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1. La lettera del 20 aprile 1606

1.4 Forma e contenuto

Per molti aspetti la lettera del 20 aprile 1606 può apparire un documento contraddittorio, se non paradossale: era indirizzata ai rettori ma si rivolgeva alle comunità, voleva tastare la fedeltà dei sudditi ma esplicitamente non chiedeva loro alcuna esternazione di devozione, concedeva informazioni per consolidare la censura, ammetteva l‟esistenza di tensioni con il pontefice per disinnescarne il potenziale, apriva la comunicazione per poterla chiudere, voleva essere una comunicazione ufficiale ma rifuggiva i più elementari canoni di ufficialità, a cominciare dall‟archiviazione nelle cancellerie delle comunità. Ancora, il documento si presentava come una scrittura epistolare ma in considerazione degli ordini dati ai rettori poteva a ragione essere considerato un testo pensato in primo luogo per l‟oralità, per essere trasmesso a voce, strutturato per la declamazione in un‟unica, eccezionale e irripetibile occasione, in un luogo esclusivo (il consiglio civico) e di fronte a un ben circostanziato uditorio (l‟élite di governo locale).

59 Per questi aspetti rimando a DE VIVO, Patrizi, informatori, barbieri cit., in particolare pp. 50-51. 60 Gli ordini dati al clero vietavano l‟affissione di «bolle, breve o altra scrittura, di che qualità si sia»

(ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15, c. 13v-14r), mentre la lettera alle comunità sosteneva che «ogni escomunica et altro» che avesse fatto il papa sarebbe stata da considerarsi nulla (ivi, c. 19r-20v).

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Negli ultimi decenni numerosi contributi hanno messo in luce la ripresa da parte dell‟epistolografia rinascimentale di stilemi mutuati dell‟oratoria classica. Nel corso della prima età moderna, tanto la prolifica produzione di libri di lettere quanto la copiosa trattatistica sul secretario contribuirono a teorizzare una sostanziale sovrapposizione delle forme dei due generi:61 alla base di tale commistione è ravvisabile la crescente convinzione che lettera e orazione, a prescindere dal tono usato e dalla materia trattata, condividessero la medesima finalità ultima, vale a dire la disposizione ordinata del discorso all‟unico scopo di persuadere il destinatario, uditore o lettore che fosse.62 Nella fattispecie, il discorso persuasivo inviato dal Senato veneto alle comunità di Terraferma sotto forma di lettera seguiva pedissequamente la ripartizione teorizzata già in epoca classica per l‟oratoria giudiziale: all‟exordium seguivano una narratio delle cause scatenanti la crisi con il pontefice, la partitio degli argomenti in controversia – con dichiarazione dell‟ordine e del modo in cui sarebbero stati trattati –, la vera e propria argumentatio delle ragioni della Repubblica – condotta prevalentemente per confirmatio delle tesi favorevoli e solo in subordine per confutatio di quelle avverse – e infine la conclusio.63

Esordiva dunque il Senato con la dovuta captatio benevolentiae, funzionale a guadagnarsi l‟attenzione e il favore delle assemblee locali: l‟annuncio della gravità dell‟argomento – «trattando hora il pontefice di farne ritrattare [...] leggi et consuetudini» –64 si accompagnava alla lode delle virtù del suddito e a “umili” richiami dei meriti che il principesco mittente poteva vantare nei suoi confronti. I riferimenti all‟ininterrotto buon governo della Repubblica, alla protezione sempre

61 A. QUONDAM, Dal «formulario» al «formulario»: cento anni di «libri di lettere» in Le «carte messaggiere».

Retorica e modelli di Comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di A.

