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Rappresentanti e rappresentazioni delle comunità di Terraferma nella Venezia dell'Interdetto (1606-1607)

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Scuola Dottorale di Ateneo Graduate School

Dottorato di ricerca

in Storia sociale europea dal Medioevo all’Età contemporanea Ciclo 26°

Anno di discussione: 2014

Rappresentanti e rappresentazioni delle comunità di

Terraferma nella Venezia dell'Interdetto (1606-1607)

SETTORE SCIENTIFICO DISCIPLINARE DI AFFERENZA: M-STO/02 Tesi di Dottorato di Giovanni Florio, matricola 955791

Coordinatore del Dottorato Tutore del Dottorando

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Indice

Abbreviazioni ... 5

Nota al testo ... 6

Introduzione: sudditi nella crisi dell’Interdetto ... 7

1.

La lettera del 20 aprile 1606 ... 27

1.1

Rispondere al monitorio ... 27

1.2

Destinatari e mittente ... 32

1.3

Comunicare per tacere ... 39

1.4

Forma e contenuto ... 44

1.5

La mediazione del rettore ... 55

1.6

Il dono dell‟informazione ... 68

1.7

I rischi del contraccambio... 81

1.8

L‟arte dei cenni ... 86

1.9

«Unanimi et concordi» ... 95

1.10

Un possibile modello retorico: le orazioni per l‟elezione ducale . 105

1.11

Da Venezia a Roma ... 118

1.12

Dalla Terraferma al «mondo tutto» ... 133

2.

Protagonisti e forme di un dialogo asimmetrico ... 141

2.1 Il trono della pubblica maestà ... 141

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2.3 «Mezi, amici et parenti» per un‟udienza in Collegio ... 169

2.4 Uscieri, fanti e segretari... 190

2.5 Gli «officii che si fanno a parte et alle case delli giudici» ... 201

2.6 La protezione del rettore ... 227

2.7 Orazioni e banchetti ... 248

3.

La

via supplicationis

... 265

3.1 Dalla «lite particolare» alla «lege generale» ... 265

3.2 Dalla supplica alla guerra delle scritture ... 291

3.3 I giovani e la Terraferma ... 307

3.4 Suppliche adeguate ... 324

3.5 Rappresentare la comunità e supplicare per sè ... 344

Conclusioni... 353

Fonti inedite ... 365

Fonti edite ... 367

Bibliografia ... 373

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Abbreviazioni

ASCB = Archivio storico civico del Comune di Brescia, conservato presso Archivio

di Stato di Brescia

ASCL = Archivio storico del Comune di Lonigo ASPD =Archivio di Stato di Padova

ACA = Archivio Civico Antico

Atti = Atti del Consiglio Maggiore e Consiglio dei Sedici Nunzi = Nunzi e ambasciatori

Deputati = Deputati ad utilia

CRS = Corporazioni religiose soppresse Praglia = S. Maria di Praglia

ASV Archivio di Stato di Venezia

CI = Consultori in iure Coll. = Collegio Sen. = Senato Esp. = Esposizioni Delib. = Deliberazioni Disp. = Dispacci

ASVR = Archivio di Stato di Verona

AAC =Archivio antico del Comune Atti =Atti dei Consigli del Comune

Racc. atti = Raccolte di atti di interesse pubblico e di estratti dagli atti consiliari.

BCBVI = Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza

AT = Archivio Torre

BCP = Biblioteca Civica di Padova

BP = serie manoscritti “Biblioteca Padovana”

DBI = *Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell‟Enciclopedia Italiana,

1960 – b./bb. = busta/e c./cc. = carta/e f./ff. = filza/e fasc. = fascicolo n.n. = non numerata/e r. = recto reg./regg. = registro/i s. = serie v. = verso

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Nota al testo

A Venezia l‟anno inziava il primo marzo, mentre in Terraferma il primo gennaio. Le datazioni more veneto sono esplicitate in nota con la sigla m.v.

Nelle lettere dei nunzi e degli ambasciatori delle comunità suddite della Repubblica di Venezia i patrizi veneziani vengono di norma nominati per cognome e carica ricoperta. Tutti i nomi di battesimo dei savi del Collegio sono stati controllati negli elenchi degli eletti a quella carica conservati in ASVE, Segretario alle voci, Elezioni in

Senato, regg.7-8. Allo stesso modo, i nomi di battesimo dei rettori veneziani sono

desunti dagli elenchi cronologici proposti in TAGLIAFERRI, Amelio (a cura di),

Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, 14 Voll., Milano, Giuffré, 1973-1979.

Nella trascrizione di manoscritti e fonti edite maiuscole, spaziatura, segni di interpunzione, accentazione e segni diacritici sono stati riportati all‟uso moderno. Le abbreviazioni sono state sciolte.

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Introduzione: sudditi nella crisi dell’Interdetto

Ritrovato e pubblicato solo recentemente, l‟abbozzo del trattato Della potestà de‟

principi è con ogni probabilità una delle opere sarpiane di più difficile interpretazione.

Lo stesso Corrado Pin, fine esegeta del servita veneziano, ammette una certa perplessità di fronte a un testo che presenta «concezioni abbastanza inusuali nelle opere di Sarpi e formulazioni particolarmente radicali sullo Stato assoluto».1 Perentorie le definizioni sarpiane dei concetti di Principe e di sovranità:

Il re e Prencipe, di che parlo, debbe aver esso la maestà, sia mo esso un uomo particolare, overo un‟adunanza de pochi o de molti [...]. Chi ha la maestà commanda a tutti e nessuno può commandar a lui; egli non ha obligazione ad alcuno, tutti sono obligati a lui, non è soggetta a nessuna legge umana, qual si voglia, ma egli commanda eziandio a tutte le leggi, né in modo alcuno può obligarsi ad alcuno delli suoi sudditi; se in una regione sarà legge che oblighi il re, quello non sarà re di che parliamo, ma soggetto a chi l‟obliga a quella legge. Il re che è sovrano non commanda secondo le leggi ma alle leggi stesse, resta ubligato solo a Dio e alla sua coscienzia. 2

Ennesimo episodio della lunga querelle tra Sarpi e il cardinale Bellarmino,3 l‟abbozzo prendeva polemicamente le mosse dal Tractatus de Potestate Summi Pontificis in

rebus temporalibus e dalle teorie gesuitiche sulla potestà indiretta esposte in quella sede.

Nell‟opinione di Sarpi non vi era spazio per alcuna concezione contrattualistica della sovranità: il Principe sarpiano era un sovrano assoluto nell‟accezione ultima del termine, sciolto da ogni vincolo, in nessun modo obbligato nei confronti dei propri sudditi o della legge. Il potere del principe non trovava legittimità in alcuna investitura o istituto umano ma solo e unicamente dalla maestà divina: «che il prencipato nella società umana è instituito da Dio» era l‟assioma che apriva l‟opera e

1 Si veda C.PIN, Progetti e abbozzi sarpiani sul governo dello Stato «in questi tempi assai turbolenti» in P.SARPI,

Della potestà de‟ prencipi, a cura di N. Cannizzaro, Venezia, Marsilio, 2006, p. 90 (pp. 89-120).

2 SARPI, Della potestà de‟ prencipi cit., p. 52.

3 In merito si veda S.TUTINO, Empire of Souls. Robert Bellarmine and the Christian Commonwealth, Oxford,

Oxford University Press, 2010, in particolare pp. 81-116. Si veda inoltre F.MOTTA, Bellarmino. Una

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che avrebbe dovuto reggere il suo intero impianto argomentativo.4 Pensare, come avrebbero voluto i gesuiti, che la sovranità del Principe fosse originata per delega della «moltitudine»,5 che di conseguenza l‟operato del sovrano potesse essere giudicato dal suddito,6 o ancora che questi potesse deporlo – o meglio, farlo deporre dal potere religioso – per inadempienza di giuramenti e obblighi,7 per negligenza verso il bene comune o ancora per aver messo a repentaglio le anime dei suoi sottoposti, costituiva per Sarpi un sofisticato e tendenzioso stratagemma, volto a teorizzare una derivazione divina per il solo potere papale: 8 «non era carità verso li popoli il darli potestà sopra il re» ma un mezzo «affinché il papa possi levare l‟auttorità alli prencipi».9 Non un argomento di poco conto quello della natura della sovranità:

quando si disputa se l‟autorità regia sia da Dio mediatamente o immediate, non si tratta una questione verbale, né si disputa delle umbre del cavallo, ma del primo e principal fundamento d‟ogni Stato, perché la disputa termina a credere se i re possono esser privati del papa, come li giesuiti vogliono, per colpe o per negligenze o per inettitudine, over anco per ogni causa stimata dal papa conveniente; se può l‟auttorità esser loro levata o sminuita dalli popoli, se sono obligati render conto del loro governo e delle loro azioni al papa e alli popoli o pur se sono soggetti e obligati a render conto a Dio solo. 10

