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1. La lettera del 20 aprile 1606

1.6 Il dono dell‟informazione

L‟atto di rendere partecipe il suddito di una comunicazione interna alle istituzioni di governo venne volutamente presentato dal Senato come la concessione di un privilegio senza precedenti, la liberale elargizione di un dono straordinario. Come abbiamo visto, i rettori non mancarono di enfatizzare l‟assoluta gratuità del gesto: a Udine, ad esempio, Francesco Erizzo annunciò di voler dar lettura a «quella paterna, e confidente communicatione che con tanta benignità Sua Serenità aveva voluto concedere al suddito».148 Come qualsiasi altro dono del Principe, anche quello dell‟informazione politica, tanto più se concesso in un momento di particolare gravità, gravava il suddito dell‟onere di un necessario e imprescindibile contraccambio, se non altro nei termini di un‟accondiscendente esternazione di gratitudine.149 Secondo Botero, esercitate nel momento dei «publichi disastri», la

146 L‟autorizzazione a riunire il Parlamento arrivò già il 27 aprile (ivi, c. n.n., alla data 28.04.1606,

dispaccio di Francesco Erizzo, luogotenente della Patria del Friuli, ma con acume si procrastinò la convocazione sino a ridosso del 6 maggio 1606, data della pubblicazione del protesto, il documento pubblico con il quale il governo veneto decise finalmente di comunicare lo stato della crisi a tutta la popolazione (ivi, c. n.n., alla data 07.05.1606, dispaccio di Francesco Erizzo, luogotenente della Patria del Friuli). A riprova della fondatezza dei timori del governo veneto, va rilevato come durante l‟Interdetto lo stesso patriarca di Aquileia, il patrizio veneziano Francesco Barbaro, agì come informatore della Santa Sede (cfr. TREBBI,Il patriarca di Aquileia cit.).

147 Ivi, c. n.n., alla data 28.04.1606, dispaccio di Francesco Erizzo, luogotenente della Patria del Friuli. 148 ASV, Sen., Disp. dei rettori, Udine e Friuli, f. 3, c. n.n., alla data 24.04.1606 dispaccio di Francesco

Erizzo, luogotenente della Patria del Friuli.

149 Sulla teoria antropologica del dono, imprescindibile il rimando a M. MAUSS, Saggio sul dono. Forma e

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«benevolenza» e la liberalità del sovrano rappresentavano il mezzo «più efficace per conciliare gli animi de‟ popoli e per obligarli al suo Signore»:150 per il Principe l‟atto di donare era essenziale alla rappresentazione della sua grandezza, al rafforzamento del suo potere, alla legittimazione della sua autorità e al consolidamento delle gerarchie sociali esistenti.151

Se, donando informazione, il Principe apriva alle élite suddite l‟arena politica con liberalità, non si poteva ignorare come la stessa liberalità dell‟atto limitasse la portata di quell‟apertura, richiamando al rispetto di un ordine gerarchico prestabilito e del naturale ordine sociale. «Il donare [...] è misto di beatitudine, lo ricevere, macchiato di servitù» avrebbe sentenziato Tommaso Roccabella nel suo Prencipe morale:

Se tratti co‟l più grande è alterezza rifuggir d‟obligarsi, havendo particolar senso quei che hanno fortuna e potere d‟obligarsi co‟l benefizio i più deboli. Questa è

Sociologique”, s.II, I (1923-1924)]. Per una lettura del paradigma in chiave storica si veda oltre a N. ZEMON DAVIS, The Gift in Sixteenth-Century France, Madison-London, The University of Winsconsin

Press, , 2000. Per un‟efficace panoramica sulla produzione storiografica sul tema rimando invece a L. FAGGION, La civilisation du don? Les usages d‟un paradigme à l‟époque moderne, in Le don et le contre-don, a cura

di Id. e Laure Verdon, Aix-en-Provence, Publications de l‟Université de Provence, 2010, pp. 59-98.