Quondam, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 13-158; N. LONGO (a cura di), Letteratura e lettere. Indagine

nell‟epistolografia cinquecentesca, Roma, Bulzoni, 1999. L.MATT, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana tra

Cinquecento e primo Seicento: ricerche linguistiche e retoriche, con particolare riguardo alle lettere di Giambattista Marino, Roma, Bonacci, 2005. Per quanto si dedichi allo studio di uno specifico genere epistolare, per

un inquadramento sui rapporti tra epistolografia e retorica e sul relativo dibattito nella prima età moderna risulta particolarmente utile la lettura di G.BARUCCI, Le solite scuse. Un genere epistolare del

Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 2009, in particolare pp. 7-60. A un livello più generale, sulla

riscoperta di modelli retorici ciceroniani nel corso della prima età moderna e sulla loro influenza nelle più diverse sfere d‟utilizzo della parole publique si veda C.REVEST, Naissance du cicéronianisme et émergence de

l‟humanisme comme culture dominante: réflexions pour une histoire de la rhétorique humaniste comme pratique sociale,

in Mélanges de l‟École française de Rome - Moyen Âge, 125, fasc. 1 (2013), versione digitale, caricata il 02.10.2013, consultata il 09.10.2013, URL : http://mefrm.revues.org/1192.

62 Si veda il saggio N. LONGO, Retorica ed epistolografia: una lettera di Paolo Giovio, in Letteratura e lettere cit.,

pp. 17-34.

63 Nomenclatura e definizioni delle singole partizioni sono tratte da H.LAUSBERG, Elementi di retorica,

Bologna, Il Mulino, 1969 [edizione originale München, Hueber, 1949].

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accordata alle popolazioni del suo Dominio, l‟ampio ricorso a metafore paternalistiche, la definizione dei sudditi come «carissimi et dilettissimi figliuoli» così come la ridondante insistenza sulla loro indubbia fedeltà, rispondevano all‟esigenza di blandire un uditorio potenzialmente ostile. La lettera procedeva per vie indirette, usava quella che la retorica classica definiva insinuatio – e che la cultura tardo rinascimentale avrebbe chiamato dissimulazione – per veicolare contenuti altrimenti difficilmente accettabili: la captatio benevolentiae rappresentava l‟occasione per ribadire al destinatario i termini e le norme sociali che regolavano la relazione con il mittente.65 Per quanto lusinghiera, la metafora familiare adottata dal Senato tracciava una netta linea di demarcazione tra mittente e destinatario ribadendo l‟esistenza di una imprescindibile gerarchia sociale e delle regole ad essa connesse.66 Il Principe della lettera del 20 aprile non mancava del resto di proclamare sin da subito l‟assolutezza del proprio potere:

A noi dunque fu dato dal principio della nostra Republica dall‟infinita clementia del Signor Dio il dominio di questo nostro Stato, senza riconoscer altro superiore che sua Divina Maestà, et in conseguenza ci fu concesso quello che è proprio del Principe supremo, cioè il far quelle leggi che sono state di beneficio dello Stato et sudditi nostri, et di giudicar li ecclesiastici, massime in casi gravi et attroci, da che depende la tranquilità et sicurezza d‟i medesimi sudditi.

Essere padre dello Stato significava detenere una piena potestas sui figli ed esercitare per volontà divina una piena autonomia decisionale, ma al contempo, e proprio in virtù di una tale investitura, essere responsabile del benessere dello Stato e della tutela del suddito.67 In compenso, per dovere filiale, al suddito non sarebbe restato altro che abbandonarsi all‟amorevole e saggia volontà del padre e ricambiare i

65 Cfr. K.PISCHEDDA, Supplicare, intercedere, raccomandare. Forme e significati del chiedere nella corrispondenza di

Cristoforo Madruzzo (1539-1567) in Forme della comunicazione politica cit., pp. 351-382; pp. 356-359.

66 Paradigmatica la riflessione di Francesco Sansovino: «Dovendo adunque scrivere dobbiamo aver in

mente chi scrive, a chi si scrive, ciò che noi semo rispetto a colui al qual si scrive, e ciò che sia colui in sé medesimo cui noi scriviamo» (SANSOVINO, Del Secretario, p. 8v).