In questi appunti vergati da Sarpi intorno al 1610 è difficile non ravvisare gli echi della crisi che solo quattro anni prima aveva scosso i già tesi rapporti tra Venezia e la Santa Sede. Nel breve periodo, l‟approvazione di leggi contro la proprietà ecclesiastica e la pertinace volontà veneziana di procedere contro due religiosi accusati di crimini comuni furono le cause scatenanti della crisi esplosa nell‟aprile del

4 SARPI, Della potestà de‟ prencipi cit., p. 31. 5 SARPI, Della potestà de‟ prencipi cit., pp. 48-49. 6 Ivi, pp. 34-35.

7 Ivi, pp. 61.

8 Per un rapido excursus sull‟evoluzione del pensiero politico sulla sovranità in età moderna, con

particolari riferimenti alla questione della potestà indiretta e alla relativa tradizione gesuitica si veda V.I. COMPARATO, Il pensiero politico della Controriforma e la ragioni di Stato, in Il pensiero politico nell‟età

moderna, a cura di A. Andreatta - A.E. Baldini, Torino, Utet, 1999, pp. 127-168.

9 SARPI, Della potestà de‟ prencipi cit., pp. 50-51. Ben più di recente, e partendo da ben altri presupposti,

Vittor Ivo Comparato si è espresso nei medesimi termini: «Gli intellettuali gesuiti si richiamavano così al contrattualismo medievale, non per introdurre princìpi democratici, ma per salvaguardare il potere indiretto del pontefice» (COMPARATO, Il pensiero politico della Controriforma cit., p. 132).

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1606 con la fulminazione dell‟interdetto da parte del pontefice: attraverso la sospensione dei sacramenti su tutti i domini della Repubblica – l‟interdetto propriamente detto – nonché la scomunica del Senato e del doge Leonardo Donà, Paolo V si riproponeva di far collassare la Repubblica dall‟interno, mettendo in discussione agli occhi dei governati la legittimità della sovranità esercitata su di loro dai governanti. Una simile prospettiva avrebbe dovuto ridurre i vertici della Serenissima a più miti consigli, all‟estradizione degli ecclesiastici arrestati e soprattutto al ritiro della legislazione contestata: queste le condizioni poste dal pontefice per il ritiro delle sue sanzioni.11 Nel biennio 1606-1607 il Papato mise dunque drammaticamente alla prova la validità delle teorie sulla potestà indiretta: contrapporre la fides in Dio alla fidelitas dovuta al Principe, scindere i concetti di buon suddito e buon cristiano, significava minare i fondamenti teologici e giuridici della sovranità e del rapporto di sudditanza, incitando le popolazioni dei domini veneti alla sedizione. La scelta operata del pontefice conferì al suddito una insolita centralità: dalla risposta delle popolazioni al dilemma etico che veniva loro sottoposto, dalla loro opzione tra lealismo e ribellione, nonché dalla capacità del Principe di obbligare e al contempo persuadere il suddito ad aderire alle sue politiche, venne a giocarsi non tanto il mantenimento della legislazione anticuriale contestata, né solamente l‟affermazione del potere ecclesiastico su quello civile, ma la tenuta stessa dello Stato territoriale veneziano.

Fenomeno eccezionale per l‟Antico Regime, durante l‟Interdetto del 1606-1607 il suddito venne informato dai principi in contesa di quanto stava accadendo: lo fece il Papato per dare efficacia a sanzioni che potevano sortire effetto solo se divulgate ai

11 Per quanto evenemenziale, per l‟efficace ricostruzione cronologica dell‟Interdetto, nonché per la

mole di documenti editi rimane ancora fondamentale E. CORNET, Paolo V e la Republica Veneta.

Giornale dal 22 Ottobre 1605 al 9 Giugno 1607, Vienna, Tendler, 1859. Gaetano Cozzi seppe leggere

nell‟Interdetto lo spartiacque nella storia politica e sociale della Serenissima, facendone un riferimento anche per quegli studi non direttamente connessi ad esso. Si veda ad esempio l‟impostazione del volume di G.COZZI –M.KNAPTON –G.SCARABELLO, La Repubblica di Venezia nell‟età moderna. Dal

1517 alla fine della Repubblica, Torino, Utet, 1992. Numerose e doverose saranno dunque le citazioni e i

rimandi all‟opera di Cozzi nel corso di questa trattazione. Per il momento mi limito a rimandare alle due raccolte di saggi G.COZZI, Venezia barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Roma, Il Cardo, 1995 e ID., Paolo Sarpi tra Venezia e l‟Europa, Torino, Einaudi, 1978. Nonché l‟edizione a cura dello stesso autore e L. Cozzi di P.SARPI, Opere, Ricciadi, Napoli, 1969. Fondamentali inoltre W. J. BOUWSMA, Venice and the Defense of Republican Liberty: Renaissance Values in the age of the Counter

Reformation, Berkeley – Los Angeles, University of California Press, 1968 e per l‟interessante proposta

metodologica il più recente F.DE VIVO, Information and Communication in Venice: Rethinking Early Modern

Politics, Oxford, Oxford University Press, 2007 che considereremo nell‟edizione italiana, arricchita di

nuovi spunti, ID., Patrizi, informatori, barbieri. Politica e comunicazione a Venezia nella prima età moderna,

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fedeli e da essi riconosciute e applicate, ma lo fece soprattutto Venezia al fine di disinnescare il messaggio eversivo proveniente da Roma e di conferire nuova legittimità a una sovranità messa in forte discussione. Informare il suddito su materie di Stato costituiva un assurdo per il pensiero politico dell‟epoca: l‟opzione venne vagliata e adottata con cautele e reticenze, solo dopo aver tentato la via della censura. In un primo momento la negazione dell‟esistenza dell‟interdetto – che al contrario il fronte filopontificio si sforzò di dimostrare e divulgare con insolito vigore – e impedire la diffusione della notizia della sospensione delle celebrazioni costituirono agli occhi di Venezia la via migliore per vedere continuati i sacramenti e garantite il mantenimento della pubblica quiete. Il governo veneto scelse di gettarsi nella mischia dell‟informazione come extrema ratio: solamente quando il proliferare di notizie e scritti sulla crisi divenne effettivamente e pericolosamente incontrollabile contrappose alle scritture filo-pontificie una feroce campagna libellistica che fece dell‟Interdetto una guerra delle scritture.12

Come hanno sottolineato i più recenti studi sull‟argomento, sarebbe scorretto ravvisare nell‟adozione di questa inusuale strategia comunicativa una volontà di superare l‟assioma della segretezza della politica né tantomeno una precipua volontà di rendere le ragioni di Stato argomento di pubblica discussione: divulgare il senso profondo delle proprie azioni rispondeva per i Principi in contesa unicamente all‟esigenza di ottenere da parte del suddito-fedele una univoca e incondizionata adesione ad esse, e in alcun modo si riproponeva di aprire un pubblico dibattito in merito. In un apparente paradosso, l‟atto straordinario di informare il suddito si riproponeva il mantenimento di un normale ordine sociale: alla massa della popolazione, alle sue articolazioni corporative e ai singoli soggetti che animavano la società di Terraferma si chiese solo e unicamente di levare un uniforme grido di acclamazione a argomentazioni calate e legittimate dall‟alto, di prestare fedeltà al principe e di gioire per la bontà del suo operato. Ma al di là degli sforzi profusi da entrambi i contendenti per controllare il flusso di informazioni è innegabile come la conseguenza principale e inevitabile di una guerra così combattuta fu una vera e propria esplosione della comunicazione politica, il travalicare dal suo alveo

12 Su questi aspetti si veda Ibidem, passim e inoltre F.DE VIVO, Dall‟imposizione del silenzio alla «guerra delle

scritture». Le pubblicazioni ufficiali durante l‟interdetto del 1606-1607, in “Studi Veneziani”, n. s., XLI (2001),

pp. 179-213; ID., «Il vero termine di reggere il suddito». Paolo Sarpi e l‟informazione, in Ripensando Paolo Sarpi, a