150 «Non è opera né più regia, né più divina che il soccorrere i miseri [...], e non si può immaginar cosa

più atta e più efficace per conciliare gli animi de‟ popoli e per obligarli al suo Signore. [...] E invero i publichi disastri sono la propria materia e la miglior occasione che si possa appresentare ad un Prencipe di guadagnarsi gli animi e i cuori de‟ suoi: allora bisogna sparger i semi della benivolenza, allora inserire l‟amore ne‟ cuori de‟ sudditi, che fiorirà poi e renderà con larghissima usura cento per uno» (G. BOTERO, Della ragion di Stato, a cura di C. Continisio, Roma, Donzelli, 1997, pp. 37-39 [I

edizione in Venezia, appresso i Gioliti, 1589]). Virtù degna di un Principe, il capodistriano Giovanni Tazio ne consigliava l‟esercizio anche e soprattutto ai suoi rappresentanti: «è molto utile al rettore se usarà a debiti tempi nelle sue attioni liberalità, onde ne potrà conseguir somma laude, riputandosi di non esser così povero cuore che non si sicuri di non poter alloggiar ogni gratia et occorrendo rimunerarla, riponendo i tesori che Dio gli ha conceduti nell‟animo de‟ suoi sudditi, i quali con fermissima impressione ritengon ne i loro petti scolpiti quei beneficii che se gli fanno. Il che io intendo non lo spargimento de‟ beni di fortuna, ma quella providentia che continuamente versa circa il beneficiar l‟universale» (TAZIO, L‟immagine del rettore cit., p. 26).

151 Sul tema e della liberalità del Principe come funzionale alla celebrazione e perpetrazione del suo

potere sovrano, rimando per il momento aJ.STAROBINSKI, Largesse, Paris, Gallimard, 2007 [I edizione,

Paris, Reunion des Musees Nationaux, 1994]. Per un‟introduzione al problema storiografico della liberalità del sovrano si veda FAGGION, La civilisation du don? cit., p. 82. Interessante per una riflessione sull‟antropologia politica del dono reale J.CLAUSTRE, «Donner le temps»: le répir royal à la fin du Moyen Âge, in Le don et le contre-don cit., pp. 39-58. Suggestiva la proposta di applicazione del paradigma maussiano nell‟ambito della storia politica e sociale formulata da Laure Verdon: «Le paradigme du don peut être, en effet, au fondement même du lien politique, de manière directe par les cadeaux et autres dons que le pouvoir en place va réaliser afin de tisser un réseau de clientèle ou de sujétion, ou indirect par les échanges symboliques auxquels l‟exercice de l‟autorité donne lieu». (L. VERDON, Don, échanges,

réciprocité. Des usages d‟un paradigme juridique et anthropologique pour comprendre le lien social médiéval, in Le don et le contre-don cit., pp. 9-22).

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l‟arte di farsi seguace d‟obligarsi la riverenza di molti, se bene tal volta s‟urta in animi ingrati, che ne i favori impietriscono.152

L‟imperativo etico del contraccambio permise al Principe di ricondurre una pericolosa anomalia della comunicazione politica nelle forme consuete del dialogo tra governanti e governati, segnate dalla rassicurante retorica della gratitudine e da un formale mutuo riconoscimento dei rispettivi ruoli. Sebbene la lettera non chiedesse risposta, la sostanziale totalità delle comunità interpellare dichiarò esplicitamente di sentirsi obbligata a rispondere al Principe, se non altro per ringraziare della singolare concessione di informazioni. Nei loro dispacci a Venezia i rettori furono particolarmente generosi nel ricostruire le complesse trame argomentative delle orazioni di ringraziamento che i capi delle comunità interpellate153 si sentirono in dovere di rivolgere al doge.

