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1. La lettera del 20 aprile 1606

1.12 Dalla Terraferma al «mondo tutto»

La pubblicazione del monitorio determinò l‟apertura di un dialogo del tutto insolito tra Venezia e la Terraferma: la lettera del 20 aprile rappresentava per il governo veneto una misura straordinaria, una forma di comunicazione politica inconsueta, necessaria ma potenzialmente foriera di esiti indesiderati, tra tutti l‟apertura di indebiti margini di discussione dei rapporti tra governanti e governati. Studiando momenti di estrema criticità quali le rivolte urbane, Rosario Villari ha rilevato che «al di là delle funzioni generali di giustizia, di difesa e di salvaguardia del bene comune che spettavano al sovrano, nelle circostanze in cui l‟obbedienza e la lealtà richiedevano un impegno particolare di singoli sudditi era normale l‟aspettativa

385 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, f. 28, c. n.n., alla data 06.05.1606. 386 ASV, Coll., Esp. Roma, reg. 13, c. 70r.

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di riconoscimenti, mercedi e ricompense».387 Il governo veneto cercò di controllare le reazioni della Terraferma alla notizia dell‟Interdetto, riconducendo l‟insolito dialogo aperto con i suoi sudditi su forme della comunicazione e linguaggi politici del tutto consueti.

La lettera del 20 aprile 1606, le orazioni in sua risposta e le congratulazioni al doge riproducevano il medesimo modello retorico ed encomiastico ma, soprattutto, si rifacevano a una comune e condivisa immagine della sovranità e della sudditanza, plasmata da secoli di attrito tra ambiente veneziano e ambiente veneto: l‟artificiosa attribuzione al doge di un‟effettiva autorità decisionale, lo stereotipo del buon Principe, la sua rappresentazione come padre dello Stato, come paterno e sollecito tutore dei suoi sudditi, offrivano una base ideologica e culturale comune, un repertorio di miti e convenzioni sulla quale costruire il dialogo tra governanti e governati.

L‟interdetto e la scomunica comminata al governo veneto, l‟aperta accusa rivolta al Principe di mettere in atto politiche empie e illegittime, la scissione tra il concetto di buon suddito e quello di buon cristiano, misero drammaticamente alla prova la capacità performativa di quelle immagini e di quei miti, la loro effettiva capacità di tradursi in cose,388 di garantire il perpetrarsi del naturale corso dell‟ordine sociale. In una guerra destinata ad essere combattuta in scritture – e più in generale sul piano della comunicazione – parole e gesti, linguaggi verbali e non-verbali godettero sin da subito di un‟attenzione particolare: nella stretta attualità dell‟Interdetto, gli stereotipi e i rituali encomiastici propri della tradizione retorica veneziana finirono inevitabilmente per caricarsi e per essere caricati di significati specifici. In un primo momento, il governo tentò di porre un controllo, se non un limite, a quelle stesse esternazioni di fedeltà che – implicitamente – aveva richiesto, chiedendo alle comunità di abbassare i toni, di limitare il proprio entusiasmo, di attenersi a forme di acclamazione riconosciute e accettabili. In particolar modo si cercò di evitare l‟invio da parte delle comunità suddite di ambascerie a Venezia, di aprire un dialogo diretto tra i consigli civici e il Principe. A seguito della pubblicazione del protesto, la strategia mutò sensibilmente nel segno non più del divieto, ma della gestione di quelle esternazioni ai fini della complicata trama diplomatica veneto-pontificia. A partire dal

387 R.VILLARI, Per il re o per la patria. La fedeltà nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 8. 388 AUSTIN, How to do Things with Words cit.

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maggio 1606, le parole dei sudditi, la loro enfatica proclamazione di assoluta fedeltà a Venezia, il loro esplicito riconoscimento della bontà del Principe e delle sue politiche, vennero gettate dal governo veneto sul piatto delle trattative con Roma.

