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1. La lettera del 20 aprile 1606

1.2 Destinatari e mittente

Votata dal Senato e sicuramente vagliata dal Pien Collegio, la lettera venne presentata ai sudditi come parola del doge:17 del resto, dalla via supplicationis all‟attività legislativa, dalla corrispondenza tra le magistrature al carteggio diplomatico, l‟intero complesso della comunicazione politica veneziana si caratterizzava per l‟artificiosa rappresentazione del doge come principe sovrano, titolare di un‟effettiva autonomia decisionale e depositario di un‟autorità personale. «Siccome il doge è il capo della repubblica e presiede a tutti i consigli, tutti gli editti, i dispacci ecc. principiano col di lui nome»:18 Marco Ferro nel suo Dizionario del diritto comune e Veneto lesse questa

16 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15 c. 19r-20v, parte del 20.04.1606.

17 A partire dal 1431 il Senato aveva deliberato che nessuna delle sue parti potesse essere votata senza

lettura preventiva del Collegio (ASV, Conservatori alle leggi, b. 137, c. 165 parte del 08.11.1431).

18 FERRO, Dizionario cit., Vol I, p. 628. Analogamente, Francesco Sansovino (F. SANSOVINO, Del

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prassi come una «onorificenza esteriore», necessaria a «mantenere agli occhi del popolo lo splendore di quella dignità» al pari delle vesti, delle insegne e dell‟intero apparato dogale.19 Presentare delibere, sentenze e parti come volontà del Serenissimo Principe rispondeva all‟esigenza di mitigare il paradosso del Principe repubblicano,20 conferendo autorevolezza a un‟istituzione che l‟assetto costituzionale veneziano svuotava di ogni effettiva autorità personale.21 L‟artificio permetteva inoltre di celare la complessità insita nella prassi politica repubblicana, la conflittualità e le incertezze proprie di un processo di decision making fondato sul dibattimento, sull‟esercizio collegiale del potere e sulla rotazione delle cariche di governo.22 Inoltre, la persona del doge conferiva concretezza a un potere statale altrimenti astratto, dava un volto e una voce a un principe collettivo – il patriziato veneziano – altrimenti difficilmente percepibile, rendeva possibile il dispiegarsi dei rapporti tra governanti e governati secondo i canoni rassicuranti di una relazione pretesa come personale e diretta.23 Il 20 aprile 1606 il Senato poté quindi vestire i panni del buon principe sulla base di un patrimonio simbolico condiviso e consolidato: nella lettera, il doge «in persona»

Francesco Rampazetto, 1564) sosteneva che nello scrivere al Principe di Venezia era lecito riferirsi direttamente alla persona del doge («Al Serenissimo Signore, il Sig. Pasquale Cigogna Principe di Venetia») così come alle supreme magistrature della Repubblica («Alla Serenissima et Eccelsa Signoria di Venetia. All‟Illustrissimi et Eccellentissimi Signori Capi dell‟Eccelso Consiglio di Dieci»).

19 «il Doge di Venezia è colmo di esteriori onorificenze, ma in fatto altra autorità non gode, che quella

di un semplice cittadino; che la qualità di capo della repubblica non gli attribuisce un potere superiore agli altri, ma serve soltanto a maggiormente obbligarlo al travaglio per la patria» (FERRO, Dizionario cit., Vol I, p. 628).

20 MUIR, Civic Ritual cit.

21 «D‟une part, le doge est l‟acteur d‟un symbolique dont il est voué, par sa seule présence, à entretenir

la pertinence dans la sphère sociopolitique, mais d‟autre part, l‟équilibre vénitien repose sur sa désimplication du champ de l‟action et de la décision. Et la force du système réside sans doute dans cette dialectique active de deux champ du symbolique et du réel» (E. CROUZET-PAVAN, Venise

triomphante. Les horizons d‟un mythe, Albin Michel, Paris, 1999, pp. 272-273).

22 La promulgazione delle parti del Senato come volontà del doge celava agli occhi della popolazione il

dibattito senatorio, perpetrando il mito della compattezza del corpo sovrano: «in Venetia i dispareri non escono fuor del Senato. Presa che si è (come essi dicono) una parte, col medesimo ardore ne vien procurata l‟effettuatione da chi l‟ha dissuasa, che da chi, ne è stato l‟auttore» (G. BOTERO, Relatione

della Republica venetiana, in Venezia, appresso Giorgio Varisco, 1605, c. 95v). Su questo tema si veda

anche DE VIVO, Public Sphere or Communication Triangle? cit., in particolare pp. 125-126.