67 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15, c. 19r, parte del 20.04.1606. È ravvisabile nella lettera del 20

aprile una idilliaca e schematica declinazione di quello che Luca Mannori ha definito modello tutorio. Nel corso dell‟età moderna, la progressiva equiparazione delle comunità e dei corpi sudditi alla stregua di soggetti incapaci di provvedere al proprio benessere, avrebbe offerto la giustificazione per una sostanziale riduzione delle loro tradizionali autonomie in favore del Principe, il quale, rappresentandosi come loro benigno tutore, avrebbe conseguentemente assunto il monopolio su ogni attività decisionale. Si veda MANNORI, Il sovrano tutore cit.

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benefici del suo buon governo con grata e amorevole devozione. Emblematico l‟incipit della missiva:

Si come la Republica nostra ha con sommo, et veramente paterno amore protetto li suoi sudditi, procurando il loro bene, come di carissimi, et dilettissimi figliuoli, così si è gloriata sempre di haverli conosciuti in tutte le occorrenze per fedelissimi, et svisceratissimi, non havendo in alcuna occasione perdonato ad alcuna spesa, ne alla vite d‟i proprii cittadini per conservarli in stato quieto, et tranquillo […].68

Posti i termini del rapporto tra Principe e suddito, il tentativo del pontefice di far cassare provvedimenti volti a «conservare li beni, le vite et l‟honore di essi sudditi» veniva a configurarsi come un indebito tentativo di turbare l‟idilliaco scambio di fedeltà e buon governo che il Senato poneva alla base del funzionamento del naturale ordine sociale.69 Per il Principe, sottomettersi al volere del papa avrebbe significato abdicare a quell‟autorità direttamente conferitagli dalla maestà divina e soprattutto disattendere ai connessi obblighi di buon governo. Le assurde richieste di Paolo V ledevano la sovranità della Repubblica, ma così facendo danneggiavano anche il suddito, impedendo al Principe di legiferare a sua tutela: per questo, per l‟enorme pregiudizio a loro danno, il Principe aveva «giudicato conveniente farli communicare quanto passa come è solito fare il padre con diletti figliuoli».70 Consigliato dal sapere retorico classico quale efficace strumento per ottenere il consenso dell‟uditorio, il discredito dell‟avversario costituiva l‟altra faccia della captatio benevolentiae: così come il monitorio intendeva screditare il governo veneto agli occhi dei governati, la lettera si impegnava a delegittimare presso i sudditi della Serenissima l‟intransigente politica antiveneziana di Paolo V. L‟esordio conteneva la prima embrionale formulazione di quella che sarebbe stata la tesi portante l‟intero impianto argomentativo della lettera del 20 aprile e, come vedremo, di tanta polemistica filo-veneziana del periodo dell‟Interdetto:71 la strategia persuasiva del Senato si fondava sull‟esibizione di una convergenza tra gli interessi del Principe e quelli del suddito, di un‟identità tra la

68 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15 c. 19r, parte del 20.04.1606. 69 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15, c. 19r, parte del 20.04.1606. 70 Cfr. DE VIVO, Patrizi, informatori, barbieri cit., p. 306.

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difesa della sovranità veneziana dalle ingerenze romane e la tutela del benessere, dei privilegi e degli interessi delle popolazioni del Dominio.

Abbozzata nell‟esordio, la tesi assumeva i toni di una programmatica dichiarazione d‟intenti nel blocco costituito dalla narratio e dalla partitio.