L‟immagine della monolitica fedeltà della Terraferma venne recapitata al pontefice conferendo direttamente con le rappresentanze diplomatiche presenti a Venezia, additando loro le ambascerie suddite ai piedi del doge, ma anche e soprattutto indirettamente, permettendo che quella conclamata fedeltà fosse proclamata a beneficio di un più vasto pubblico. Pur ancora riluttante rispetto alla pubblicazione di libelli anticuriali,389 il governo veneto non pose alcun ostacolo alla stampa e alla distribuzione delle orazioni pronunciate dalle comunità suddite in onore di Leonardo Donà. Recentemente si è affermato come nell‟economia di quella che di lì a poco sarebbe divenuta una guerra delle scritture questi componimenti, limitandosi a tessere le lodi di Venezia e del suo Principe e a proclamare la devozione dei suoi sudditi, assolsero a una funzione meramente performativa, di pura rappresentazione – e di conseguenza creazione – del consenso.390 In realtà, come si è già avuto modo di far notare in merito all‟orazione tributata da Cavarzere, pur evitando di nominare Paolo V, il monitorio o l‟interdetto, gli ambasciatori inviati a congratularsi con Leonardo Donà non tralasciarono di inserire nei loro componimenti più o meno espliciti riferimenti alla stretta attualità della crisi veneto-pontificia. Prima conseguenza di questa consapevole scelta retorica fu una contestualizzazione delle stereotipate promesse di spendere tutto in difesa della Repubblica, le quali assunsero significati quanto mai contingenti, concreti e drammatici: come abbiamo visto, la comunità di Cavarzere disse di essere pronta ad armarsi non in generale ma nello specifico frangente di «queste turbolentie». Allo stesso modo Feltre professò come di consueto di essere pronta all‟estremo sacrificio in servizio della Repubblica, ma arricchì la formula affermando anche di non voler considerare alcuna sanzione proveniente da qualsivoglia potenza straniera. Difficile, oggi come allora, non ravvisare in quelle parole un diretto rimando alla scomunica e all‟interdetto pronti ad abbattersi su Venezia, nonché un‟aperta dichiarazione di assenso a quanto richiesto nel protesto:

389DE VIVO, Patrizi, informatori, barbieri, cit., pp. 90-95.

390 Ivi, p. 305. Né si può concordare con Filippo de Vivo nel ravvisare nelle orazioni «testi pensati per

la comunicazione cerimoniale interna alle istituzioni», vista l‟invalsa pratica di mandare a stampa questi componimenti.

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[Promettiamo] alla Sublimità Vostra, sotto solenne giuramento di fedeltà, che noi feltrini tutti siamo risolutissimi, non temendo né minaccie né pene de Prencipi nemici, di vivere e di morir sudditi vostri, e di obbedirvi e servirvi sempre vivendo e di morir prontamente e volentieri quando l‟occasione lo ricercherà per servitio di questa Republica Serenissima per la grandezza e felicità della quale porgeremo sempre preghiere a Dio, supplicando la Divina Maestà sua ch‟a vostra Serenità, capo di questa e signor nostro conceda prencipato longhissimo e felicissimo.391

Nell‟orazione dell‟ambasciatore bresciano Lodovico Federici compariva invece la promessa di voler difendere il Senato contro chiunque avesse osato impedire l‟applicazione dei suoi decreti, ispirati direttamente da Dio:

promettiamo et protestiamo voler perpetuar et eternarsi nella servitù et volontà di Vostra Serenità, prontissimi a sacrificarsi tutti con li figliuoli stessi contra qual si voglia che ardisca tentare di voler violar l‟immaculata virginità della libertà vostra et volere interrompere quei decreti che dal Sommo Spirito Santo sono promulgati nel Santissimo Senato Vostro.392

Pratica consolidata, mandare a stampa le orazioni di congratulazione al Principe non costituiva certo una novità; tuttavia le lodi tributate a Leonardo Donà si segnalano per una fortuna editoriale del tutto insolita per quel genere di componimenti:393 stampatori intraprendenti, come Roberto Meietti, compresero l‟enorme potenziale commerciale di quelle orazioni che proclamavano la forza del legame di fedeltà a Venezia proprio nel momento in cui il pontefice ne annunciava lo scioglimento.394 Pur senza un intervento ufficiale da parte del governo veneto, nel corso del 1606 venne mandato alle stampe l‟intero corpus di orazioni tributate a Donà,

391 GESLINO, Oratione, cit.

392 L.FEDERICI, Oratione al Serenissimo Prencipe D.D. Leonardo Donto, Del molto Illustre, et Eccell. Signor

Lodovico Federici Ambasciator della Nobilissima Città di Brescia XXIX Maggio MDCVI, in Venetia, appresso

Roberto Meglieti,1606.

