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Bandiera della pace sulla recinzione della base Usaf di Aviano 1

Dopo Sigfrido Cescut, il secondo narratore avianese che ho incontrato è stato Valentino De Piante.

Valentino, classe 1953, è al fianco di Sigfrido nelle ‘battaglie pacifiste’ e politiche, almeno fino alla divisione del PCI, quando prende una decisione diversa rispetto al compagno Cescut, entrando a far parte di Rifondazione Comunista. Ha ricoperto cariche politiche decisionali all’interno del comune2, ma nonostante ciò lascia trasparire il rammarico per non essere riuscito ad incidere in maniera significativa sul piano istituzionale e culturale della sua cittadina, legata a filo doppio alla base militare.

Di famiglia e formazione cattolica3, a livello lavorativo ha fatto il bancario per 18 anni dopo di che, sentendosi un numero, ha scelto la strada di un impegno più indirizzato in ambito sociale ed attualmente è vice-presidente di una cooperativa con più di 100 dipendenti. Politicamente e storicamente è “meno organico”4 di Cescut, ma ha una carica romantica ed emotiva più marcata. Riconosce lui stesso di aver avuto una lenta maturazione personale, rispetto alla presa di coscienza civica sui temi che, nella piccola comunità di Aviano, sono segnati e condizionati inevitabilmente dalla presenza statunitense. Le sue convinzioni pacifiste e antimilitariste iniziano a radicarsi all’inizio degli anni ’70, in coincidenza con le marce dei radicali Trieste-Aviano. Da quel momento, attraverso le attività del Circolo Culturale Avianese, che sente come una ‘loro’ creazione, sua e di Sigfrido, col volantinaggio in occasione della annuale parata aerea, il cinema/cineforum e altri episodi che mi racconta e riconosce fondamentali nel suo percorso, si sostanzia l’avvicinamento alla politica, fino all’ingresso nel PCI che avviene di fatto nella seconda metà degli anni Settanta. Nel 1983 partecipa alle manifestazioni contro la base a Comiso, due anni più tardi è tra i pochi ad Aviano a coadiuvare un’esperienza simile, il campo di Maniago.

Valentino affronta la ricostruzione della sua esperienza intrecciandola alle sfide - irrilevanti secondo il suo giudizio odierno -, lanciate sui temi della pace e della contestazione alla base, in cui è stato direttamente coinvolto. Il riferimento è a un pacifismo in senso ampio, nel quale rientrano le questioni del disarmo, dello smantellamento della base, dei problemi di impatto ecologico-ambientale e della sovranità limitata del

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La foto è stata tratta da http://www.unimondo.org/Guide/Guerra-e-Pace/Disarmo-nucleare/Italia-da-Vicenza-a- Aviano-ricordando-Hiroshima-per-il-disarmo-nucleare-87683.

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Vice-sindaco e assessore nelle giunte di sinistra del comune di Aviano alla fine degli anni ’90.

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Cita la sua esperienza di chierichetto per testimoniarlo.

territorio, ma anche quelle collegate allo sviluppo socio-economico del territorio e ai problemi più prettamente politico-amministrativi.

Dalle sue parole, cariche di sfiducia, disillusione e amaramente critiche per tutto quel che si sarebbe potuto/dovuto fare in più rispetto a ciò che è stato fatto, esce un quadro in cui sono assai ben definite le linee e le tinte dei contenuti politico-istituzionali delle amministrazioni locali avianesi, intercettate da Valentino nella sua carriera politica locale. È una testimonianza molto sentita, in modo particolare quando il racconto esce dal ‘palazzo’ e si avvicina di più alla base. Dall’affresco delle sue parole, si riesce a percepire il sottofondo del rumore degli aerei, il rullaggio dell’F-16 sul quale i sindaci di Aviano vengono, a turno, invitati a salire per un ‘giro di giostra’:

“Ricordo che lui [il ‘suo’ sindaco, Rellini] quella volta accettò, guarda, di volare, di fare il volo con l’F16! Che è una ... allora io questa cosa qui l’ho sempre considerata, ma come può una persona, cioè, accettare di fare un volo con l’F16 quando tu sei portatore di valori di pace?! Robe del genere, no, io lo vedo come lo specchietto che i conquistatori spagnoli davano alle popolazioni indigene quando arrivavano in America, e così questi, no, venivano qui e ‘ti faccio fare il volo con l’F16’, ma digli ‘no grazie!’ e invece quella volta [...]”