Hora mò, havendo Noi rinovato due leggi che sono in conformità di quelle che sono state reiterate da nostri maggiori, l‟una che prohibisce il passar de beni immobeli laici in persone ecclesiastiche senza nostra licentia, l‟altra che non siano di novo fabricati monasterii et altri luoghi pii senza il nostro consenso, et fatto ritenere per ordine del Conseglio nostro di Dieci un canonico vicentino et l‟abbate Brandolino imputati di casi gravissimi et attrocissimi, è venuto in pensiero al moderno pontefice, contra quello che non pensò mai alcuno de suoi santissimi predecessori, di voler che siano cancellate le dette leggi da nostri annali, et che li detti canonico et abbate siano rimessi al foro ecclesiastico; le quali cose, come non è possibile che da noi siano fatte senza abbandonar la diffesa de‟i beni, delle vite et dell‟honor de nostri sudditi et figliuoli, et senza destruggere quell‟auttorità et potestà che ci è data da Dio benedetto, così nessuna ragion vuole che vi debbiamo assentire, perché ogn‟uno chiaramente vede che chi rivocasse dette leggi et cedesse di giudicare gli ecclesiastici in casi attroci, conforme alle immemorabile consuetudine approbata et attestata da brevi de sommi pontefici, perdessimo affatto quella libertà, c‟habbiamo conseguita da nostri maggiori.72

Districando i fili della sua trama persuasiva (partitio) il Senato dichiarava di voler dimostrare l‟irricevibilità delle richieste romane (propositio), muovendosi su due piani argomentativi distinti ma convergenti: la lettera affermava l‟indiscutibilità della sovranità veneziana sulla Terraferma sulla base di dotte formulazioni teologico- politiche – derivazione divina della potestà del Principe –, ma affidava la sua legittimazione alla forza persuasiva di argomenti di ragione e all‟esibizione della pubblica utilità delle leggi contestate. In questo risiedeva gran parte dell‟eccezionalità del documento redatto dal Senato: con esso il Principe non si limitava a comunicare i propri decreti e ad intimarne l‟obbedienza, ma ne spiegava la ratio sottostante, motivava la scelta di adottarli e illustrava gli obiettivi che si prefiggeva di raggiungere

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con la loro promulgazione. Emblematica in tal senso la difesa della contestata parte che sottoponeva gli acquisti fondiari del clero a licenza senatoria con la quale si apriva l‟argumentatio:73

se si lasciasse passar li beni laici in persone ecclesiastiche certa cosa è che in poco corso di tempo passariano in esse tutti li beni laici (…), et che nelle occorrenze delli bisogni della Republica le gravezze et le fattioni sopportate da nostri sudditi sopra minor quantità de beni et di persone conveniriano riuscire loro insopportabili; oltre che il Principe veniria a scemar grandemente delle rendite, vero mantenimento delli Stati. 74

Il Principe affermava di aver legiferato a partire dalla considerazione che la sostanziale inalienabilità dei beni ecclesiastici75 avrebbe comportato una progressiva e inesorabile erosione della proprietà laica a favore degli enti religiosi. All‟evidente pregiudizio subìto dai sudditi corrispondeva un danno al pubblico erario e agli interessi del Principe, in virtù delle consistenti esenzioni fiscali godute dal clero.76 Tuttavia, la lettera mostrava come le più gravose conseguenze della ridotta capacità impositiva della Repubblica sarebbero ricadute ancora una volta sul suddito: per garantirsi le medesime entrate, la Dominante si sarebbe trovata costretta ad applicare una maggiore pressione fiscale sulle poche terre ancora rimaste ai laici.77 Un secondo

73 Parte del Senato del 26.03.1605 edita in CORNET, Paolo V e la Republica Veneta cit., p. 265. 74 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15, c. 19v, parte del 20.04.1606.

75 «Mani-morte: si chiamano con questo nome i corpi ecclesiastici, ed i luoghi pii, e perché i beni da

essi acquistati non cangiano più di mano, non potendo essi per le ordinazioni ecclesiastiche alienare, e perché non mai verisimilmente periscono, come periscono gl‟individui, e quindi in essi perpetuamente rimangono i beni posseduti, e vengono tolti al sociale commercio». Oltre che per la definizione, la voce tratta da FERRO, Dizionario cit., Vol. II, pp. 233-241; p. 233 risulta particolarmente utile per una

panoramica della legislazione veneziana in merito. Sul tema della proprietà ecclesiastica nella Repubblica di Venezia si veda A.STELLA, La proprietà ecclesiastica nelle Repubblica di Venezia dal secolo XV

al XVII. Lineamenti di una ricerca economico-politica, in Nuova Rivista Storica, 42, 1958, pp. 50-77; A.