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tradizionale per raggiungere e coinvolgere un più vasto uditorio. Di interdetto e di ragion di Stato si discusse praticamente in ogni luogo, nelle botteghe di barbiere e nelle spezierie, sui campi veneziani e sulle piazze della Terraferma, nelle città come nei borghi del contado più profondo.13

Tra 1606 e 1607 si verificò dunque quella sovversione del precetto paolino paventata nelle pagine iniziali della Potestà de‟ Principi:

Volse chiaramente parlare san Paolo: io ti comando d‟ubidire alle publiche potestà; e rese ragione: perché sono da Dio. Non ti travagliare tu in titoli e ragioni, per quali s‟acquistano li imperi e domini, ma guarda solo chi è in possesso di esercitare il publico governo, perché questo è ordinato da Dio a tal ufficio, condannando apertamente quelli che si vogliono fare superiori delli prencipi e giudicare se l‟ubidienza li è dovuta e se il titolo loro è legitimo (...).14

Se alla lunga la Repubblica resse l‟impatto costringendo Paolo V al ritiro della sanzione spirituale (21 aprile 1607), non si era tuttavia potuto evitare che la crisi ponesse indesiderati interrogativi sulla natura del potere politico, sulla sovranità del Principe e conseguentemente sullo statuto e gli obblighi della sudditanza. Lette alla luce dell‟Interdetto, le radicali formulazioni del servita, lo sforzo profuso nell‟abbozzo della Potestà per delineare l‟assolutezza del potere sovrano e – di riflesso – l‟irrimediabile e passiva subalternità del suddito, sembrano più una costruzione teorica ideale volta a esorcizzare i rischi corsi dalla Serenissima, che una lucida considerazione degli effettivi rapporti di potere esistenti tra governanti e governati. E‟ ancora Corrado Pin a rilevare questo scarto e a porlo all‟attenzione della ricerca:

Ci si chiede come potessero suonare queste proposizioni della Potestà alle orecchie di un patrizio veneziano; […] si impone un confronto tra questo pensiero “assolutistico” della Potestà, essenzialmente teorico, e la prassi politica, in cui si muove il Sarpi consultore, chiamato a rispondere a una classe dirigente, che, benché sovrana, è vincolata nel quotidiano esercizio del potere da leggi e consuetudini, dalle più disparate autonomie di individui e comunità, da una

13 Oltre ai contributi di Filippo de Vivo citati nella precedente nota, si veda A.SAMBO, Città, campagna e

politica religiosa: l'interdetto del 1606-7 nella repubblica di Venezia, in “Atti dell'Istituto veneto di scienze,

lettere ed arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti”, CXXXIV (1975-76), pp. 95-114.

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giurisprudenza farraginosa che attinge al diritto proprio veneziano e a quello comune della Terraferma, da leggi civili e soprattutto da leggi canoniche.15

Una contraddizione che, seppur sottotraccia, l‟abbozzo della Potestà non si esimeva dall‟affrontare: il contrasto tra teoria e prassi del potere costituiva per il servita un paradosso superabile ancora una volta in virtù della derivazione divina della potestà. Sarpi negava fermamente che il Principe potesse limitare il suo agire in rispetto di leggi umane o a causa di vincoli contratti con il suddito, ma al contempo ammetteva come potesse farlo per propria coscienza e in virtù dell‟obbligazione contratta con Dio, origine e causa di ogni potestà. Per Sarpi l‟ostacolo da superare non era la limitatezza dell‟esercizio della sovranità bensì i presupposti e l‟ontologia di quel limite: la sua derivazione divina costituiva l‟argomentazione teologico-politica necessaria ad ammettere l‟esistenza di concreti e riscontrabili limiti al potere sovrano tenendo salvo un modello che rimane irrimediabilmente assolutista. Anticipava il servita le critiche dei suoi detrattori:

Adunque il tuo Prencipe non ha obligazione verso li suoi sudditi di governarli bene, quando gli promette? non è tenuto quando gli giura, non è obligato? Rispondo: è tenuto il Prencipe governar bene, ma non ha obligazione di ciò al popolo, ma a Dio; è obligato se giura, se promette, ma non al popolo, se ben a Dio e alla conscienza propria; e li giuramenti che li re sovrani fanno nelle loro coronazioni non sono ubligazioni al popolo, ma a Dio.16

Del resto – senza voler scomodare teorie sociologiche sulla subordinazione –17 è la peculiare conformazione politico-amministrativa dello Stato territoriale italiano di

15 PIN, Progetti e abbozzi sarpiani, pp. 116-117.

16 SARPI, Della potestà de‟ prencipi cit., p. 52. L‟errore di Bellarmino e dei gesuiti risiede per Sarpi nella

sovrapposizione dei concetti di vassallaggio e sudditanza, nel confondere la dimensione pattizia caratteristica del primo all‟irrimediabile assolutezza del secondo: «Nelli feudi l‟obligo è scambievole, dal vassallo al signor, e il vassallo, lasciato il beneficio, può abiurare la fedeltà; e quando il signor non mantiene a lui le condizioni, né esso è obligato al servizio. Ma l‟obligo di soggezione non è scambievole: è tenuto il soggetto a prestar al Prencipe il debito onore, obedienza e tributi; dall‟altra parte il Prencipe non è tenuto a lui in alcuna cosa, se ben è tenuto a Dio e alla sua conscienza, come s‟è detto; di che se mancarà, non per ciò il suddito può mancare, né sminuire il debito verso lui, né per qual si voglia causa questo genere di fedeltà si può abiurare» (ivi, p. 71).

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età moderna18 a imporre ulteriori cautele nella lettura del modello sarpiano: fin dai suoi albori, il Dominio veneto in Terraferma venne infatti a configurarsi come una struttura territoriale policentrica e poligiurisdizionale, un reticolo di città, feudi e centri rurali inseriti a vario titolo nella compagine statale sulla base dei termini, dei privilegi e delle libertà concessi a ogni singolo consiglio di comunità al momento della sua dedizione a Venezia.19 L‟artificiosa “libera scelta” di donarsi alla Repubblica – prassi accettata e largamente promossa dai conquistatori – aveva offerto ai conquistati la possibilità di negoziare i termini della propria subordinazione, di riservarsi autonomie e privilegi – su tutti il mantenimento degli statuti cittadini – nonché di garantirsi margini d‟azione politica anche considerevoli, ponendo dei limiti sostanziali a un arbitrario esercizio del potere da parte del Principe.

Vincoli accettati di fatto ma mai di diritto dalla Repubblica, disposta per opportunità a contenere l‟esercizio della propria sovranità, ma mai a rinunciare alla ferma affermazione del suo principio. Significativo il fatto che pur provvisto di valore legale, il patto di dedizione non potesse intendersi in alcun modo come un accordo tra pari, simmetricamente vincolante entrambi i contraenti. Implicitamente o esplicitamente il patto stesso garantiva a Venezia – e ad essa sola – da un lato ampie prerogative sulla revisione dei capitoli di dedizione, dall‟altro uno stretto controllo sulla produzione statutaria e legislativa del centro soggetto. In altre parole con il medesimo atto volto a garantire alla comunità suddita la possibilità di continuare a regolare di propria iniziativa la vita politica locale, Venezia si attribuiva un sostanziale

18 Con riferimento alla prima età moderna Giorgio Chittolini ha definito «diarchia» la «stretta

collaborazione che un po‟ ovunque in Italia si istituzionalizza fra gli organi del nuovo Stato e il vecchio apparato di governo del comune urbano». Per Chittolini, alla dizione Stato moderno è quindi preferibile quella di Stato regionale, capace di conciliare tanto i fenomeni di accentramento politico-amministrativo proprie dei principati dell‟età moderna quanto la persistenza in essi di prerogative, privilegi e poteri di corpi e istituzioni locali di tradizione municipale (Cfr. G.CHITTOLINI, La formazione dello Stato regionale e

le istituzioni del Contado. Secoli XIV e XV, Torino, Einaudi, 1979, in particolare p. XXI e ID.,

“City-States” and Regional States in North-Central Italy, in “Theory and Society”, 18, fasc. 5 (1989),pp. 689-706. Si veda inoltre M.BERENGO, Città e contado in Italia dal XV al XVIII secolo in “Storia della città”, 10

(1985), pp. 107-111). Su questi temi si veda inoltre A.DE BENEDICTIS, Repubblica per contratto. Bologna:

una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna, Il Mulino, 1995. Per un rassegna sulla storiografia sullo

Stato territoriale veneziano si veda G.M.VARANINI, La Terraferma veneta del Quattrocento e le tendenze

recenti della storiografia in 1509-2009. L‟ombra di Agnadello. Venezia e la Terraferma, a cura di G. Del Torre e

A. Viggiano, Venezia, Ateneo Veneto, 2011, pp. 13-63.

19 Si potrebbero mutuare le parole spese da Luca Mannori per il caso toscano: «Privo di una

costituzione unitaria che definisca una volta per tutte le relazioni tra le sue parti costitutive, lo Stato post-cittadino non può che rinviare, a tale effeto, alle singole capitolazioni che hanno segnato la sottomissione di ogni sua componente alla dominante» (L. MANNORI, Il sovrano tutore: pluralismo

istituzionale e accentramento amnistrativo nel principato dei Medici (Secc. XVI-XVIII), Milano, Giuffré, 1994, p.