Si intuiscono così gli interni della base, il suo ruolo importante a livello occupazionale, ma si avvertono ancor meglio i suoi confini, i suoi reticolati, che condizionano pesantemente quel lembo di terra, 15 km a nord di Pordenone, quasi come si trattasse del muro di Berlino. Nel narrare quel che ha significato per lui manifestare l’avversione contro questo simbolo del potere militare, De Piante lascia trasparire un autoritratto malinconico, nel quale si può intravvedere Valentino, immerso nei suoi ideali, costeggiare mestamente questo limite invalicabile, di giorno e di notte, mentre si interroga su cosa si potrebbe fare per contrapporvisi. A volte egli entra provocatoriamente in contatto con le ronde dei militari italiani e si mette a discutere per rivendicare il suo diritto, la sua libertà di circolazione:

“Un’altra cosa di quelle che mi fa così imbestiare è quando … allora, queste basi venivano, siccome c’erano problemi di terrorismo, c’erano questi militari italiani con le camionette che giravano intorno. Ma, ma si rendono conto? Perché se io devo fare l’attentato alla base ho studiato, ho visto che tu sei passato, che per dieci minuti tu non passi, ti piazzo, cioè. E però loro rompevano i coglioni perché io mi ricordo che mi vedevano passare per una stradina, mi fermavano ‘ma come, ma qua e là, è una strada comunale, ma no qua devi tornare indietro, ma no, ma come’, mi han sempre detto ‘ma sei cretino’, te ne vai a rompere le scatole. È una rivendicazione.”

Da vice-sindaco sarà costretto ‘addirittura’ ad entrare nella base in occasione dello scambio degli auguri di Natale, ma se ne uscirà in fretta, dispiaciuto di non avere con sé una bomboletta spray per lasciare un messaggio sugli aerei ai quali passerà, suo malgrado, molto vicino:

“[…] io ricordo solo una sera, una cerimonia di natale che ero vicesindaco con un cretino di comandante che era un guerrafondaio, il generale Chuk Holden (?) si chiamava, il sindaco mi dice ‘guarda che io non posso, c’è questa serata, vai tu, [ride] vai tu, è una cerimonia di natale, insomma ci hanno invitato, dobbiamo andare’, e allora quando arrivo in questo capannone militare, quindi con tutti i simboli del... e questa cerimonia natalizia, no, un disagio estremo. Tutta questa gente in divisa ‘ma questa gente – penso – se è una cerimonia, possono togliersi la divisa, avranno dei vestiti civili, o no?’. Insomma, so che io dopo mezzora ho preso, sono uscito, e camminando, quando esco, mi vedo un aereo lì a 20 metri, boh, non avevo organizzato niente e non avrei potuto farlo, però pensa se avessi avuto una bomboletta spray per scriverci su qualcosa, (mi sono detto) ‘Certo creerei un casino terribile, ma...’, e da quella volta non ho più voluto, ho detto ‘non mi mandare più dentro in base americana perché io non ci vado più’ ecco. Ma quella sera veramente, ho ancora il ricordo perché io... uno può dire ‘il natale…’, ma tu pensi

che il natale sia una cosa, ma qui strideva questa cosa, questa festa che viene proclamata in una struttura militare, è una cosa aberrante!”

Eppure da bambino il fascino degli aerei lo aveva colpito, era un segno distintivo del suo paese natale e anche la ‘moda’ se n’era accorta:

“[…] andavamo a vedere il decollo degli aerei, andavamo… anzi, ti dirò di più, negli anni proprio ancora giovani, io mi ricordo che avevano fatto queste magliette, e io le portavo, cioè, ‘Aviano’ con il simbolo dell’aereo che era a mio parere … ero un ragazzino ancora.”

Valentino esprime un sentimento di rammarico il cui ritrovamento dev’essere stato in qualche modo favorito dagli eventi raccontati e ricostruiti nel corso dell’intervista, dove trovano un minimo spazio anche i ricordi dei suoi viaggi di pace a Comiso e a Sarajevo.