L‟insistenza sulla retorica del dono e del contro-dono permise al Senato di ottenere dalle comunità suddite un‟esternazione di gratitudine che prescindesse dall‟effettiva forza persuasiva delle argomentazioni addotte a difesa delle leggi anticuriali. I vicentini resero al doge «affettuosissime et reverendissime gratie» in primo luogo per la «parte che si [era] compiaciuta dargli delle savie sue deliberationi»,154 mentre i bergamaschi gli rivolsero «humilissime gratie [...] della infinita humanità con la quale s‟[era] compiaciuta parteciparli li suoi travagli».155 Allo stesso modo reagì anche la comunità di Montagnana, nel contado padovano.156A fronte dell‟insolita concessione di informazioni – «questo novo favore di stimarli fedeli, et devoti tanto» –, i consiglieri di Orzinuovi si dichiararono «obbliga[ti] più strettamente» al Principe «per il che le rendevano humili et affettuosissime gratie». Per dar maggior prova delle propria fedeltà, i consiglieri di Orzinuovi vollero mettere ai voti i ringraziamenti, approvarli all‟unanimità e consegnare copia autentica della

152 T. ROCCABELLA, Prencipe morale, Parte I, in Venetia, presso Gio. Pietro Pinelli stampator ducale,

1645, pp. 96-97 [I edizione in Venetia, presso Gio. Pietro Pinelli stampator ducale, 1632]. Ma per simili riflessioni si veda anche ID., Prencipe delibrante, in Venetia, presso Gio. Pietro Pinelli stampator ducale, 1646 [I edizione in Venetia, presso Gio. Pietro Pinelli stampator ducale, 1628].

153 La grande varietà di titoli assegnati dalle diverse comunità di Terraferma ai rispettivi organi di

governo – monocratici o assembleari – impone l‟uso di una definizione quanto mai vaga e imprecisa. Nel corso del paragrafo, affrontando casi specifici, si farà ricorso alle corrette denominazioni.

154 ASV, Sen., Disp. dei rettori, Vicenza, f. 4, c. n.n., alla data 21.04.1606. 155 ASV, Sen., Disp. dei rettori, Bergamo, f. 4, c. n.n., alla data 23.04.1606.

156 Ivi, Padova, f. 3, c. n.n., alla data 27.04.1606 dispaccio di Giovan Pietro Giustinian, podestà di

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delibera al loro rettore, il quale a sua volta si premurò di inoltrarla a Venezia.157 Nella vicina Asola, il provveditore veneziano costatò come la fedeltà del Consiglio si fosse «fatta maggiore dal udire nelle ducali con quanta benignità et paterno affetto» Sua Serenità si fosse «compiaciuta di communicarle il giusto della causa sua».158 I colognesi, «honorati» dall‟«eccesso di tanto amore» mostrato dal Principe, ringraziarono umilmente professandosi per iscritto «suoi divotissimi servi».159 Ancor più elaborati i ringraziamenti della comunità di Rovigo, dove «il più vecchio de Signori regulatori disse che da questo atto singolare di benignità restava confuso in modo che non trovava parole per risponderle», salvo poi dimostrare con fin troppa eloquenza di ben riconoscere il suo debito di buon suddito. Volto alla captatio

benevolentiae, l‟artificio retorico della reticenza, la studiata ammissione della propria

pochezza, avrebbe costituito il leit motiv della sua prolusione:

nondimeno questa communicatione ch‟ella [Sua Serenità] s‟era degnata di far con loro obligati et sviscerati vassalli et sudditi gli riusciva tuttavia così cara et grata; et essi se ne tenevano tanto honorati che altro non restava loro di dolere de la tenue fortuna in che s‟attrovano per non poter corrisponder ad alcuna parte l‟obligo tanto grande.