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potere di veto su tale attività. Per quanto ampie fossero le autonomie concesse con il patto non vi erano dubbi sul fatto che esso sancisse l‟irrimediabile perdita di sovranità da parte dei conquistati. Agli occhi della Dominante il rispetto degli accordi stipulati – primo fra tutti il rispetto degli statuti locali – non trovava dunque fondamento sul principio della reciproca obbligazione ma su un sapere politico empirico, su una pragmatica considerazione di potenzialità, possibilità e utilità del loro mantenimento o della loro revisione.20 Usando le parole di Sarpi, si potrebbe sostenere come il principe rispettasse quel patto non per obbligo verso il suddito ma per sua coscienza e per dovere verso Dio.

Tra gli anni ‟60 e gli anni ‟80 del secolo scorso, tanto le suggestioni di Angelo Ventura quanto quelle di Gaetano Cozzi sul tema della dedizioni e della penetrazione veneziana in terraferma – e ancor più il contrasto tra le due lezioni – hanno determinato una significativa svolta nella storiografia sulla Repubblica di Venezia. 21 Effetto non secondario, la problematizzazione della dimensione territoriale dello Stato veneziano ha dimostrato come quel Domino che a lungo era apparso agli

20 Per un‟introduzione al tema dei patti di dedizione in area veneta rimando a G.ORTALLI, Entrar nel

Dominio: le dedizioni delle città alla Repubblica Serenissima in Società, economia, istituzioni. Elementi per la conoscenza della Repubblica Veneta, Vol.I, Verona, Cierre, 2002, pp. 49-62. Si vedano inoltre A.MENNITI

IPPOLITO, La dedizione di Brescia a Milano (1421) e a Venezia (1427): città suddite e distretto nello stato

regionale, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di G. Cozzi, Vol. II,

Roma, Jouvence, 1985, pp. 17-58; ID., La dedizione e lo stato regionale. Osservazioni sul caso veneto, in

“Archivio veneto”, V serie, CXXVII (1986), pp. 5-30; ID., La «fedeltà» vicentina e Venezia. La dedizione del

1404, in Storia di Vicenza, Vol. III, Tomo I, L‟età della Repubblica veneta (1404-1797), a cura di F. Barbieri – P. Preto, Vicenza, Neri Pozza, 1989, pp. 29-43. G. M. VARANINI, Le due redazioni dei capitoli di

dedizione di Bassano a Venezia (1404), in “Bollettino del Museo Civico di Bassano del Grappa”, 100

(2004), pp. 75-82.

21 Si vedano i fondamentali A.VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta del Quattrocento e Cinquecento,

Milano, Unicopli, 1993 (I edizione Bari, Laterza, 1964) e G.COZZI.,La politica del diritto nella Repubblica

di Venezia, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di G. Cozzi, Vol. I,

Roma, Jouvence, 1980, pp. 15-152 (in particolare p. 80), riedito in ID.,Repubblica di Venezia e Stati

italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino, Einaudi, 1982, versione a cui si farà

riferimento nelle prossime citazioni. Inoltre per un‟analisi del dibattito tra i due studiosi e l‟influenza sulla storiografia successiva oltre a G. COZZI, Recensione a: Angelo Ventura, Nobiltà e popolo nella società

veneta del „400 e „500, Bari, Laterza, 1964 in “Critica storica”, V, 1 (1966), pp. 126-130 si veda J.GRUBB,

When Myths lose Power: four Decades of Venetian Historiography, in “The Journal of Modern History”, 58,

fasc. 1 (1986), in particolare pp. 76-82. Più che la querelle tra Angelo Ventura e Gaetano Cozzi sulla natura giuridica e sulla ratio politica soggiacente ai patti di dedizione trovo utile riprendere in questa sede le pragmatiche riflessioni di Alfredo Viggiano: «Che la tanto decantata spontaneità delle deditiones possa risultare alla prova dei fatti alquanto dubbia, ha una importanza secondaria. Il modello di Stato e di autorità che questa particolare concezione delle modalità attraverso cui si era realizzata la conquista postulava prevedeva un rapporto tra Principe e sudditi in cui, pur essendo chiarissimo che la sovranità risiedeva solo da una parte (...), si dava ampio spazio a concessioni, a deroghe, al mantenimento della autonomie dei centri assoggettati, nei vari settori dell‟amministrazione della giustizia, della gestione delle risorse, dei meccanismi di controllo sulle strutture di potere locali. L‟instaurazione di questo tipo di polarità tra governanti e governati è determinata dai Pacta stipulati al momento della conquista veneziana» (A.VIGGIANO, Governanti e governati. Legittimità del potere ed esercizio

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studiosi come una nebulosa informe alle spalle della laguna, avesse in realtà costituito per la Dominante e il suo patriziato non solo una terra di conquista e di penetrazione economica ma un interlocutore politico considerevole, con il quale non ci si poteva esimere dal dialogare, in una costante tensione caratterizzante il processo di formazione e strutturazione dello Stato moderno.22 Simili presupposti – nonché il confronto con risultati analoghi riscontrati per altri contesti italiani –23 hanno permesso l‟affermarsi di una storia dei rapporti tra Dominante e Dominio, della loro relazione complessa, dialettica e conflittuale, caratterizzata da una continua e progressiva ridiscussione di prerogative, privilegi, autonomie e equilibri di potere.24 Al contempo approcci per case studies, storie locali e microstorie hanno messo in luce l‟esistenza di particolarismi e peculiarità dei singoli territori, determinati dalla loro collocazione amministrativo-giurisdizionale ma anche a varianti di tipo culturale e antropologico. 25

Simili acquisizioni hanno reso del tutto inadeguate definizioni del concetto di sudditanza costruite per opposizione a quello di corpo sovrano, basate sulla dicotomica e semplicistica distinzione tra una élite attiva detentrice del potere e una

22 Per una efficace rassegna storiografica si veda M.KNAPTON, «Nobiltà e popolo» e un trentennio di

storiografia veneta, in “Nuova Rivista Storica”, 82 (1998), pp. 167-192.

23 Si veda, ad esempio, CHITTOLINI, La formazione dello Stato regionale cit., e la raccolta di saggi ID., Città,

comunità e feudi negli Stati dell'Italia centro-settentrionale (secoli XIV-XVI), Milano, Unicopli, 1996.

24 S.ZAMPERETTI, I “sinedri dolosi”. La formazione e lo sviluppo dei corpi territoriali nello stato regionale veneto tra

'500 e '600, in “Rivista Storica Italiana”, XCIX (1987), pp. 269-320; ID.,I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, Venezia, Il

Cardo, 1991; ID., Magistrature centrali, rettori e ceti locali nello Stato regionale veneto in età moderna, in Comunità e

poteri centrali negli antichi Stati italiani. Alle origini dei controlli amministrativi, a cura di L. Mannori, Napoli,

CUEN, 1997, pp. 103-115; VIGGIANO, Governanti e governati cit.; C. POVOLO, Centro e periferia nella

Repubblica di Venezia. Un profilo in, Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini – A. Molho – P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 207-221; ID.,

L‟intrigo dell‟onore, Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento, Verona, Cierre, 1997;

M.KNAPTON, Il Territorio vicentino nello stato veneziano del '500 e primo'600: nuovi equilibri politici e fiscali, in

Dentro lo “stado italico”. Venezia e la terraferma fra Quattro e Seicento, a cura di G. Cracco e M. Knapton,

Trento, Civis, 1984, pp. 33-115; ID., Le istituzioni centrali per l'amministrazione ed il controllo della terraferma, in Venezia e le istituzioni di terraferma, Bergamo, Comune di Bergamo, 1988, pp. 35-56; ID., Tra Dominante

e dominio (1517-1630), in La Repubblica di Venezia nell'età moderna cit., pp. 201-549; J.GRUBB, Firstborn of

Venice: Vicenza in the early renaissance State, Baltimora – London, The Johns Hopkins University Press,

1988; G. M.VARANINI, Comuni cittadini e stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento,

Verona, Libreria Editrice Universitaria, 1992; G.DEL TORRE, Venezia e la terraferma dopo la guerra di

Cambrai : fiscalità e amministrazione 1515-1530 , Milano, Franco Angeli, 1986; A.ROSSINI, Le campagne

bresciane nel Cinquecento. Territorio, fisco, società, Milano, Franco Angeli, 1994.