A tutto questo si mescolano i suoi ricordi d’infanzia, in cui sulle T-shirt che si vendevano ad Aviano il nome del paese veniva associato all’immagine degli aerei, Santa Claus lanciava caramelle da un mezzo militare USAF, il prete del paese portava i ragazzini a vedere le partitelle di basketball che scandivano i momenti ricreativi tra gli ospiti della base e altri piccoli aneddoti ai quali si deve l’idea di ‘colonia americana’ a volte utilizzata per riferirsi a quella porzione della provincia di Pordenone.

Una narrazione in cui, oltre ai protagonisti e ai fatti già conosciuti nel corso della ricerca (ovviamente Sigfrido Cescut, ma poi don Giacomo, Don Mascherin, Gigi Bettoli, i radicali, la via crucis, il volantinaggio, la manifestazione con Bertinotti), si incontrano per la prima volta il Comitato Popolare Veneto e la sua sezione vittoriese, il temuto comitato di Fregona che Valentino - ingenuamente secondo l’amico Sigfrido5 -, accompagna nel loro campo di Maniago e poi nel corteo che degenera con lo sfascio di alcune auto (“ma se la sono cercata, uno in particolare che si è messo a rivaleggiare con il corteo, parandovisi di fronte e ‘sgasando’ per far capire la sua intenzione di voler passare comunque attraverso”).

In più, grazie alla sua presenza in giunta comunale nella seconda metà degli anni Novanta, c’è spazio per il resoconto di un amministratore coinvolto a livello decisionale nelle scelte/opportunità collegate ad Aviano 2000. Un punto di vista che consente una comprensione più d'insieme sull’effettiva portata di questo determinante passaggio legato al “mutamento” della base e sulle modalità burocratico-amministrative seguite - anche se il tono un po’ dimesso di chi testimonia il suo impegno, riconoscendone continuamente la ristrettezza delle ricadute effettive e dell’impatto concreto, è il lietmotiv di gran parte dell’intervista-. Questa è l’immagine di Valentino De Piante, un pacifista di Aviano che pur non essendosi ancora arreso, ha ripetutamente fatto emergere con i suoi commenti un senso di scoramento e impotenza ripensando a quanto ha provato a fare e che in questa intervista ha messo a bilancio (non è comunque il solo, altri testimoni avranno le stesse sensazioni, come Lidia Uliana, Carlo Vuracchi, lo stesso don Giacomo). L’insistenza sulla sensibilità e la passione con cui ha approcciato l’intervista, è un dato volutamente caricato per poter agevolare l’interpretazione complessiva della sua testimonianza, fino alla nostalgica chiusura:

“[…] Poi questa esperienza che abbiamo fatto, questo cinema, se pensi quattro sfigati che ci siamo messi lì, andavi giù a Padova per noleggiare le pellicole... sì, insomma, sentivi che avevi un ruolo in questo paese, una particina. Poi è uscito quel film di Tornatore ‘Nuovo Cinema Paradiso’, e io mi rivedo... avevamo i turni come operatori, io facevo i turni della domenica sera, queste cose che adesso non esistono più, con l’acetone ad incollare le pellicole.”

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vedi infra, cap. 4, l’intervista a Sigfrido Cescut dove racconta degli “autonomi di Fregona” che “si erano accampati in riva al Cellina”.

L’INTERVISTA

2 DICEMBRE 2015 – CANEVA (PN)

L’incontro avviene in piazza Caneva alle 21.30. Mentre ci dirigiamo verso l’unico bar aperto, mi presento e gli parlo della mia imminente partenza per Sarajevo, progetto di cui gli avevo accennato al telefono e che quindi conosce già. Dopo questo preambolo l’intervista inizia con il racconto del suo coinvolgimento nell’iniziativa dei ‘campanili’, che sta promuovendo in questi giorni don Giacomo Tolot6 in risposta al riaccendersi del terrorismo e alle altre sanguinose vicende del conflitto innescato con il Califfato. Dalle considerazioni pre-intervista era già emersa la sua idea rispetto a quella che ritiene una nuova guerra a tutti gli effetti, anche se non dichiarata o al massimo mal dichiarata. Idea che poi collega, dimostrando di nuovo profonda affinità con le tesi di don Giacomo, alla drammatica emergenza della migrazione dei popoli e che, gli suggerisco polemicamente un attimo prima di accendere il registratore, per deformazione storica italiana, potrebbe addirittura essere definita ‘invasione barbarica’, stando alle enunciazioni dei manuali di storia delle nostre scuole, almeno quelle della mia generazione.