23 Parafrasando Simmel si potrebbe sostenere come, attraverso questo artificio, la complessità del

rapporto di subordinazione in un ambito oligarchico e repubblicano venisse semplificata e ridotta a una forma primaria più percepibile sensibilmente e pertanto più efficace. Interessanti le riflessioni del sociologo tedesco proprio sul caso veneziano: «Questa importanza formale del potere di uno solo è così grande che la si conserva espressamente anche dove si nega il suo contenuto, e proprio perché lo si nega. L‟ufficio di doge a Venezia perdette sempre più della sua potenza, finché alla fine non ne possedeva in realtà più alcuna; e tuttavia lo si conservava timorosamente, proprio per evitare evoluzioni che avrebbero forse potuto mettere sul trono un vero dominatore. L‟opposizione non annulla qui il potere di uno solo per consolidarsi alla fine nella sua forma, ma la conserva per evitare il suo effettivo consolidamento» (G.SIMMEL, Sociologia, Milano, Edizioni di Comunità, 1989, pp. 141-

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dichiarava di aver deciso di «communicare» ai suoi «fedelissimi sudditi» i suoi travagli con il pontefice, come avrebbe potuto fare un «padre con diletti figliuoli».24

Nel 1612, la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca avrebbe definito suddito «quegli che è sotto signoria di Principi, di Repubbliche o di Signori, vassallo».25 Non si discosta la definizione tecnica datane nel tardo Settecento da Marco Ferro, per il quale sudditi erano da intendersi «tutti i membri dello Stato per opposizione al sovrano, tanto se l‟autorità sovrana sia stata deferita ad un sol uomo, come in una monarchia, quanto se sia stata deferita a molti insieme uniti, come in una repubblica».26 Un concetto inafferrabile quello di suddito, apprezzabile solo per negazione, per contrapposizione a quello di corpo sovrano: a lungo la sovranità, il discrimine tra chi la esercita e chi invece la subisce, ha rappresentato il criterio interpretativo minimo della società di antico regime. La dicotomia permette tuttavia di apprezzare delle macrocategorie fuorvianti, tanto più nel caso veneziano, dove la conformazione poli-giurisdizionale della compagine statale rende di fatto impossibile una definizione della sudditanza e delle sue implicazioni che prescinda da una corretta contestualizzazione del termine e del suo utilizzo. Già nel 1605, Giovanni Botero mostrò di comprendere la necessità, ai fini di una corretta interpretazione del funzionamento della macchina statale veneta, di proporre una più dettagliata articolazione della sua struttura sociale di base:

Segue hora che noi ragioniamo del governo de‟ sudditi, li quali in due sorti si dividono, perché alcuni sono sudditi naturali, alcuni sudditi d‟acquisto: chiamo naturali quelli che habitano la città di Venetia et il suo distretto, e sono in due ordini divisi, cioé in popolari et in cittadini: popolari si dicono quelli che, per mantenersi, arti vili et basse essercitano et con le loro continue fatiche la lor vita sostentano. Cittadini quelli che nati et vissuti nobilmente hanno qualche splendore et nome conseguito, massime se sono originarii della città.27

24 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15 c. 19r-20v, parte del 20.04.1606. Sulla simbologia del

Principe come padre dello Stato e sui suoi effetti sulla comunicazione politica tra governanti e governati si veda C.NUBOLA, Supplications between Politics and Justice: The Northern and Central Italian States

in the Early Modern Age, in Petitions in Social History, pp. 35-56 (pp. 36-40).

25 Si veda la voce “suddito” in *Vocabolario degli Accademici della Crusca, in Venezia, appresso Giovanni

Alberti, 1612, p. 863.

26FERRO, Dizionario cit., Vol. II, p. 765. 27 BOTERO, Relatione cit., c. 52v.