A fronte di tanta grazia, proseguì il capo del Consiglio rodigino, non ci si poteva certo limitare a corrispondere con la sola «ordinaria volontà di spender quel poco che hanno in servitio del suo Principe» ma si doveva dimostrare in qualche modo un «estraordinario affetto et desiderio ardentissimo di spender i figliuoli et le vite stesse in obedientia d‟ogni suo comandamento».160 Ma si veda ancora la risposta di Pietro Calino, abate della città di Brescia, «capo del Conseglio»:

non occorreva far con loro quest‟officio, ma essendosi per eccesso di amore compiaciuta la Serenità Vostra di farlo con la communicatione delle cose sue, lo ricevono riverentemente per atto singolare del suo paterno affetto, pregandomi

157 Ivi, Brescia, f. 6, c. n.n., alla data 25.04.1606, dispaccio di Cristoforo Da Canal, provveditore di

Orzinuovi e relativo allegato.

158 Ivi, c. n.n., alla data 25.04.1606 dispaccio di Giustiniano Badoer, provveditore di Asola.

159 ASV, Sen., Disp. dei rettori, Verona, f. 3, c. n.n., alla data 24.04.1606, lettera della Comunità di

Cologna al Principe.

160 Ivi, Rovigo, f. 3, c. n.n., alla data 23.04.1606, dispaccio di Marcantonio Balbi, podestà e capitano di

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perciò a ringratiar la Serenità Vostra e le Eccellenze Vostre Illustrissime a nome di tutta la città et assicurarle insieme con ogni termine di verità dell‟animatissima sua propensione e dispositione verso tutti gl‟interessi e le ragioni della Serenissima Republica contra chi si voglia.161

Sin dalla consegna del messaggio, la retorica del dono e della gratitudine pervadeva dunque ogni aspetto della comunicazione avviata dal Senato. Come si è avuto modo di far notare analizzando la strategia di difesa delle leggi anticuriali, gran parte della forza persuasiva del messaggio risiedeva sul richiamo all‟imperativo etico- morale del contraccambio, assunto come principio regolatore della società umana: il Principe stesso riconosceva esplicitamente come Venezia avesse ricevuto «dominio», «auttorità» e «potestà» sulla Terraferma per concessione divina, assumendo di conseguenza l‟onere di ben amministrarla, il diritto-dovere di fare ciò che era «proprio del Principe supremo, cioè il far quelle leggi, che sono state di beneficio dello Stato et sudditi».162 La derivazione divina della sovranità obbligava il Principe nei confronti di Dio, ma bisognava considerare come i benefici esiti di quell‟obbligazione ricadessero di fatto sul suddito: «È tenuto il Prencipe governar bene, ma non ha obligazione di ciò al popolo, ma a Dio» avrebbe scritto Paolo Sarpi interrogandosi sulle conseguenze della diretta derivazione divina della «potestà de‟ Prencipi».163

Gli echi di una concezione etico-religiosa dominante, secondo la quale ogni aspetto del creato e dell‟esperienza umana era da intendersi come dono di Dio, ritornano tanto nella coeva riflessione teologico-politica sulla sovranità164 quanto nella lettera del 20 aprile. In un ormai celebre volume, Natalie Zemon Davis ha rilevato come a partire dal testo biblico, la mentalità dell‟epoca ravvisasse una diretta correlazione tra dono divino e dono terreno: ogni aspetto del creato doveva

161 Ivi, Brescia, f. 6, c. n.n., alla data 23.04.1606, dispaccio di Leonardo Mocenigo, podestà di Brescia. 162 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15 cc. 19r-v.

163 SARPI, Della potestà cit., p. 52. Si noti come l‟intero abbozzo trattato si regga sull‟asserzione «che il

prencipato nella società umana è instituito da Dio». In apertura ai suoi appunti Sarpi definisce esplicitamente la sovranità come dono divino e forza organizzatrice dell‟intero consorzio umano: «Tutte le nazioni e popoli hanno sempre riconosciuto e confessato che le città e regni, per quali la società umana si conserva, sono singulari grazie e doni divini, e che il publico governo, cioé la somma potestà che regge tutto il corpo della republica e mantiene connesse tutte le parti di quella, dando la vita e il moto civile a tutta la società, sia instituzione proveniente immediate da Dio» (ivi, p. 31).