[V. D. P.] : Forse te l’avevo già accennato, sui campanili, nelle chiese dove riusciamo, con gli striscioni da appendere con la scritta ‘RESTIAMO UMANI’, non perché l’ha detta Renzi; perché io mi rifaccio a un pacifista che è morto in Palestina, adesso non mi ricordo neanche come si chiamava, però aveva lanciato questo termine ‘RESTIAMO UMANI’, e oggi c’è questa necessità, perché veramente stiamo perdendo quel residuo di umanità. Te ne dico una, stai già registrando? Ero al compleanno di mio figlio l’altro giorno, e vien dentro uno e dice ‘ehi bambini non uscite fuori perché c’è un extracomunitario che sta camminando fuori…” delle robe che veramente, non so, bon comunque, mi fa piacere di fare questa chiacchierata con te, e iniziamo.

Dunque, tu sei del 1953.

Allora, io son del 1953, dicembre.

Un anno più di Sigfrido.

Esatto, però politicamente siamo... abbiamo lavorato assieme, e io ricordo... beh, intanto, che tempo ci diamo?

Quando siamo stanchi. Poi di solito il racconto si esaurisce da solo, e senno mi chiama mia moglie, o la tua.

Nel senso che abbiamo così, costruito e fatto molte cose assieme, pur avendo magari anche due caratteri diversi, per cui poi abbiamo avuto anche dei momenti che ci hanno visti divisi, per scelte, no, per cui lui ha aderito al PDS, io sono entrato in Rifondazione. Eravamo tutti col PCI, e ci sono state insomma delle cose che... [capisco che anche Valentino, come già Sigfrido, di questa separazione non vuole parlare

approfonditamente]. Abbiamo lavorato molto assieme e ora quando ci troviamo siamo come i vecchietti,

no, ‘quella volta facevamo così, quella volta facevamo colà...’; è bello e però ti viene anche un po’ di tristezza perché dici ‘dio bono, quante occasioni perse?’. Quindi lui, va ben, ti avrà anche raccontato, veniva da esperienze anche ... aveva lavorato anche nelle città, a Milano, quindi erano gli anni ‘70, circa insomma, e qui avevamo un circolo culturale che era stato lui.

Ma lui ha lavorato a Milano?

Sì, per la Futura Anderson, era quella società di revisione, di bilanci di… e quindi non lo so, aveva lavorato in giro, aveva lavorato per questa ditta. E lui portava un po’ questa carica in quegli anni lì era ... io invece, sì, siamo entrati subito in questo circolo culturale che era nato all’interno della parrocchia7, come succedeva in quegli anni lì insomma. Il circolo culturale nasce negli anni ‘68, ’67, ecco io non sono preciso nelle date come Sigfrido, perché se lo chiedi a lui è molto... è uno storico lui. E quindi questo circolo culturale nasce, facevamo le solite cose, i cineforum, le serate, i dibattiti sul divorzio, la legge sul divorzio. Erano gli anni di queste cose qua, e noi gruppo di ragazzi ci siamo avvicinati e abbiamo portato dentro questo circolo, un po’ di più la visione politica, no. Se prima era una cosa così più a livello culturale, leggermente così impegnato politicamente, ma non... e lì c’è stato, ovviamente, oltre ad iniziare alcune questioni di carattere politico, forse più su temi di carattere generale più che a livello locale, nel senso che quella volta la politica locale non era che ci interessava molto. Poi dopo sì. E quindi il tema della pace era inevitabile, insomma. Io ricordo le prime manifestazioni, mi ricordo la prima denuncia8 che mi sono preso; era perché c’era la parata aerea, cioè in quegli anni facevano ogni anno a luglio, questa grande manifestazione. Eravamo andati a volantinare, e quella volta avevamo un volantino che era firmato ‘militari democratici’9, perché c’era la caserma vicino, ci eravamo trovati con dei ragazzi no, avevamo fondato questo gruppo, il circolo culturale con questi ‘militari democratici’, come si chiavano questi ragazzi no; e avendo volantinato questo documento che si chiamava appunto ‘militari democratici’, era come se la distribuzione di un volantino… diciamo che non era stato firmato da un’associazione riconosciuta, e lì ci hanno identificato e abbiamo avuto la prima, la prima rognetta insomma.