25 Ci limitiamo in questa seda a segnalare alcune fondamentali progetti di ricerca: C.POVOLO (a cura

di) Lisiera. Immagini, documenti e problemi per la storia e cultura di una comunità veneta. Strutture – congiunture –

episodi, Lisiera (Vi), Edizioni parrocchia di Lisiera, 1981; ID. (a cura di), Dueville: Storia e identificazione di

una comunità del passato, Vicenza, Neri Pozza, 1985; ID. (a cura di), Bolzano Vicentino: dimensioni del sociale e

vita economica in un villaggio della pianura vicentina (secoli XIV-XIX), Vicenza, Comune di Bolzano

Vicentino, 1985; G.M. VARANINI (a cura di), La Valpolicella nella prima età moderna, Verona, Centro di

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massa passiva irrimediabilmente esclusa da esso.Risulta evidente come tracciare una demarcazione tra il patriziato veneziano assiso in Maggior Consiglio, detentore esclusivo della sovranità e il resto della popolazione permetta solamente di individuare delle macrocategorie che nello sforzo di fornire un‟agile definizione dell‟articolazione sociale veneziana finiscono irrimediabilmente col mascherarne la complessità e falsarne la percezione. La riflessione sullo statuto della sudditanza in area veneta ha determinato una ridefinizione degli oggetti della ricerca storica: per cominciare, soggetti quali la plebe urbana e il ceto dei cittadini originari – detentori privilegiati di importanti funzioni nella burocrazia ducale – hanno progressivamente fatto la loro comparsa negli studi dedicati alla città di Venezia. 26 Contemporaneamente il maggiore interesse per le terre del Dominio ha permesso di definire con maggiore rigore scientifico le distinzioni – nonché le affinità – culturali, giuridiche e antropologiche esistenti – ad esempio – tra un abitante della Terraferma e uno dello Stato da Mar, tra gli abitanti delle grandi città capoluogo di distretto e le popolazioni del contado, tra i patriziati locali assisi nei consigli cittadini e la plebe urbana, tra un notabilato rurale arroccato nelle vicinie e nelle assemblee comunitarie e la massa dei contadini e artigiani esclusa da esse. La dimensione della sudditanza è apparsa finalmente nella sua viscosa complessità: in concetto veniva finalmente ad includer singoli individui ma anche gruppi, corpi, città, comunità, ville, castelli e “quasi città”,27 laici e religiosi, secolari come regolari, curati, vescovi ma anche i cardinali veneti presenti alla corte romana. 28 Già questi scarni accenni rendono conto della dimensione del problema della sudditanza nella Repubblica di Venezia, nonché

26 Cfr. B. PULLAN, Rich and Poor in Renaissance Venice: the Social Institutions of a Catholic State, Oxford,

Oxford University Press, 1971; E. MUIR, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton, Princeton University Press, 1981; R.FINLAY, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano, Jaca Book, 1982. Più specificatamente, sui cittadini originari si vedano G.TREBBI, La cancelleria veneta nei secoli XVI e

XVII, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, 14 (1980), pp. 117-119; A.ZANNINI, Un ceto di

funzionari amministrativi: i cittadini originari veneziani, 1569-1730, in “Studi veneziani”, 23 (1992), pp.

131-145; ID., Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia,

Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1993 e ancora M.GALTAROSSA, La preparazione burocratica dei

segretari e notai ducali a Venezia (sec. XVI-XVIII), Venezia, Deputazione di storia patria per le Venezie,

2006; ID., Mandarini veneziani. La Cancelleria ducale nel Settecento, Roma, Aracne, 2009.

27 Rimando per questi aspetti alla bibliografia orientativa già citata alle note 24 e 25.

28 A. MENNITI IPPOLITO, Politica e carriere ecclesiastiche nel sec. XVII: i vescovi veneti fra Roma e Venezia,

Bologna, Il Mulino, 1993. ID., «Sudditi d‟un altro stato»? Gli ecclesiastici veneziani, in Storia di Venezia, Vol.

VII, La Venezia barocca, a cura di G. Benzoni e G. Cozzi, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1997, pp. 325-365; ID., La Repubblica di Venezia e il clero veneto. Un eterno interdetto? in Lo Stato Marciano

durante l‟Interdetto, a cura di G. Benzoni, Rovigo, Minelliana, 2008, pp. 51-65. Si veda anche G.DEL

TORRE, Patrizi e cardinali. Venezia e le istituzioni ecclesiastiche nella prima età moderna, Milano, Franco Angeli,

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della miriade di categorizzazioni possibili per lo storico che intenda affrontarne lo studio. Solo una precisa contestualizzazione del termine “suddito”, attenta alle congiunture e alle forme, nonché del soggetto dal quale di volta in volta venne adottato, può attenuarne la genericità e renderne apprezzabili significati e implicazioni concrete.

Recentemente, a partire da un felice studio condotto sul periodo dell‟Interdetto – e muovendo da una posizione critica nei confronti del paradigma habermarsiano di “sfera pubblica” –29 Filippo De Vivo ha proposto di complicare ulteriormente la lettura della società veneziana assumendo come suo criterio interpretativo non tanto il grado di esclusione all‟esercizio del potere, bensì la capacità di accesso all‟informazione politica.30 Una simile prospettiva suggerisce l‟individuazione di categorie più duttili, solo in parte sovrapponibili a quelle precedentemente illustrate: l‟autorità, l‟arena politica e la città costituiscono tre nuclei aggreganti una molteplicità di attori, tre diversi livelli del sistema politico e sociale, tre poli confliggenti e cooperanti nel dar luogo al processo di comunicazione politica. L‟autorità corrisponde al patriziato veneziano nella sua manifestazione istituzionale – le magistrature – , detentore della sovranità, impegnato in un‟attività di governo che in larga misura consiste nel reperimento di informazioni e nella sua discussione ai fini del processo di

decision making. Siamo nell‟ambito della cosiddetta “alta politica”, della più ufficiale

attività di governo, caratterizzata – almeno in linea di principio – dalla più assoluta segretezza. A un secondo livello abbiamo invece quella che De Vivo definisce come

arena politica: se il concetto di autorità può essere in larga misura sovrapponibile a

quello di patriziato – ancora una volta nella sua manifestazione politico-istituzionale – , quello di arena politica trascende le consuete distinzioni di classe e appartenenza sociale per definire una élite eterogenea e inconsapevole, costituita da individui e gruppi in conflitto tra di loro, definiti solo dal comune accesso all‟informazione politica garantito da reti di contatti e relazioni informali. L‟idea di arena politica allude

29 Più in generale in merito al progressivo ripensamento del paradigma habermarsiano operato dalla

storiografia internazionale si veda C.CALHOUN (a cura di), Habermas and the Public Sphere, Boston, M.I.T. Press, 1992; P.LAKE –S.PINCUS, Rethinking the Public Sphere in Early Modern England, in “Journal of British Studies”, 45, fasc. 2 (2006), pp. 270-292. M.ROSPOCHER (a cura di), Beyond the Public Sphere.

Opinions, Publics, Spaces in Early Modern Europe, Bologna – Berlin, Il Mulino - Duncker & Humblot,

2012. Con riferimento al caso veneziano si veda M.ROSPOCHER –R.SALZBERG, «El vulgo zanza»:

spazi, pubblici, voci a Venezia durante le guerre d‟Italia, in “Storica”, 48 (2010), pp. 83-120.