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Botero comprese come a Venezia a un diverso status di sudditanza corrispondesse non solo una diversità di oneri e privilegi, ma anche un diverso accesso e una diversa funzione nell‟amministrazione dello Stato. I popolari veneziani potevano ad esempio accedere a cariche militari così come alla gestione dell‟arsenale, mentre ai soli cittadini originari (veneziani da almeno tre generazioni) era invece riservata per privilegio la gestione della burocrazia di palazzo. Funzione delicatissima, di enorme prestigio e che soprattutto ne faceva i depositari del funzionamento della macchina statale. Con molta lucidità, Botero seppe individuare nell‟accesso all‟informazione politica la vera peculiarità della cittadinanza veneziana e la principale fonte del suo prestigio: nell‟esercizio delle funzioni di segretario o di cancelliere, al cittadino originario era dato di accedere alle più alte magistrature di Stato, di lavorare a stretto contatto con il patriziato e di partecipare «di tutti gli secreti et affari della Republica». Il patriziato detentore della sovranità, i cittadini originari come ceto di funzionari, la plebe urbana e gli abitanti del Dogado esclusi da ogni partecipazione politica e impegnati solo a garantirsi di che vivere; ci permettiamo di aggiungere gli stranieri per avere il quadro completo di categorie interpretative che – con i dovuti ripensamenti e revisioni – a lungo hanno influenzato l‟analisi della società veneziana di Antico Regime.28

Acuto lo sguardo in Botero anche per quanto riguardava le terre sottoposte a Venezia, nonostante l‟analisi del gesuita muovesse da una semplicistica riduzione della complessità sociale propria dei domini veneziani alle categorie dicotomiche di «gentiluomini cittadini» e «villani» abitanti del contado.29 A questi ultimi, a quelli che il

28 Si veda a titolo esemplificativo J.GEORGELIN, Ordres et classes à Venise aux XVIIe et XVIIIe siécle, in

Ordres et classes, Colloque d‟histoire sociale, Saint-Cloude 24-25 mai 1967, Paris-La Haye, Mouton, 1973, pp.

193-197; G.TREBBI, La società veneziana, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, Vol.

VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di G. Cozzi e P. Prodi, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1994, pp. 129-213; COZZI, Politica, società, istituzioni in Storia della Repubblica di Venezia cit., pp. 99-154;

A. BELLAVITIS, “Per cittadini metterete…”. La stratificazione della società veneziana cinquecentesca tra norma

giuridica e riconoscimento sociale, in “Quaderni storici”, 89 (1995), pp. 359-383. Sulle presenze straniere a

Venezia si veda L.MOLÀ –R.C.MUELLER, Essere straniero a Venezia nel tardo Medioevo: accoglienza e rifiuto

nei privilegi di cittadinanza e nelle sentenze criminali, in Le migrazioni in Europa (secc. XIII - XVIII), a cura di S.

Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 1994, pp. 839-851; R.C.MUELLER, “Veneti facti privilegio”: stranieri

naturalizzati a Venezia tra XIV e XVI secolo, in La città italiana e i luoghi degli stranieri, XIV-XVIII secolo, a

cura di D. Calabi e P. Lanaro, Bari, Laterza, 1998, pp. 41-51; L.MOLÀ, La comunità dei lucchesi a Venezia.

Immigratione e industria della seta nel tardo medioevo, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti,

1994 e A. ZANNINI, Venezia, città aperta. Gli stranieri e la Serenissima XIV-XVIII sec., Venezia, Marcianum Press, 2009. Sui cittadini veneziani e il loro impiego nella burocrazia ducale si vedano invece ZANNINI, Un ceto di funzionari amministrativi cit.; ID., Burocrazia e burocrati cit. e ancora

GALTAROSSA, La preparazione burocratica cit.; ID., Mandarini veneziani cit.; M.CASINI La cittadinanza originaria a Venezia tra i secoli XV e XVI. Una linea interpretativa, in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi cit.,

pp. 133-150.

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lessico amministrativo veneto avrebbe definito distrettuali, Botero riservava un ruolo eminentemente passivo: il loro principale contributo alla Repubblica sarebbe stato ravvisabile nella cieca fedeltà a Venezia mostrata ai tempi della lega di Cambrai. Nel discorso di Botero erano le città suddite e non le loro campagne a rappresentare il reale interlocutore politico della Repubblica: sin dalla conquista veneziana, del resto, i centri maggiori avevano saputo riservarsi importanti prerogative e privilegi, su tutti il riconoscimento degli statuti locali, il cui mantenimento obbligava Venezia a governare i propri domini nel rispetto delle «leggi municipali di cadauna città».30 Il mantenimento degli statuti permise agli antichi consigli municipali, monopolizzati delle élite cittadine, di sopravvivere alla conquista veneziana seppur spogliati di ogni sovranità e di riservarsi importanti prerogative soprattutto in ambito amministrativo. Tuttavia, secondo Botero le principali conseguenze di simili concessioni erano da ricercarsi sul piano dell‟amministrazione della giustizia: al rettore, al patrizio veneziano inviato ad amministrare il centro suddito con il titolo di podestà o capitano, non era infatti concesso di operare in via giudiziaria senza l‟assistenza di una Corte composta da «vicario, giudice del maleficio et giudice alle ragioni», incarichi riservati a «dottori delle città sudditi» e dai quali i veneziani erano esplicitamente esclusi.31 Le élite locali rimanevano un corpo suddito, al quale tuttavia il sovrano delegava ampie responsabilità nella gestione dello Stato, chiamandolo «come in parte del governo»: ai consigli delle città suddite spettava l‟elezione di magistrature e uffici di assoluta rilevanza nell‟amministrazione urbana ma ancor più nella gestione del contado, sul quale la città suddita, in virtù dell‟accordato rispetto per le prerogative locali, continuava ad esercitare la sua tradizionale primazia. «Gentilhuomini cittadini», rappresentanti del potere urbano, erano dunque i soggetti inviati a reggere – solitamente con il titolo di vicario – «castelli, terre e valli», i centri amministrativi minori dislocati nel contado.32

