza a Palazzo sotto l‟occhiuta vigilanza del nunzio pontificio e degli altri diplomatici stranieri,207 avrebbe potuto complicare ulteriormente la già intricata trama delle trattative tra Venezia e Roma.

Nell‟ottica del governo veneto le esibizioni di fedeltà inscenate dalla Terraferma veneta non necessitavano di un pubblico diverso da quel Principe stesso che le aveva richieste. Per il momento le orazioni recitate nei Consigli dai portavoce delle comunità, così come riferite dai rettori, potevano considerarsi sufficienti e soddisfacenti: al di là delle diverse gradazioni delle risposte, bisognava ammettere con sollievo come ovunque e indistintamente si fossero registrate immediate profferte di fedeltà e devozione, suggellate dalla formula canonica con la quale ci si professava pronti a spargere averi, sangue, vite e figli per proteggere la Repubblica. Donando informazione, privilegiando, obbligando alla gratitudine e presentandosi sotto le vesti di buon principe, il governo veneto riuscì a ottenere da parte delle élite di Terraferma un primo, per quanto formale, riconoscimento di quei rapporti di potere messi a repentaglio dalla scomunica e dal conseguente ampliamento della comunicazione politica.

Una volta ricevute le risposte delle comunità, con la stessa autorità con cui aveva concesso l‟apertura di un dialogo con il suddito, il Principe pretendeva di stabilire le modalità secondo le quali condurlo e ancor più il momento in cui sarebbe stato il caso di chiuderlo. Ottenere il silenzio delle comunità suddite senza dare loro l‟impressione di volerlo imporre presentava delle indubbie difficoltà: se si poteva operare per fermare le ambascerie a venire, poco o nulla si poteva fare al fine di arginare l‟esuberanza di quelle già presenti, o già destinate, a Venezia. Il monitorio di Paolo V si abbatté sulla Serenissima in concomitanza dell‟ultima fase dei festeggiamenti per l‟elezione ducale di Leonardo Donà, caratterizzata dall‟invio da parte delle comunità suddite di una propria delegazione incaricata di recitare in Pien Collegio un‟orazione gratulatoria.208 Nei primi giorni di aprile erano già stati accolti i

206 Solo pochi giorni prima i padovani seppero fare della debita ambasceria di congratulazioni per

l‟elezione ducale l‟occasione per presentare un memoriale in richiesta di grazie e privilegi (ASV, Coll.,

Lettere comuni, f. 111, 18.04.1606).

207 Sul rapporto tra diplomazia e informazione mi limito a citare il più recente contributo: J.

PETITJEAN, L‟intelligence des choses: une histoire de l'information entre Italie et Méditerranée (XVIe-XVIIe siècles),

Roma, École française de Rome, 2013, pp. 213-246.

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rappresentanti di Chioggia, Padova e Capodistria. I vicentini erano stati ricevuti in Pien Collegio quello stesso 17 aprile 1606 ben più noto per la pubblicazione del monitorio.209 Gli ambasciatori che si sarebbero presentati in Pien Collegio nei giorni successivi al 20 aprile sarebbero stati a conoscenza delle tensioni con il pontefice e con ogni probabilità non avrebbero tardato ad adeguarvi il tono e i contenuti delle proprie orazioni: il 7 maggio 1606, il luogotenente della Patria del Friuli ebbe a scrivere a Venezia come i rappresentanti del Parlamento del Friuli avessero deliberato

con universale applauso che li ambasciatori che devono venir per la debita congratulatione [a Sua Serenità] debbano insieme renderle humilissime gratie della paterna confidenza et amore, offerendo l‟havere e le vite de ogn‟uno per conservation della dignità della Serenissima Republica.210