30 Cfr. DE VIVO, Patrizi, informatori, barbieri cit., ma anche ID.Public Sphere or Communication Triangle?

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a uno spazio più che ai soggetti che vi si muovono all‟interno, a delle pratiche più che a delle istituzioni: è la discussione politica al di fuori del contesto istituzionale, l‟uso e il reperimento dell‟informazione politica in quanto tale ma al di fuori (o ai margini) dell‟attività di governo ad accumunare singole personalità patrizie e funzionari ducali, ambasciatori e informatori, gazzettieri e libellisti. A un ultimo livello la città, intesa come metafora spaziale dei soggetti esclusi da qualsiasi forma di partecipazione politica, e teoricamente anche dalle informazioni su di essa. Uno degli indubbi meriti del modello è quello di aver ridimensionato questa interpretazione svilente il ruolo degli strati popolari urbani, derivata dalla rappresentazione che ne vollero dare i detentori dell‟autorità: efficacemente si è dimostrato come la plebe urbana accedesse e ricercasse l‟informazione politica, magari non in quanto tale, ma in ogni caso intendendola e interpretandola come una risorsa preziosa, utilizzabile in altri contesti e ai fini della propria promozione economica e sociale. I tre livelli – avverte l‟autore – non vanno intesi come dei compartimenti stagni: un tale modello di comunicazione politica può reggersi solo e unicamente sull‟interazione cooperante e conflittuale dei tre poli, nonché su un certo grado di sovrapposizione tra di essi,favorito se non altro dalla promiscuità degli ambienti propria del contesto urbano.31 Così inteso lo studio della comunicazione politica in antico regime, allontanandosi sensibilmente dal paradigma habermarsiano, rifiuta tanto i concetti di propaganda (inteso come movimento di imposizione di informazioni dal vertice alla base della gerarchia sociale) quanto quello opposto di opinione pubblica: l‟immagine che ne deriva è ancora una volta quella di un rapporto dialettico tra governanti e governati, dove la comunicazione politica si caratterizza per una costante e reciproca commistione di usi pubblici e usi privati dell‟informazione.

Pur considerata, la Terraferma resta, nell‟acuta lettura operata da De Vivo, un orizzonte non compiutamente analizzato, sulla scia di una tradizione della storia della comunicazione che ha a lungo esaltato la dimensione eminentemente urbana del fenomeno. Del resto, la scarsa loquacità della documentazione proveniente dalla terraferma – lettere dei rettori e una filza di processi celebrati tra 1606 e 1607 dal Podestà di Vicenza32 – ha consentito solamente di percepire e dimostrare

31 Si veda anche M.INFELISE, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione, Roma-Bari, Laterza,

2002, pp. 146-153.

32 ASV, CI, f. 3. Per un‟analisi della medesima filza si veda inoltre SAMBO, Città, campagna e politica

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l‟integrazione dell‟ambiente veneto nel modello proposto, senza però poterne apprezzare le modalità. Bisogna del resto rilevare come la questione del Dominio e dei suoi rapporti con la Dominante, di urgente attualità nel momento della crisi, abbia goduto di un interesse marginale da parte della storiografia sull‟Interdetto: anche uno storico attento alla dimensione territoriale della Repubblica veneta quale Gaetano Cozzi ha letto la crisi del 1606-1607 come un momento di eroica resistenza del patriziato veneziano – o meglio, di una sua minoranza – alle pretese giurisdizionaliste del Papato della Controriforma.33 Spazio ancora minore è stato riservato al problema dello Stato territoriale dagli studi più specificatamente dedicati alla figura di Paolo Sarpi:34 gli stessi consulti del servita sono stati analizzati per i loro esiti, per il pensiero giurisdizionalista di cui si fecero veicolo e solo in parte nel loro aspetto di scrittura tecnica, richiesta dal governo veneto al servita allo scopo di risolvere minuti conflitti locali, promossi dai sudditi per finalità ben lontane da quell‟ “alta politica” veneziana che avrebbero finito con l‟interessare e preoccupare.35 Si ha dunque l‟impressione che nonostante l‟ormai vastissima bibliografia sull‟Interdetto manchi ancora uno studio complessivo capace di inserire organicamente nel conflitto tra Venezia e Papato un terzo polo dialettico costituito dal Dominio veneto, quel contesto geopolitico e sociale che tanto ha interessato l‟analisi storiografica sullo Stato marciano dell‟ultimo cinquantennio. Manca uno studio che si occupi di quello che fu il campo di battaglia e l‟oggetto di conquista della guerra delle scritture e al contempo l‟arma che il Papato tentò di muovere contro Venezia: la società veneta nelle sue articolazioni.36 Quale fu

33 Cfr. COZZI, Venezia barocca cit.

34 G. e L.COZZI, Paolo Sarpi, in Storia della Cultura Veneta, Vol.4, Tomo II, Il Seicento, a cura di G.

Arnaldi e M. Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1984, pp. 1-36;D.WOOTTON, Paolo Sarpi between

Renaissance and Enlightenment, Cambridge, Cambridge University Press, 1983;V.FRAJESE, Sarpi scettico.

Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Bologna, Il Mulino, 1994. Per una panoramica generale

sull‟evoluzione della storiografia su Paolo Sarpi si veda G. TREBBI, Paolo Sarpi in alcune recenti

interpretazioni in Ripensando Paolo Sarpi. Atti del Convegno Internazionale di Studi nel 450° anniversario della nascita di Paolo Sarpi, a cura di Corrado Pin, Venezia, Ateneo Veneto, 2006, pp. 651-688.

35Un maggiore equilibrio tra queste linee interpretative si riscontra nella recente edizione a cura di

Corrado Pin dei consulti sarpiani del periodo 1606-1609 (P.SARPI, Consulti, Vol.I, Tomo I e II, a cura

di C. Pin, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001). Per la stessa ragione si veda inoltre ID., Venezia, il Patriarcato di Aquileia e le «giurisdizioni nelle terre patriarcali del Friuli» (1420-1620), a cura di C. Pin, Udine, Deputazione di storia patria per il Friuli, 1985. Altre significative eccezioni possono considerarsi i saggi di C.POVOLO, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei dieci. Una

vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia, Il Cardo,

1992, pp. 221-233 e ID.,Un rapporto difficile e controverso: Paolo Sarpi e il diritto veneto, in Ripensando Paolo

Sarpi cit., pp. 395-416.

36 Va segnalato tuttavia come non manchino studi e edizioni di documenti dedicati a specifici territori.

Si veda ad esempio E.BACCHION, Le vicende trevigiane dell'interdetto di Paolo V, in “Archivio veneto”, 15

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l‟impatto sui domini veneziani – struttura territoriale policentrica e poligiurisdizionale, reticolo di città, feudi e comunità rurali – del richiamo alla sovversione operato da Paolo V con la sospensione dei sacramenti? Su quali basi si realizzò la tenuta dello Stato territoriale di fronte a una così temibile delegittimazione del potere sovrano? Se a lungo la storiografia ha insistito sulla fiera resistenza operata dalle istituzioni veneziane, sul ruolo giocato dai giovani, il gruppo patrizio anticuriale al potere, e ancor più sull‟attività consultiva di Paolo Sarpi,37 scarsamente ci si è interrogati sulle ragioni strutturali, insite al sistema politico-territoriale dello Stato moderno e alle relazioni di potere tra governanti e governati. A distanza di quattrocento anni, l‟Interdetto, momento di emergenza di problematiche latenti, continua dunque a porre degli interrogativi e a proporsi come “laboratorio” adatto all‟osservazione di fenomeni di più lungo periodo e di problematiche intrinseche alla società veneta e alla sua peculiare costituzione materiale, modellata dall‟attrito e dalla compenetrazione tra ambiente veneziano e ambiente veneto, dalla pluralità delle giurisdizioni e delle forme giuridiche, nonché dall‟impatto su di esse delle trame della Riforma cattolica e della Controriforma.