164 In riferimento all‟Interdetto si veda TUTINO, Empire of Souls cit. e SARPI, Della potestà cit. Più in

generale sul tema della riflessione teorico-politica sulla sovranità si veda COMPARATO, Il pensiero politico

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intendersi come un dono divino al quale corrispondere con devozione, ma anche e soprattutto rendendo partecipe il prossimo dei benefici ottenuti. Nella prima età moderna una seconda concezione contribuiva con quella religiosa nel plasmare il senso del dono. Il modello di riferimento, secondo Natalie Zemon Davis, sarebbe ravvisabile nell‟iconografia delle tre Grazie: se il testo biblico aveva il merito di porre l‟accento sull‟asimmetria e sulla verticalità caratterizzante il ciclo del dare e del ricevere, il mito classico rimandava alla reciprocità come componente orizzontale del moto del contraccambio, fondamento della socialità e garanzia di coesione per il consorzio umano.165 Come si è detto, nella lettera del 20 aprile, il Principe affermava di non aver dubbi sul fatto che il suddito, gratuitamente beneficiato dal buon governo, avrebbe corrisposto alla Repubblica «divotione et fede»; tuttavia a sua volta non rinunciava a dichiararsi pronto, ravvisando tali sentimenti nel suddito, a perseverare nella sua paterna azione di buon governo. Nella conclusio, lo sforzo profuso per dimostrare la legittimità e l‟utilità delle leggi anticuriali – benefiche concessioni del Principe ai suoi sudditi – convergeva in una vera e propria celebrazione della concordia tra governanti e governati fondata su un‟immutabile armonia, su una perfettamente circolare corrispondenza di fedeltà e protezione:

si come dette leggi sono state fatte et rinovate da nostri maggiori per la protettione de nostri sudditi et conservatione de loro beni, così non lasciaremo di operar di continuo tutto quello che possa riuscire a loro beneficio, sicuri della loro continuata divotione et fede.166

La schematica idealizzazione del rapporto di sudditanza trascendeva il momento congiunturale dell‟Interdetto per venire proiettata in un‟atemporalità mitica.Posta la criticità del momento, la lettera si impegnava a contestualizzare l‟eccezionalità del dono dell‟informazione nella normalità di una secolare e imperturbabile prassi di buon governo:

la Republica nostra ha con sommo et veramente paterno amore protetto li suoi sudditi, procurando il loro bene come di carissimi et dilettissimi figliuoli, così si è gloriata sempre di haverli conosciuti in tutte le occorrenze per fedelissimi et

165 ZEMON DAVIS, The Gift in Sixteenth-Century France cit., pp. 11-14. 166 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15 c. 20r.

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svisceratissimi, non havendo in alcuna occasione perdonato ad alcuna spesa, né alle vite d‟i proprii cittadini per conservarli in stato quieto et tranquillo [...]. Et per ciò siamo certi che ancor essi, li cui maggiori sono stati sempre havuti per partecipi nelle fortune nostre, conserveranno la solita fede verso la Republica nostra, la quale non mancherà in tutti i casi della debita provisione per la loro difesa et manutentione.167

Apparentemente benevole e concilianti, simili affermazioni caricavano le risposte delle comunità suddite di fortissime aspettative.168 Con accorta dissimulazione, il Senato indicava alle élite di Terraferma sobillate dal monitorio pontificio i limiti della loro azione politica, riconducendola entro i rassicuranti confini della mera esternazione – qualora richiesta – di gratitudine e sviscerata fedeltà nei confronti della Repubblica, di fiducioso consenso verso le scelte di governo operate dal suo paterno Principe.169 In un momento di potenziale scollamento tra la Dominante e il suo Dominio, nel momento stesso in cui il pontefice chiedeva ai sudditi veneti di misconoscere la sovranità veneziana, il Principe indicava nella passiva e fiduciosa accettazione delle sue sempre sagge decisioni la via che le comunità di Terraferma avrebbero dovuto percorrere per continuare ad essere considerate buone suddite e mantenersi sotto la benevola ala protettrice del leone marciano.