La conquista veneziana, il sostanziale mantenimento del sistema giuridico e amministrativo locale, la mancata cooptazione delle élite locali ai vertici dello Stato a fronte dell‟ampia delega di importanti funzioni amministrative: seppur per brevi cenni la Relatione affrontava tematiche che a partire dagli anni ‟60 del secolo scorso avrebbero animato il dibattito storiografico sulla Repubblica di Venezia. L‟attenzione

30 Ivi, c. 43v. 31 Ibidem. 32 Ibidem.

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di Angelo Ventura per le istituzioni locali e le relazioni esistenti con quelle della Dominante,33 le suggestioni di Gaetano Cozzi sul tema dei rapporti tra il diritto veneto e la perdurante tradizione romano-giustinianea veicolata dagli statuti locali, hanno avuto il merito di imporre al mondo accademico una problematizzazione della dimensione territoriale dello Stato marciano.34 Quel Dominio che a lungo era apparso agli studiosi come una nebulosa informe alle spalle della laguna o al di là dell‟Adriatico,35 terre di conquista e di penetrazione economica per il patriziato veneziano, assunsero finalmente la fisionomia istituzionale di un interlocutore politico considerevole, con il quale la Dominante non poteva esimersi dal dialogare. Il confronto con altre tradizioni di studio36 ha infine permesso il definitivo affermarsi di una storiografia veneta attenta a una dimensione territoriale della Repubblica di Venezia sino ad allora sottostimata, alle forme del dialogo tra la capitale e il Dominio, all‟attrito tra ambiente veneziano e ambiente veneto, alla dialettica conflittuale caratterizzante i rapporti tra governanti e governati, alla continua e progressiva ridiscussione di prerogative, privilegi, autonomie e equilibri di potere, caratterizzante la vicenda dello Stato veneto.37 Come si è anticipato nell‟introduzione a questo lavoro, grazie a questa prolifica stagione di studi la dimensione della sudditanza è finalmente apparsa in tutta sua viscosa complessità: il concetto veniva finalmente a designare singoli individui, gruppi, corpi, città, comunità, ville, castelli e “quasi città”. Suddito era da intendersi tanto l‟abitante dello Stato da Terra come quello dello Stato da Mar, il nobile cittadino quanto il feudatario, la plebe urbana esclusa dai consigli

33 VENTURA, Nobiltà e popolo cit.

34 Per un‟analisi del dibattito tra i due studiosi e gli effetti sulla storiografia successiva si veda GRUBB,

When Myths lose Power cit., in particolare pp. 76-82.Per una rassegna della produzione storiografica successiva si veda inoltre KNAPTON, «Nobiltà e popolo» e un trentennio di storiografia veneta cit.

35 Si vedano le riflessioni sulla storiografia ottocentesca di C.POVOLO, Un sistema giuridico repubblicano:

Venezia e il suo stato territoriale (secoli XV-XVIII), in Il diritto patrio tra diritto comune e codificazione (secoli XVI-XIX), a cura di I. Birocchi, A. Mattone, Roma, Viella, 2006, pp. 297-353. Più in generale si

vedano ID., The Creation of Venetian Historiography in Venice Reconsidered. The History and Civilization of an

Italian City-State, a cura di J. Martin and D. Romano, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2000,

pp. 491-519; M.INFELISE, Intorno alla leggenda nera di Venezia nella prima metà dell‟Ottocento, in Venezia e

l‟Austria, a cura di G. Benzoni e G. Cozzi, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 309-321 e ancora ID.,

Représentations de l‟histoire de Venise dans les manuels scolaires de l‟Italie du XIX siècle, in Le mithe de Venise au XIX siècle. Débats historiographiques et représentations littéraires, a cura di C. Del Vento e X. Tabet, Caen,

Université de Caen Basse-Normandie, 2006, pp. 183-197.