A partire dalla congiuntura dell‟Interdetto, il presente lavoro intende interrogarsi da un lato sulle forme e sui linguaggi propri della comunicazione politica tra governanti e governati nel contesto della Repubblica veneta, dall‟altro sulle istituzioni incaricate di mediare quel dialogo.38 Nel primo capitolo ci si concentrerà dunque sulle retoriche messe in campo dalla Repubblica veneta per giustificare al suddito la legittimità e la bontà della legislazione antiecclesiastica contestata da Paolo V a partire

tempi, Città di Castello, 1923, pp. 105-118; C.PIN, Per la storia della vita religiosa a Bassano: Reazioni nel

Bassanese all'Interdetto di Paolo V contro la Repubblica di Venezia, in “Bollettino del Museo Civico di

Bassano” – [Giornata di Studi di Storia bassanese in memoria di Gina Fasoli], a cura di Renata Del Sal (1992-1994), pp. 129-149. Nel volume G.BENZONI (a cura di), Lo Stato Marciano durante l‟Interdetto cit, si vedano G.GULLINO, Le campane continuano a suonare: l‟Interdetto a Padova, Vicenza, Treviso, Verona e

Belluno, pp. 81-87; D.MONTANARI, L‟Interdetto nelle terre oltre il Mincio, pp. 89-98; M.T.PASQUALINI

CANATO, L‟Interdetto nel Polesine, pp. 99-116.

37 Paradigmatico BOUWSMA, Venice and the Defense of Republican Liberty cit.

38 Si fa propria in questa sede la definizione di linguaggio politico proposta da Isabella Lazzarini: «in

questo ambito, il termine linguaggio va inteso come il complesso di rappresentazioni – linguistiche, concettuali, documentarie, visive – utilizzate consapevolmente dai vari protagonisti del confronto politico per costruire discorsi in grado di definire la propria presenza in un contesto complesso, locale o sovralocale, puntando tramite queste procedure discorsive ad agire politicamente al fine di ottenere legittimazione, vantaggio, identità, visibilità, incolumità, privilegi. In questo senso, con linguaggio si vorrebbe intendere un insieme di concrete – per quanto tutt‟altro che ingenue – pratiche discorsive, una sorta di “parlato politico”, di cui si sottolinea di volta in volta la funzione performativa: la capacità cioè riconosciuta alle parole non solo di descrivere, ma anche di costruire la realtà». (I.LAZZARINI, Il

linguaggio del territorio fra principe e comunità: il giuramento di fedeltà a Federico Gonzaga (Mantova 1479),

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da una approfondita analisi della lettera che il 20 aprile 1606 il Senato inviò ai consigli delle maggiori comunità di Terraferma. Quanto addotto in quella sede dal Principe verrà messo in relazione con i contenuti delle risposte che le comunità suddite vollero dare a una così insolita comunicazione: l‟obiettivo è quello di valutare l‟incontro, l‟attrito o l‟eventuale contaminazione tra linguaggi politici prodotti da contesti sociali, giuridici e antropologici radicalmente diversi come potevano essere la Dominante e il suo Dominio.39 Sulla base di quale comune orizzonte culturale, su quale repertorio condiviso di immagini e retoriche fu possibile dispiegare forme di dialogo tra governanti e governati in un momento di forte tensione come quello dell‟Interdetto?

Nel secondo capitolo si tenterà di dare una definizione per quanto possibile meno astratta al concetto di dialogo tra Principe e suddito, considerando – come lucidamente rilevato da Massimo Della Misericordia – come l‟interazione politica tra governanti e governati in antico regime implicasse l‟ampio ricorso a forme di comunicazione quanto mai dirette.40 Una ormai consolidata tradizione storiografica ha ravvisato nella supplica il principale strumento di interazione politica diretta tra governanti e governati.41 Il presente studio intende accogliere queste suggestioni ma al contempo spostare il focus dell‟analisi dalla supplica in sé e dalla via supplicationis al momento della fisica presentazione della richiesta al Principe. L‟ordinamento veneziano demandava alla Signoria e al Collegio, magistrature di primaria rilevanza per il funzionamento dell‟apparato deliberativo veneziano, l‟incarico di accogliere i supplicanti e valutare l‟ammissibilità delle loro richieste.42 I fondi archivistici di entrambe le magistrature presentano tuttavia solo delle laconiche testimonianze

39 Una simile impostazione metodologica è stata avanzata da Isabella Lazzarini nel suo studio sui

giuramenti di fedeltà delle comunità mantovane ai principi di casa Gonzaga (Ibidem). Si veda inoltre ID.,“Cives vel subditi”: modelli principeschi e linguaggio dei sudditi nei carteggi interni (Mantova, XV secolo), in I

linguaggi politici nell‟Italia del Rinascimento (secoli XIV-XV), a cura di A. Gamberini, G. Petralia, Roma,

Viella, 2007, pp. 89-112.

40 M.DELLA MISERICORDIA, «Per non privarci de nostre raxone, li siamo stati desobedienti». Patto giustizia e

resistenza nella cultura politica delle comunità alpine nello stato di Milano (XV secolo), in Forme della comunicazione politica cit., pp. 147-216.

41 Si vedano i fondamentali L.HEERMA VAN VOSS (a cura di), Petitions in Social History, Cambridge,

Cambridge University Press, 2001; C. NUBOLA –A. WÜRGLER (a cura di), Suppliche e «gravamina».

Politica, amministrazione, giustizia in Europa (secoli XIV–XVIII), Bologna, Il Mulino, 2002;C.NUBOLA –

A. WÜRGLER (a cura di), Forme della comunicazione politica in Europa nei secoli XV-XVIII. Suppliche,

gravamina, lettere, Bologna – Berlin, il Mulino – Duncker & Humblot, 2004.

42 Per un sintetico profilo istituzionale si veda M.FERRO, Dizionario del Diritto Comune e Veneto, Vol. II,

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relative a questa pur determinante funzione.43 Allo scopo di superare il questo limite archivistico ed ermeneutico si è valutata l‟opportunità di riprendere lo studio di figure quali nunzi e ambasciatori sudditi, i rappresentanti inviati a Venezia dalle comunità di Terraferma allo scopo di presentare suppliche e difenderne le richieste in sede giudiziaria. Si tratta di figure istituzionali che hanno saputo suscitare un precoce interesse nella storiografia veneta: già sul finire del‟800 Emilio Morpurgo sollecitò gli studiosi a prendere in considerazione come fonte il carteggio quotidiano intrattenuto tra le comunità e i loro rappresentanti nella convinzione che simili documenti sarebbero bastati «da sé soli a chiarire le relazioni della Terraferma colla Dominante», sostenendo inoltre come «con essi si mostrerebbero sotto un nuovo aspetto l‟indole e le forme del governo veneto nei domini ad esso aggregati».44 Se si escludono i datati contributi di Maria Borgherini Scarabellin sul nunzio padovano,45 di Giulio Fasolo sul rappresentante vicentino,46 di Angelo Pinetti sull‟omologo bergamasco47 nonché i più recenti e scientificamente fondati saggi di Carla Scroccaro e Gian Maria Varanini sulle legationes veronesi,48 si può concludere come l‟invito di Emilio Morpurgo sia stato largamente disatteso. Persino quella prolifica stagione di studi inaugurata da Angelo Ventura che con tanto profitto si è occupata dei rapporti tra Dominante e Dominio, tra istituzioni centrali e istituzioni locali nello Stato marciano, è ritornata solo incidentalmente sulla questione. La storiografia italiana e internazionale può

43 DA MOSTO, L‟archivio di Stato di Venezia. Indice generale, storico, descrittivo ed analitico, Roma, Biblioteca

d‟arte, 1937, pp. 22-24.

44 E.MORPURGO, Le Rappresentanze delle popolazioni di terraferma presso il Governo della Dominante, in “Atti

del Regio Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti”, 4 (1878), pp. 869-888. Si vedano inoltre le più recenti suggestioni proposte da Birgit Emich, la quale, a partire dallo studio dei rapporti tra Ferrara e Roma a cavallo tra Cinque e Seicento ha evidenziato l‟opportunità di concentrarsi non solo sullo studio degli apparati amministrativi, ma anche sul carteggio tra “centro” e “periferia”allo scopo di indagare la pratica di governo e soprattutto l‟interpretazione fornitane dai suoi protagonisti (B.EMICH,

Potere della parola, parole del potere: Ferrara e Roma verso il 1600, in “Dimensioni e problemi della ricerca

storica”, 2 (2001), pp. 79-106.

45 M. BORGHERINI SCARABELLIN, Il nunzio rappresentante di Padova in Venezia durante il dominio della

Repubblica con speciale riguardo al „700, in “Nuovo Archivio Veneto”, n.s., XI, XXII, fasc. I (1911), pp.

365-412.

46 G. FASOLO, Il nunzio permanente di Vicenza a Venezia nel secolo XVI, in “Archivio Veneto”, XVII

(1935), pp. 90-178.