393DE VIVO, Patrizi, informatori, barbieri, cit., p. 305.

394 Il contributo apportato dagli stampatori alla guerra delle scritture è stato diffusamente indagato da

de Vivo, (ivi, in particolare pp. 110-120). Sulla figura di Roberto Meietti, che nel corso dell‟Interdetto sarebbe divenuto l‟editore di riferimento dei polemisti filo-veneziani e dello stesso governo veneto, si vedano ivi, pp. 112-114; D.E.RHODES, Roberto Meietti e alcuni documenti della controversia fra Paolo V e

Venezia, in “Studi Secenteschi”, I (1960), pp. 165-174; L.CARPANÈ, Meietti, Roberto, in DBI, Vol. 73,

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comprese quelle delle comunità minori395 e – cosa del tutto insolita – anche di comunità dello Stato da Mar.396 Stampate in grandi tirature, di alcune orazioni si ebbero addirittura più edizioni: il 26 maggio 1606, fresca di stampa, l‟orazione di Ettore Ferramosca venne recapitata ai deputati vicentini in dodici copie per mezzo del nunzio Strozzi Cicogna.397 Pur senza un coinvolgimento ufficiale, favorendo la stampa e la distribuzione delle orazioni, il governo veneto permise che le parole degli ambasciatori sudditi, l‟immagine di assoluta e ferma lealtà a Venezia che si impegnarono a creare, così come la loro noncuranza rispetto al monitorio, venissero a godere di un‟eccezionale risonanza. Il 13 maggio 1606 Quinto Scanzo, nunzio della città di Brescia, inviò ai vertici della sua comunità una copia dell‟orazione tributata dai veronesi, sostenendo come l‟ordine di mandarla a stampa fosse venuto dalla magistratura del Pien Collegio «perché si ved[esse] in questi moti la prontezza di quella città».398

395 Oltre alle già citate orazioni di Chioggia(MARANGONI, Oratione cit.), Cavarzere (DALLA PORTA,

Oratione cit.) e Feltre(GESLINO, Oratione cit), si vedano anche quella recitata da Pietro Miaro per Belluno (P. MIARO, Oratione di Pietro Miaro giuriscons. ambasciator della città di Cividal di Bellun. Nella

creatione del sereniss. Leonardo Donato prencipe di Venetia, in Venezia, appresso Roberto Meietti, 1606) o da

Ercole Zurla per Crema (E.ZURLA, Oratione di Hercole Zurla ambasciatore, et proveditore della città di Crema

al serenissimo prencipe Leonardo Donato, nella sua creatione, in Venetia, appresso Gio. Antonio Rampazetto,

1606). Con l‟allusivo titolo di orazione «recitata a Leonardo Donà», venne mandata alle stampe anche quella dall‟ambasciatore cadorino Rocco Costantini, presentatosi tuttavia a Venezia non per congratularsi con il doge, ma per ringraziarlo dell‟avvenuta riforma del Consiglio della comunità del Cadore. Recitata il 25 ottobre 1606, nel vivo della guerra delle scritture, l‟orazione si chiudeva tuttavia con un accorato giuramento di fedeltà a Venezia nei «presenti terribili et crudeli moti», che per i suoi contenuti merita di essere citato integralmente: «Insieme mi è stato imposto dall‟istessa mia patria che d‟un tanto bene consequito dall‟alta clemenza vostra, ottimo Prencipe, gli rendi quelle gratie maggiori non che gli siamo debitori [...] et che gli offerischi in ogni prontezza d‟affetto ad occasione de i presenti terribili et crudeli moti, da quali speriamo per divina misericordia habbia ad esser mirabilmente liberata, essendo la più santa, giusta, pia, cattolica et meglio instituita Republica che s‟habbia visto mai o inteso sotto il Sole, di cui particolar cura n‟havé l‟alta divina Provvidenza, facendola durare senza mutatione sempre libera, sempre religiosa et sempre invitta sopra ogn‟altro principato di cui viva memoria in terra, sotto la protettione del glorioso San Marco Evangelista Secretario del Nostro Salvatore et hora retta et governata da prudentissimo et valorosissimo Prencipe; più direi et desiderarei poter dire se fosse di mio proposito et il tempo me lo concedesse; che gli offerischi, dico, ciò che fu prima suo che nostro, che fu suo dinanzi fossimo nati, l‟havere, il potere, le persone et i figliuoli, accertando l‟Altezza Vostra, invittissimo Prencipe, che tante volte quante si rappresenterà l‟occasione non serà alcuni di quella sua fidelissima communità che non abbandoni l‟amata patria et la diletta moglie et che mille volte all‟hora, se tante sia possibile, non spandi il proprio sangue come fecero più d‟una volta i nostri antenati per diffesa et conservatione della Serenissima Republica di Venegia et del suo felicissimo et potentissimo imperio» (R.COSTANTINI, Oratione di Rocco