36 Si veda, ad esempio, CHITTOLINI, La formazione dello Stato regionale cit. e i saggi dello stesso autore

raccolti in ID., Città, comunità e feudi cit.

37Oltre alla bibliografia già citata nell‟introduzione al presente lavoro si veda A.TAGLIAFERRI (a cura

di), Atti del convegno Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei Rettori: Trieste, 23-24 ottobre 1980, Milano, Giuffrè, 1981; G. CRACCO -M.KNAPTON (a cura di), Dentro lo “stado italico”. Venezia e la

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cittadini quanto quella del contado estromessa dalle vicinie e dalle assemblee di comunità, il notabile distrettuale quanto il contadino: l‟esclusione alla sovranità accumunava soggetti che, tuttavia, dal punto di vista culturale, sociale e politico rimanevano estremamente eterogenei e inseriti a diverso titolo nella compagine statale. Gli studi sul clero veneto hanno invece avuto il merito di considerare come sudditi della Serenissima anche i religiosi, tanto secolari quanto regolari, curati, vescovi ma anche i cardinali veneti presenti alla corte romana: determinante per una simile riflessione l‟attenzione storiografica attribuita all‟Interdetto, per una crisi che faceva leva sulla doppia natura dei religiosi, chiamati alla fedeltà verso il proprio Principe naturale e al contempo verso il papa, vertice di una Chiesa sempre più gerarchizzata e romana.38

Idealmente, il termine «fidelissimi sudditi» utilizzato dal Senato nella lettera del 20 aprile 1606 richiamava a quell‟intero complesso sociale che si è cercato ora di descrivere, seppur per sommi capi. Di fatto, l‟elenco dei destinatari della missiva predisposto dal Senato e i dispacci accompagnatori destinati ai soli rettori veneziani permettono una più corretta definizione dei suoi reali beneficiari. Il Senato aveva deliberato di recapitare la lettera ai soli rettori dello Stato da Terra39 con l‟ordine di radunare il consiglio della città o della comunità di sua competenza e di dare lettura sola ed esclusivamente in quella sede alle parole del Principe.40 Le indicazioni del Senato escludevano dalla partecipazione ai pensieri del Principe in primo luogo l‟intero Stato da Mar, a seguire tutte quei centri della Terraferma che non erano sede di rettorato veneziano (città ma anche “quasi-città” del distretto, castelli e fortezze) e infine l‟intera popolazione esclusa dai consigli delle comunità.41 Per quanto la lettera costituisse una significativa apertura della comunicazione politica, il primo timido passo veneziano sul campo di battaglia scelto dal pontefice, e per quanto informare il suddito delle ragioni di Stato costituisse una vera e propria anomalia tanto per il

38 MENNITI IPPOLITO, Politica e carriere ecclesiastiche cit.; ID., «Sudditi d‟un altro stato»? cit.; ID., La

Repubblica di Venezia e il clero veneto cit. Si veda inoltre DEL TORRE, Patrizi e cardinali cit. 39 ASV, Sen., Delib., Roma ordinaria, reg. 15 c. 19r-20v, parte del 20.04.1606.

40 Ivi, c. 20v. Si veda anche quanto scritto a posteriori da Paolo Sarpi: «Fu medesimamente deliberato

dal senato di scrivere a tutti li rettori delle città e de‟ luoghi suggetti, e dar parte delle ingiurie che la republica riceveva dal pontefice, e delle ragioni che aveva per sé validissime, con ordine che le lettere fussero communicate alli consegli e communità delle città». (SARPI,Istoria particolare cit. p. 42).

41 Per un quadro generale della struttura amministrativa del Domino veneto rimando a A.

TAGLIAFERRI, Ordinamento amministrativo dello Stato di Terraferma, in Atti del convegno Venezia e la Terraferma

attraverso le relazioni dei Rettori: Trieste, 23-24 ottobre 1980, a cura di A. Tagliaferri, Milano, Giuffrè, 1981,

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pensiero quanto per la prassi politica di antico regime,42 si era tuttavia ancora ben lontani da quell‟esplosione della comunicazione che avrebbe caratterizzato la fase matura della crisi. Per il momento il Principe aveva scelto di parlare non all‟intera popolazione ma alle sole élite di Terraferma, cittadine o rurali che fossero.