47 A. PINETTI, Nunzi ed ambasciatori della Magnifica Città di Bergamo alla Repubblica di Venezia, in

“Bergomum”, XXIII, III, fasc. 1 (1929), pp. 33-57.

48 C. SCROCCARO, Dalla corrispondenza dei legati veronesi: aspetti delle istituzioni veneziane nel secondo

Quattrocento, in “Nuova Rivista Storica”, 70, fasc. 5-6 (1986), pp. 625-636; G. M. VARANINI, Il giurista, il

Comune cittadino, la Dominante. Bartolomeo Cipolla legato del Comune di Verona a Venezia (1447-1463), in ID.,

Comuni cittadini e stato regionale cit., pp. 361-384. Di particolare interesse, perché dedicato alla

ricostruzione del profilo biografico e istituzionale di un rappresentante di una comunità rurale C. POVOLO, L'uomo che pretendeva l'onore. Storia di Bortolamio Pasqualin da Malo (1502-1591), Venezia,

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sopperire solo in parte a questa carenza: Erminia Irace per il caso perugino49 e Massimo Della Misericordia con riferimento alle comunità delle Alpi lombarde50 hanno intravisto nelle forme di rappresentanza presso il Principe un tentativo da parte dei corpi sudditi di ricondurre le relazioni con il sovrano a una dimensione pretesa come personale e diretta, in un moto per certi versi antagonista all‟incipiente spersonalizzazione e burocratizzazione propria dello Stato moderno. In tal senso le dotazione da parte dei corpi sudditi di forme di rappresentanza sempre più elaborate sarebbe contestualizzabile in un generale disegno di affermazione di un‟identità politica messa in discussione dall‟inserimento della comunità locale in una compagine statale dai connotati più forti e definiti. Studiando il caso spagnolo, Antonio Alvarez-Ossorio Alvariño ha al contrario ravvisato nelle ambascerie suddite accolte alla corte di Madrid uno dei pilastri della pratica di governo della monarchia, rilevando al contempo come uno studio approfondito sulla questione permetta di apprezzare la struttura reticolare dell‟esercizio del potere, i vincoli formali e informali esistenti tra strutture di governo centrale e i diversi corpi sudditi e soprattutto di gettare luce sulle forme e sui linguaggi propri del dialogo tra governanti e governati.51 Michael P. Breen, analizzando il ruolo assolto dai rappresentanti digionesi all‟indomani della rivolta urbana del 1630, si è invece concentrato da un lato sulle competenze tecnico-giuridiche proprie di tali figure istituzionali, ma dall‟altro sulla loro capacità, dovuta alla loro conoscenza nell‟ambiente della corte e delle magistrature francesi, di inserirsi in reti clientelari e di attivarle a beneficio della loro città.52

49 E.IRACE, Una voce poco fa. Note sulle difficili pratiche della comunicazione tra il centro e le periferie dello Stato

Ecclesiastico (Perugia, metà XVI-metà XVII secolo), in Offices, écrit et papauté (XIIIe-XVIIe siècle), a cura di A.

Jamme e O. Poncet, Rome, Ecole Française de Rome, 2007, pp. 273-299.

50 M. DELLA MISERICORDIA, «Como se tuta questa universitade parlasse». La rappresentanza politica delle

comunità nello stato di Milano (XV secolo), Ad Fontes, 2010, online, URL: http://www.adfontes.it/biblioteca/scaffale/mdm-mixv/principi.pdf consultato il 22/02/2014. Nelle prossime citazioni si farà riferimento a questa edizione, versione estesa del saggio ID., «Como se tuta

questa universitade parlasse». La rappresentanza politica delle comunità nello stato di Milano (XV secolo) in Avant le contrat social. Le contrat politique dans l‟Occident médiéval (XIIIe–XVe siècle), a cura di F. Foronda, Paris,

Publications de la Sorbonne, pp. 117-170.

51 A.ÁLVAREZ-OSSORIO ALVARIÑO, Gobernadores, agentes y corporaciones: la corte de Madrid y el Estado de

Milan (1669-1675), in “Cheiron”, 17-18 (1992), pp. 219-221; ID., “Pervenire alle orecchie della Maestà”: el

agente lombardo en la corte madrilena, in “Annali di storia moderna e contemporanea”, 3 (1997), pp.

173-223. ID., Corte, reinos y ciudades en la monarquía de Carlos II: las legaciones provinciales, in “Pedralbes: revista

d'història moderna”, 18, fasc. 2 (1998), pp. 221-250.

52 M.P.BREEN, Law, City and King: Legal Culture, Local Politics and State Formation in Early Modern Dijon,

Rochester, University of Rochester Press, 2007.ID., Law, Patronage and Municipal Authority in

Seventeenth-Centiry France: the Aftermath of the Lanturelu Revolt in Dijon in “French history”, 20, fasc 2 (2006), pp.

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Nel secondo capitolo del presente lavoro si intende dunque accogliere questi stimoli provenienti dalla storiografia internazionale allo scopo di proporre una radicale rilettura della figura istituzionale e delle funzioni assolte da nunzi e ambasciatori sudditi nell‟ambito della Repubblica di Venezia. Prendendo in considerazione fonti di tipo normativo prodotte dalle comunità di Terraferma si tenterà quindi di delineare un profilo istituzionale della figura del rappresentante suddito. Al contempo si proporrà un approfondimento sulle funzioni della Signoria e del Collegio, le prestigiose magistrature veneziane presiedute dal doge incaricate di accogliere le suppliche e i loro latori. La finalità è quella di ricostruire un quadro quanto più preciso possibile delle forme e delle prassi istituzionali proprie della via

supplicationis. Allo stesso tempo si terranno in considerazione la corrispondenza

giornaliera intrattenuta tra le comunità suddite e i loro nunzi e ambasciatori allo scopo di ricostruire la fase preparatoria – impercettibile alla luce delle sole fonti normative – alla presentazione della supplica in Pien Collegio. Si porrà in quella sede una maggiore attenzione per gli aspetti informali e infraistituzionali del dialogo tra governanti e governati: colloqui privati tra rappresentanti sudditi e patrizi, creazione e mantenimento di rapporti clientelari, scambi di doni, fenomeni di corruzione.

Una volta definita la complessità dei linguaggi e delle forme del dialogo tra governanti e governati si tenterà nel terzo capitolo di comprendere come queste siano state dispiegate negli anni a cavallo dell‟Interdetto. A tal fine si è giudicato opportuno proporre un case study, segnalato per altro nello stesso monitorio di Paolo V: nel 1602 la Repubblica aveva legiferato sui beni ecclesiastici a partire da una supplica presentata dal nobile padovano Francesco Zabarella contro i monaci di S. Maria di Praglia e appoggiata dalla sua comunità tramite il suo nunzio.53 Vicenda privata ma determinante per lo scoppio della crisi veneto-pontificia, la causa tra Zabarella e i benedettini padovani godette sin da subito di un discreto spazio nei libelli della guerra delle scritture, fenomeno che contribuì alla creazione e alla perpetrazione della memoria storica dell‟evento.54 Prendendo in considerazione il coevo carteggio dei nunzi e degli ambasciatori padovani si tenterà di superare questa ricostruzione ufficiale per apprezzare gli aspetti infraistituzionali che caratterizzarono

53 *Breve di censure et interdetto della Santità di N. S. PP. Paolo V contra li SS. Venetiani, Roma, Stamperia

Vaticana, 1606.

54 Cfr. P.SARPI, Considerazioni sopra le censure della Santità di papa Paulo V contra la Serenissima Republica di

Venezia, in P.SARPI, Opere, a cura di G. e L. Cozzi Milano – Napoli, Ricciardi, 1969, pp. 153-221 [I

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l‟iter giudiziario che portò il Senato a legiferare in materia di proprietà ecclesiastica. In particolare si tenterà di comprendere se e in che modo il patriziato anticuriale che proprio in quegli anni aveva fatto del Collegio la sua roccaforte abbia potuto fare della via supplicationis uno strumento funzionale al dispiegamento dei propri indirizzi politici. Allo stesso modo, accogliendo la proposta interpretativa avanzata da Filippo De Vivo, si cercherà di comprendere non solo come le argomentazioni proprie della guerra delle scritture, la manifesta esibizione delle ragioni del Principe, siano state recepite dai sudditi ma anche adattate e utilizzate a fini supplicatori.

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