Nella struttura argomentativa delle orazioni di risposta, per quanto mediata dalla ricostruzione che ne diedero i rettori, è ravvisabile tutto lo sforzo profuso dalle comunità suddite nel tentativo di soddisfare a pieno le fortissime aspettative del Principe. In alcuni casi l‟aderenza con il testo della lettera del 20 aprile è pressoché totale. Di questo genere, ad esempio, la reazione di Vicenza:

[I consiglieri] ingenuamente confessano esserle debitori di innumerabili gratie e favori, e tutti di un volere con animo acceso et ardente di devotione si sono

167 Ibidem.

168 Sul tema dell‟interazione tra discorsi politici ufficiali e aspirazioni popolari si veda l‟interessante

saggio di Y.M.BERCÉ, Il linguaggio del potere secondo le aspettative popolari, in I linguaggi del potere nell‟età

barocca, a cura di F. Cantù, Vol. I, Roma, Viella, 2009, pp. 25-37.

169 Ancora una volta la lettera del 20 aprile 1606 anticipava temi, argomentazioni e strategie retoriche

che sarebbero divenute ricorrenti nella successiva libellistica filoveneziana. Scrive Filippo de Vivo: «In termini di comunicazione politica, i libelli governativi suggerivano che il popolo non avesse altro ruolo che acclamare il governo [...]. Nelle intenzioni del governo dunque, i libelli avrebbero dovuto rafforzare il quadro tradizionale della politica, e come i rituali di acclamazione, affermare la fedeltà dei sudditi e celebrare una visione paternalistica della società» (DE VIVO, Patrizi, informatori, barbieri cit., pp.

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eshibiti prontissimi per esponer in servigio publico non solamente l‟havere et la facultà ma anco le proprie vite spargendo il sangue per far più chiara l‟ardente loro devotione et viva fede, e percui rendono alla Serenità Vostra et all‟Eccellentissimo Senato affettuosissime et reverendissime gratie della parte che si è compiaciuta dargli delle savie sue deliberationi, approvando ogn‟uno che come queste hanno per fine di conservar la libertà concessale dalla potente mano del Signor Dio e la quiete et sicurezza di suoi sudditi trattati sempre come carissimi figliuoli, altrettanto confidano che a questa sua somma sapienza essendo congiunto sommo potere, resti servita sua Divina Maestà di protegger la causa publica.

Nella sostanza, il Consiglio di Vicenza volle dar segno di concordare con il Senato nell‟individuare nella difesa delle «deliberationi» veneziane una convergenza tra gli interessi di governanti e governati: con i suoi provvedimenti anticuriali, Venezia stava difendendo una «causa publica», e a fronte di tale benevola preoccupazione verso il suddito, non sarebbe rimasto altro che ringraziare.170 Le stesse argomentazioni vennero pienamente avallate anche dal Consiglio di Montagnana:

fu dal spettabile sinico del Consiglio prima, et poi dall‟uno delli Spettabili deputati risposto a nome publico, ringratiando prima Vostra Serenità che gli habbia fatti degni di un tanto honore et rinovato loro con così affettuose dimostrationi l‟antico testimonio della sua paterna dilettione, et assicuratala poi che sono parati con la robba et con le vite a difendere contra chi sia la libertà et la grandezza di questo stado, la quale riputano a sé commune.171

Analogamente, i rappresentanti delle comunità della Riviera di Salò riconobbero senza ombra di dubbio come la sudditanza a Venezia da sempre garantisse loro di vivere «felici et gloriosi» e di conseguenza si dichiararono prontissimi a spendere