PIZZATI, Commende e politica ecclesiastica nella Repubblica di Venezia tra „500 e „600, Venezia, Istituto Veneto

di Scienze, Lettere ed Arti, 1997; G. MAIFREDA, La proprietà ecclesiastica nella Repubblica di Venezia,

in Confische e sviluppo capitalistico. I grandi patrimoni del clero regolare in età moderna in Europa e nel continente

americano, a cura di F. LANDI, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 55-72.

76 Sul regime fiscale del clero nella Repubblica di Venezia cfr. G. DEL TORRE,La politica ecclesiastica della

Repubblica di Venezia nell'età moderna: la fiscalità, in Fisco, religione, Stato nell'età confessionale, a cura di H.

Kellembenz e P. Prodi, Bologna, Il Mulino,1989, pp. 387-426.

77 Per comprendere a pieno la forza persuasiva dell‟argomentazione è necessario richiamare seppur per

sommi capi il funzionamento del sistema veneziano di tassazione diretta, basato sulla compilazione degli estimi. Si veda la sintetica ma puntuale descrizione che ne volle dare Angelo Ventura: «In gran parte le imposte dirette (“gravezze”) [...] erano infatti fissate col sistema della “limitazione”. Il governo veneziano stabiliva una somma totale determinata, la quale veniva poi suddivisa tra le diverse province; ciascuna di queste “porzioni” (o “carati”) veniva quindi ripartita in quote fisse fra tre corpi di

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corollario chiudeva l‟argomentazione dimostrando efficacemente quella convergenza di interessi tra Principe e suddito fino ad ora semplicemente postulata: ridurre le rendite fiscali della Dominante, «vero mantenimento delli Stati», avrebbe significato ridurre la capacità della Repubblica di provvedere ai bisogni del Dominio e al benessere delle sue popolazioni. La lettera richiamava questioni vissute con viva preoccupazione dalle élite suddite, che sul possesso della terra e sull‟amministrazione indiretta della fiscalità trovavano il fondamento economico della loro primazia:78 nel corso del secolo precedente, l‟endemica e virulenta conflittualità tra cittadini, distrettuali ed ecclesiastici intorno alla ripartizione degli oneri fiscali aveva comportato l‟emergere in Terraferma di nuovi interlocutori politici, i Territori, istituzioni rappresentative delle comunità del contado.79

contribuenti – città, clero e territorio – sempre ad opera del governo centrale, che cercava di distribuire i pesi equamente, secondo la ricchezza. Infine ogni “corpo” suddivideva l‟onere tra i propri membri tenendo per base l‟estimo, e quindi procedeva alla riscossione della gravezza». Un simile sistema faceva sì che, ferma restando la contribuzione richiesta dalla Repubblica ad ogni singolo corpo, la diminuzione delle sue proprietà avrebbe determinato una più gravosa ripartizione dell‟onere complessivo sui suoi singoli componenti. In altre parole, i passaggi di proprietà tra corpi diversi avrebbe determinato una sperequazione fiscale a beneficio del corpo acquirente: «se si tiene conto che era in atto [...] una fuga continua di beni dalle mani dei distrettuali a quelle dei cittadini, appare chiaro perché le città non dimostrassero di solito alcuna premura per rinnovare gli estimi generali, ai cui dati si atteneva il governo veneziano nel ripartire fra i tre corpi la porzione “limitata” alla provincia. Infatti, rimanendo immutate le “rate” applicate ai tre corpi, aumentava continuamente l‟onere dei singoli contribuenti del territorio, e si alleggeriva invece quello dei “cittadini”» (entrambe le citazioni sono tratte da VENTURA, Nobiltà e popolo cit., pp. 273-274). A cominciare dallo stesso Ventura, l‟attenzione storiografica per le prerogative cittadine sulla compilazione degli estimi, il sostanziale controllo sul contado in materia di amministrazione della fiscalità, la natura endemica dei conflitti di natura fiscale tra capoluoghi e comunità rurali, hanno favorito una lettura del problema largamente influenzata dalla tradizionale opposizione città-campagna: il ruolo giocato dal clero in questa conflittuale ripartizione fiscale è stato e continua ad essere largamente sottostimato, nonostante l‟erosione della proprietà laica da parte degli enti religiosi abbia costituito uno dei problemi più urgenti per la Repubblica, e in ultima analisi la principale causa scatenante dell‟Interdetto (Cfr. M.KNAPTON, L‟organizzazione fiscale di base