Constantini ambasciator per la communità di Cadore. Fatta, et recitata da lui al Sereniss. Prencipe Lonardo Donato in proposito della riforma di quel Consiglio l'anno 1606 25 Ottobre, in Venetia, appresso Tomaso Baglioni, 1606).

396 A. BERTOLACCI, Oratione di Antonio Bertolacci ambasciatore della citta di Zara al Serenissimo Prencipe

Leonardo Donato nella sua creatione, in Venezia, appresso Gio. Antonio Rampazetto, 1606.

397 BCBVI, AT, b. 1348, c. n.n., alla data 26.05.1606 lettera di Strozzi Cicogna, nunzio di Vicenza. 398 ASCB, Lettere autografe, b. 1150A, c. n.n., alla data 13.05.1606, lettera del nunzio Quinto Scanzo ai

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Il fatto che si trattasse di encomi “spontaneamente” formulati dai sudditi della Serenissima faceva delle congratulazioni ducali un‟arma diplomatica di enorme efficacia: le orazioni sancivano la totale inefficienza della strategia di Paolo V, mostravano come prima ancora del protesto, fossero gli stessi atteggiamenti dei sudditi a sancire di fatto la nullità del monitorio. L‟anonimo autore di una «Relazione dell‟Interdetto di Paulo V», ci permette di apprezzare il rilievo assunto da questi componimenti nella polemica veneto-pontificia:399 il suo diario – costruito sulla base dei lavori del Collegio – riferisce come intorno alla metà di giugno, su espresso ordine romano, l‟inquisitore di Verona si fosse interessato ad Agostino Del Bene, l‟oratore incaricato di congratularsi con il doge «per quello che disse che la sua patria et il popolo di Verona non conosceria ne approveria mai altro per giusto o ingiusto che quello che fosse così stimato dal Senato venetiano».400 Del Bene, futuro consultore in iure, avrebbe evitato il processo solo grazie al sopravvenuto arresto dell‟inquisitore, accusato dai rettori di Verona di non voler celebrare in ottemperanza all‟interdetto.401 Il contenuto dell‟orazione veronese, mandata a stampa in ben tre edizioni,402 può spiegare l‟interessamento dell‟Inquisizione per il suo autore: il componimento si spingeva infatti ben oltre la semplice dichiarazione di obbedienza alla Repubblica nelle presenti calamità, affrontando a viso aperto le questioni più spinose sollevate dall‟interdetto. In primo luogo Del Bene sfruttava il tòpos della legittimità dell‟autorità veneziana e della sua derivazione divina per farne un argomento a riprova dell‟infallibilità del Principe:

Verona ha sentito sempre allegrezza per la creatione de‟ Principi precessori portando essa ferma opinione che, si come le seconde cause dipendendo immediatamente da Dio, non possono mai errare: così li Principi, che ascendono per li honorati gradi della virtù alla sublimità di tanta altezza come ab

399 ASV, CI, f. 537, «Relazione dell‟Interdetto di Paulo V». 400 Ivi, c. 43v.

401 Ibidem. L‟arresto sarebbe tuttavia avvenuto per motivi indipendenti dal processo contro Del Bene

(ASV, Sen., Disp. dei rettori, Verona, f. 3, c. n.n., 18.06.1606).

402 A.DEL BENE, Oratione di Agostino Del Bene Giuriconsulto, Ambasciatore della Città di Verona al Serenissimo

Leonardo Donato per la sua essaltatione al Principato di Venetia, in Venetia, stampata per il Rampazzetto,

1606; ID., Oratione di Agostino Del Bene Giuriconsulto, Ambasciatore della Città di Verona al Serenissimo

Leonardo Donato per la sua essaltatione al Principato di Venetia, in Venetia, appresso Roberto Meglieti, 1606;

ID., Oratione di Agostino Del Bene Giuriconsulto, Ambasciatore della Città di Verona al Serenissimo Leonardo

Donato per la sua essaltatione al Principato di Venetia, in Venetia, appresso Roberto Meglieti, 1606 (Terza

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eterno predestinati nella mente divina a così gran ministero, siano per reggere

perfettamente lo Stato alla loro vigilanza raccommandato.403

Inoltre, ritornava nelle parole di Del Bene anche l‟accorta e adeguata metafora nautica già utilizzata dal provveditore cittadino Giulio Cesare Nogarola nei suoi ringraziamenti alla lettera del 20 aprile per alludere sia al buon governo della Repubblica, sia ai fulmini pontifici scagliati contro di essa:404

Non più, non più s‟ha da temere che la nave di questa Republica perisca governata da espertissimo nocchiero, che da ogni fiera et procellosa tempesta la conserverà, che smarrisca questo gregge alla cura commesso di vigilantissimo pastore, che dall‟ingorde brame de‟ famelici lupi lo custodirà, che si perda questo popolo alla sollecitudine, raccomandato di valorosissimo capitano che dalli esterni et interni nemici lo difenderà.405

Chiudeva Del Bene con il passo incriminato: senza mezzi termini, l‟ambasciatore proclamava la disponibilità della sua città a difendere non tanto la Repubblica, ma – come implicitamente richiesto nella lettera del 20 aprile – la sua «antica libertà» nonché «l‟auttorità regia, suprema, independente del suo Eccelso Senato». Dell‟intero

corpus di orazioni tributate a Leonardo Donà, quella veronese rappresentava senza

ombra di dubbio quella che seppe mettere in campo l‟immagine di fedeltà più rispondente all‟urgenza del momento. Del Bene scelse di muoversi su un piano argomentativo contestuale alla critiche anti-veneziane mosse da Paolo V nel monitorio, nonché alle fortissime aspettative espresse dal governo veneto dapprima con la lettera del 20 aprile e infine con il protesto:

Promettendovi solennemente (minacci chi si sia, ciò che si voglia, quanto si voglia) d‟esser sempre con voi e in pace e in guerra, et nella prospera et nell‟aversa fortuna: et per voi et per difesa et ampliatione di questo augusto

403 Una derivazione divina che, come postulava la lettera del 20 aprile, obbligava il Principe a

provvedere al benessere dei suoi sudditi e al mantenimento dello Stato: «I Prencipi non son felici per espugnar fortezze, per soggiogar paesi, per arricchir di preda o per trionfar de‟nemici, ma per dominar giustamente et per haver cura del gregge che dalla suprema mano d‟Iddio, dalla quale dipende ogni lor Signoria, è stato loro dato in custodia».(DEL BENE, Oratione cit.).

404 Vedi supra paragrafo 1.5. 405 DEL BENE, Oratione cit.

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imperio et per mantenimento dell‟antica libertà di questa gloriosa et invitta Republica et dell‟auttorità regia, suprema, independente del suo Eccelso Senato, di quel gran consistoro de Semidei, la prudenza del quale, madre et reina d‟ogni virtù, supera l‟humanità, spender li patrimonii, spargere il sangue et far tutto ciò che a fedelissimi sudditi et ubidientissimi figliuoli verso il suo Principe et caro padre debitamente conviene. Assicurando vostra Serenità, co‟l testimonio gravissimo di questi signori nostri concittadini che in tanto numero con tant‟applauso sono con noi comparsi a vostri piedi per honorar la presente legatione, che questi non sono concetti inventati da me per far pomposo l‟ufficio, ma parole dateci in commissione et mandato, ferma, stabile et costante volontà di Verona. La quale, si come già ducent‟anni fa si compiacque sottoporsi non al Pontefice, non ad altri potentati d‟Italia, ma al giusto, religioso, benigno et (come attesta San Tomaso) temperato governo di questa Eccelsa Republica, così è risoluta di non riconoscer dopò Dio altra superiorità et maggioranza di quella che per sé stessa volontariamente si elesse. Si come anco è risolutissima di non sentire che vi sia altro giusto giamai, overo ingiusto, che quel solo che sarà o come giusto approbato o come ingiusto reprobato dall‟infallibil prudenza di Vostra Serenità et dal suo Divino et Sacrosanto Senato.406

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