E chi eravate quelli del circolo? Tu, Sigfrido e...

Eravamo io Sigfrido e un’altra decina di persone, insomma. Ecco, quindi, in quei momenti lì però…

Diciottenni?

Ma forse anche ventenni, dai, in quegli anni lì insomma.

Tu già lavoravi? [non se lo ricorda con certezza; mi racconta del suo lavoro in banca per 18 anni, della sua decisione di cambiare strada professionale e poi ritorna ai primi anni del circolo e dell’impegno pacifista in cui sembra influenzato più dai contatti con gli altri manifestanti piuttosto che dal partito, nel quale entrerà dopo questa militanza giovanile ‘sciolta’. Ma il PCI ad Aviano nei primi anni ’70 dà l’impressione di rimanere ai margini e non voler agganciare il fermento in atto con i movimenti giovanili, di cui il circolo rappresenta una chiara espressione]

Tra l’altro il mio passaggio è stato così, un po’ particolare, per un insieme di cose. Io venivo da una famiglia tutto sommato, cattolica, democristiana anche, e bon, non è che mi vergogno, ma… insomma, sono entrato in banca, ok? In quegli anni lì, la banca locale era un posto dove si riusciva, […] le assunzioni, sceglieva il direttore, per cui io ero il ragazzo che aveva fatto il chierichetto fino all’altro giorno, che aveva un po’ queste idee, sì un po’ di sinistra, un momentino, ma che tutto sommato era un bravo ragazzo, tra

7 È la matrice cattolica dei primi anni del circolo culturale di cui parla Sigfrido nella precedente intervista. 8

I ricordi del circolo si riconducono subito a quelli della prima denuncia. Se l’ordinario è più difficile da fissare nella memoria, i momenti più entusiasmanti e quelli più critici scandiscono la ricostruzione del vissuto di ognuno. Per i due comunisti pacifisti di Aviano che ho incontrato, il problema della legalità è un’impostazione che pare venire dall’alto (dall’educazione, dalla cultura e anche dal partito), mentre il circolo è il simbolo del uno spazio libero in cui crescere, confrontarsi poter riconoscereed esprimere le proprie sensibilità e le aspirazioni individuali.

virgolette, per cui ero entrato in banca. E quella volta il lavoro in banca era anche un lavoro che tutto sommato, non era quello di adesso; nel senso che avevi il tuo ruolo, contavi anche qualcosa. Poi, andando avanti... poi io la banca l’ho mollata dopo 18 anni. Un momento particolare, l’ho mollata perché ero diventato un numero e in quella cosa lì ho detto, io è inutile che resto qui ad aspettare che loro un giorno mi dicano, abbiamo 2000 esuberi, se vuoi ti mandiamo a lavorare a Catania, e ho detto ‘io la vita voglio …’. Ho mollato la banca e mi hanno detto che ero matto, e però ho vissuto lo stesso senza... ecco, non voglio disprezzare il lavoro della banca che, pagavano anche bene… e quindi in quegli anni lì abbiamo cominciato a fare l’attività politica, quindi, Aviano era inevitabile che non si toccasse il tema della pace, le manifestazioni della NATO erano l’occasione più importante per muoverci. E quella volta lavoravamo non troppo allineati. Non eravamo allineati a nessuna forza politica. Mi ricordo che quella volta ricordavamo le manifestazioni che, io non ho vissuto e però me le ricordo, sia quelle che organizzava il PCI, la guerra in Vietnam, ricordo anche qui ad Aviano c’era stata la manifestazione, però quella volta io ancora non ero… E poi c’erano state le camminate dei radicali, da Trieste ad Aviano con Marco Pannella, quando loro, sì, facevano la marcia anti-militarista e, quando ci ritrovavamo a queste iniziative contro la parata americana, della NATO, c’erano anche, qualche presenza radicale, ovviamente loro, sempre per conto loro, però insomma avevamo un dialogo, ci ragionavamo. E lì siamo un po’ cresciuti, nel senso che, qualche volta sono venute fuori delle iniziative anche interessanti, qualche volta non siamo riusciti a spostare un granché. Abbiamo cominciato ad affrontare i temi di questa base, ‘perché dobbiamo avere questa base qui, che cosa significa, le testate