nello stato veneziano: estimi e obblighi fiscali a Lisiera tra „500 e „600, in Lisiera cit., pp. 377-418;ID., Guerra e

finanza (1381-1508), in Storia della Repubblica di Venezia cit., pp. 275-346;ID., Il Territorio vicentino cit., GRUBB, Firstborn of Venice cit., pp. 68-71).

78 DE VIVO, Patrizi, informatori, barbieri cit., p. 46.

79 Vasta la letteratura in materia: F. VENDRAMINI, Le Comunità rurali bellunesi, secoli XV e XVI,

Belluno, Tarantola, 1976; S. ZAMPERETTI, Per una storia delle istituzioni rurali nella terraferma veneta: il

contado vicentino nei secoli XVI-XVII, in Stato, società e giustizia cit, Vol. II, pp. 59-132; Id., I “sinedri dolosi”

cit.; A.STEFANUTTI,Udine e la contadinanza: solidarietà e tensioni sociali nel Friuli del „500 e „600, in Udin: mil agn tal cûr dal Friûl, Vol. I, a cura di G. C. Menis, Udine, Societât Filologjche Furlane, 1983, pp. 111-

117;KNAPTON, Il Territorio vicentino cit.; N.SBORGIA - D.GASPARINI, Paesaggio agrario e regime fondiario di

Lisiera a metà „500 in Lisiera cit., pp. 452-472; I.PEDERZANI, Venezia e lo “Stado de Terraferma”. Il governo

delle comunità nel territorio bergamasco (secc. XV-XVIII), Milano, Vita e Pensiero, 1992; ROSSINI, Le

campagne bresciane cit.; L. FAVARETTO, L‟istituzione informale: il Territorio padovano dal Quattrocento al

Cinquecento, Milano, Unicopli, 1998; G. MAIFREDA, Rappresentanze rurali e proprietà contadina. Il caso

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Anche la ratio della legge del 10 gennaio 160480 era riconducibile a preoccupazioni di natura fiscale: imporre una licenza senatoria sulla costruzione di nuovi edifici sacri significava porre un freno all‟introduzione di nuovi enti ecclesiastici sul mercato della terra e di nuovi contribuenti privilegiati nelle liste degli estimi. La lettera del 20 aprile affrontava la questione solo sottotraccia preferendo affermare come la parte del 10 gennaio 1604 fosse stata adottata in primo luogo per evitare che gli edifici sacri sorgessero senza criterio, in luoghi non consoni o, peggio ancora, pregiudiziali per la pubblica sicurezza delle fortificazioni e per la quiete dei sudditi. Un Principe supremo non poteva ammettere che fossero introdotte nel suo Stato «persone non conosciute» a sua insaputa, fossero anche religiosi, «atte a perturbar il tranquillo viver» nelle città del Dominio.81 La parte del 10 gennaio 1604 rappresentava una risposta alle sfide alla sovranità statale imposte dai profondi mutamenti che interessarono le strutture e le gerarchie ecclesiastiche nel secolo del Concilio di Trento. Massimo Carlo Giannini ha efficacemente sintetizzato i termini di un problema che, seppur con diverse gradazioni, interessò l‟intero complesso degli Stati italiani: