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Il concetto di “natura” linguistica come l’abbiamo finora ricostruito esclude,

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 170-174)

E SULLA NOZIONE DI “ NATURALISMO LINGUISTICO ” Stefano Gensini

3. Il concetto di “natura” linguistica come l’abbiamo finora ricostruito esclude,

così almeno sembra, ogni ipoteca di ordine metafisico. Piuttosto, evoca una dimensione dell’uso nel quale fondamento biologico (generazione) e éthos si saldano compiutamente, prima dell’intervento dell’arte e della riflessione retorica. Su questo presupposto conviene rileggere un’altra famosa pagina del Discorso, quella dedicata alla critica dei Suppositi di Ludovico Ariosto.19 In questo passo che, a detta del Dionisotti, “vale per sé solo una storia del teatro italiano”,20 Machiavelli spiega che le commedie scritte “senza […] i motti e i termini proprii patrii, non sono belle” (§ 65). Le commedie hanno infatti il fine di rappresentare una situazione privata, ma, dovendo ex instituto dilettare e muovere il riso, non riescono efficaci se sono prove di quei necessari “sali” linguistici:

Ma perché le cose sono trattate ridiculamente, conviene usare termini et motti che faccino questi effetti; i quali termini, se non sono proprii e patrii, dove sieno soli intesi et noti, non muovono né possono muovere. Donde nasce che uno che non sia toscano non farà mai questa parte bene, perché se vorrà dire i motti della patria sua farà una veste rattoppata, facendo una compositione mezza toscana et mezza forestiera; et qui si conoscerebbe che lingua egli havessi imparata s’ella fussi comune o propria. Ma s’e’ non gli vorrà usare, non sappiendo quelli di Toscana, farà una cosa manca et che non harà la perfetione sua (§ 66).

Che era appunto, come si ricorderà, il vizio di fondo dei Suppositi ariosteschi, usciti in prima edizione nel 1509 ma ristampati a Roma nel settembre 1524, dopo esser stati quivi messi in scena, nel 1519, dinanzi a papa Leone: una commedia ben strutturata, a dire del Machiavelli, ma falsa dal punto di vista del linguaggio, che alternava forme prese dal fiorentino come pagare una dama di doppioni a forme foneticamente insopportabili fuor di Padanìa, quali il famoso bigonzoni.21

Interessa ai fini del presente lavoro il fatto che Machiavelli sia indotto dal suo tema a ragionare sulle modalità della comunicazione teatrale, cogliendo perfettamente la differenza fra un testo che, dovendo funzionare scenicamente, deve muoversi nei registri del parlato, e un testo scritto, rivolto a litterati, che quei registri può e deve travalicare. La tipologia dei temi dilettevoli è esposta chiaramente nel prologo alla

Clizia (che, per esser stata rappresentata la prima volta il 13 gennaio 1525, sarà stata

composta nello scorcio dell’anno precedente).22 Spiega qui il Machiavelli:

[…] volendo dilettare è necessario muovere gli spettatori ad riso, il che non si può fare mantenendo il parlare grave et severo, perché le parole che

19 Vedi in prop. le nitide pagine di Sorella, 1990, pp. 139-146.

20 Cfr. Dionisotti, 1967, p. 101.

21 Ricordo che la forma bigonzoni citata dal Machiavelli è una delle prove utilizzate per spostare la

composizione del Discorso al 1524-1525. Essa si trova infatti nella 2a ed. del testo (uscita appunto nel

settembre 1524), mentre la prima edizione, quella del 1509, recava la forma ortodossa bigoncioni. Cfr. Castellani Pollidori, 1978, pp. 97-98.

fanno ridere sono o sciocche o iniuriose o amorose; è necessario pertanto rappresentare persone sciocche, malediche o innamorate. Et perciò quelle commedie che sono piene di queste tre qualità di parole sono piene di risa; quelle che ne mancano non truovano chi con il ridere le accompagni (Clizia ecc., p. 117).

Finalità dilettevole e temi capaci di muovere il riso richiedono dunque, naturalmente, un registro linguistico basso, polarizzato verso le locuzioni più comuni e colloquiali: quelle che appartengono di necessità alla lingua propria e patria, radicati come sono in una comunità linguistica stretta, per dir così autoctona. Coerentemente all’assunto, come è stato ad abundantiam osservato, ai protagonisti della Clizia e della Mandragola sono messi in bocca parole e modi di dire fiorentini doc, còlti dal patrimonio della cultura popolare, con un gusto e una consapevolezza che colpirono, fra i tanti, Francesco Guicciardini.23

L’osservazione di Machiavelli si presta a diversi ordini di considerazioni. È ovviamente possibile limitarne la portata a un discorso, peraltro storicamente e linguisticamente innovativo, di tecnica teatrale,24 un ambito certamente caro al nostro autore, per il quale anzi rappresentò, in una precisa fase della vita, non solo un rilevantissimo impegno artistico, ma anche un veicolo di nuovo e in parte forse inatteso successo. Possibile è anche svilupparne il senso in una chiave più generale, inerente ai temi per così dire permanenti e prototipici della comunicazione, almeno nel caso italiano. Oggi che radio e televisione hanno ridato all’oralità un posto centrale nella comunicazione di massa, l’esigenza di sintonia linguistica fra testo e fruitori si ripresenta altrettanto persuasiva: temi e linguaggio della commedia, anche cinematografica, si parva licet, seguono ancor oggi le leggi illustrate dallo scrittore, e il dialetto, o quel che resta di esso, e le forme regionali e popolari della lingua formano ancora il polo “basso” capace di funzionare da controcanto alla narrazione e di colpire lo spettatore, movendo l’emozione e il riso, nei punti decisivi.25 Perfino nella vita quotidiana, non vi è quasi battuta o arguzia che non faccia ricorso a questo espediente linguistico. Ma non si scrive questo tanto per indulgere a attualizzazioni che, per quanto seducenti, sono sempre rischiose e problematiche; quanto per sollevare, con prudenza, una terza ipotesi di lettura. Il contesto generale del Discorso è, come si è visto e come molti studiosi sono disposti a riconoscere, uno nel quale la polemica contingente contro il Dante trissinizzato

23 Come si ricorderà, nella lettera al Guicciardini del 16-20 ottobre 1525 (responsiva a una del 13 dello

stesso mese), Machiavelli fornisce spiegazioni intorno a due locuzioni (Fare a’ sassi pe’ forni e Come disse la botta all’erpice) contenute nella Mandragola. In particolare, per la seconda il quondam Segretario rivela d’aver dovuto “scartabellare […] di molti libri per ritrovare il fondamento” di un modo di dire che aveva còlto nel linguaggio popolare. Cfr. Machiavelli (Lettere, 1961, pp. 438-439).

24 Non a caso, Floriani, 1978, p. 327, utilizza l’etichetta comico per caratterizzare nel suo insieme la

posizione linguistica del Machiavelli (e del Bibbiena). Giova ricordare, in questo contesto, l’avversione verso i fans del fiorentino parlato (sentito come segnato da una irrimedibile popolarità) da parte della maggioranza dei teorici linguistici del secolo (e in effetti anche delle epoche successive, fino a Monti e Leopardi). Per un’efficace sintesi cfr. Maraschio, 1987.

25 Suggestioni per una valorizzazione storico- e socio-linguistica degli spunti machiavelliani dà in

della vulgata continuamente si articola a una valutazione d’insieme del funzionamento normale, o, come Machiavelli preferisce dire, “naturale”, del linguaggio. Da tale punto di vista, non può sfuggire che al funzionamento elementare della comunicazione, rappresentato dal registro più popolare e colloquiale, corrisponde la dimensione basilare della natura umana, vista nella sua immediata consistenza di bisogni e desideri, di affettività e espressività primordiali. Dietro il riso della commedia, voglio dire, si affaccia il grande corpo della società, la dimensione di un mondo in cui, per dirla col Principe, “non è se non vulgo”, che forma peraltro il referente diretto del soggetto politico. E allora una qualche considerazione su fisionomia e caratteri di questa immensa società che vive sotto il condizionamento prioritario della natura può non risultare fuor di luogo, dato che il Discorso sembra ricondurci a un tema che attraversa tutta la produzione del Machiavelli, almeno dai Ghiribizzi al Soderini in poi.

Sia pure nel quadro di una veloce rassegna, i tratti distintivi della componente naturale dell’uomo si lasciano disporre in un mosaico abbastanza chiaro nelle linee di fondo. Il popolo, lo stesso che è detentore del livello spontaneo, originario, del sapere linguistico, si presenta come il latore di passioni sostanzialmente costanti nel corso della storia. Se è vero che è fisiologicamente varia l’indole di ciascuno (“[…] la natura ha facto ad l’huomo diverso volto, così li habbi facto diverso ingegno et diversa fantasia. Da questo nasce che ciascuno secondo lo ingegno et fantasia sua si governa”),26 vero è anche che le passioni essenziali cui l’uomo è soggetto non mutano col passare del tempo e il variare dei luoghi (“[…] perché tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo effetto”):27

e queste passioni hanno di mira soprattutto il soddisfacimento del proprio interesse o del proprio piacere personale, di solito senza accompagnarsi a una sufficiente capacità di valutazione o previsione razionale (“[…] E perché la natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa porre modo a nessuna sua fortuna, ecc.”;28 “Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani insaziabili, perché, avendo dalla natura di potere e volere desiderare ogni cosa, e dalla fortuna, di potere conseguitarne poche, ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane e uno fastidio delle cose che si posseggono; il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri, ancora che a fare questo non fussono mossi da alcuna ragionevole cagione”).29 È un quadro miserevole di desideri elementari, retti dal cieco interesse individuale (“A ciascun l’altrui ben sempre è molesto;/ e però sempre, con affanno e pena/ al mal d’altrui è vigilante e desto./ A questo, istinto natural ci mena/ per proprio moto e propria passione,/ se legge o maggior forza non ci affrena”),30 che chi governa deve imparare a conoscere con

26 Così nei Ghiribizzi al Soderini del 1506.

27 Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, III 43, 3-4.

28 Ivi, I 29, 8.

29 Ivi, proemio al l. II, capoverso 21.

crudo realismo (“Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi, e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro”),31 per poterlo dirigere ai propri voleri (“[…] e sono tanto semplici li uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare”).32 La natura umana implica dunque, nel suo nocciolo elementare, dipendenza dalla sfera istintuale e sensoriale: ciò conduce a dare sostanza di realtà alle vane immaginazioni (“[…] lo universale degli uomini si pascono così di quel che pare come di quello che è; anzi molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono”)33 e rende le persone tendenzialmente inette a adattarsi alle varietà, ma anche alle occasioni dell’esperienza (“Né si truova uomo sí prudente che si sappi accommodare a questo; sí perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina […]”).34

In tema di naturalismi, e non di naturalismo al singolare, come ha giustamente suggerito Sasso,35 sorge pertanto spontanea la domanda di come vada collocata storicamente questa disincantata visione machiavellica dell’essere umano. Sicuramente essa non esaurisce il campo dell’operare storico-sociale, perché – è appena il caso di ricordarlo – è proprio per distanza e differenza da questo lago sconsolato di istinti e di ridanciani piaceri che sorge l’azione politica del principe nuovo, insieme golpe e lione, realistico osservatore dei casi umani e prudente analista dei giri di ruota della Fortuna. Direi però che l’orizzonte utile a spiegare il messaggio machiavelliano non è quello della Politica di Aristotele, retta dall’idea di una naturale socievolezza degli individui, bensì quello – latamente epicureo e lucreziano – che insiste sulla primarietà logica e cronologica della sfera sensoriale e affettiva e sull’identificazione di un momento “ferino” nella lunga vicenda evolutiva della specie. Senza voler qui rubare il mestiere agli studiosi della formazione intellettuale del Machiavelli, dai quali si impara semmai la estrema difficoltà di rintracciare fonti sicure di un pensiero pur così ricco di echi e rimandi storici e filosofici,36 osservo che del quadro epicureo-lucreziano tornano qui due tracce quanto mai significative: quella relativa all’erramento ferino posto alle origini della storia, con la connessa genesi della società e delle leggi a partire dalla

utilitas (“Nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini: perché

nel principio del mondo, sendo gli abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi, moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi meglio difendere cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse più robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo e lo ubedivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti

31 De principatibus, XVIII, 8-9.

32 Ivi, 11.

33 Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, I 25, 2.

34 De principatibus, XXV, 16.

35 Cfr. Sasso, 1967, pp. 205-206.

dalle perniziose e ree”);37 e quella relativa alla eternità del mondo, un’idea che forzava dall’interno la tradizionale cronologia biblica (cui risaliva la tesi di una età “chiusa” nel circolo di cinque o seimila anni) e poneva il problema dell’oblio delle memorie, connesso al ruolo delle religioni e dei mutamenti linguistici (“A quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo che si potesse replicare che se tanta antichità fusse vera e’ sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di più che cinquemila anni; quando e’ non si vedesse come queste memorie de’ tempi per diverse cagioni si spengano; delle quali, parte vengono dagli uomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini sono le variazioni delle sètte e delle lingue”).38

Ha ragione Inglese, nel suo accurato commento ai Discorsi sulla prima deca di Tito

Livio, di menzionare come possibili fonti dei passi menzionati, accanto a un luogo

del De rerum natura (V, 324 ss.), un complesso testo di Aristotele sul necessario degradare degli oggetti naturali, compreso nel De caelo. Va detto però che la congiunzione di questo tema con quello dell’erramento ferino (che chiama ancora al V libro di Lucrezio e alla Epistula ad Herodotum di Epicuro, nota a Machiavelli, come a tutti, tramite Diodoro Siculo)39 rende l’ascendenza epicurea più probabile di quella aristotelica. E si tratta di un punto importante storicamente, perché proprio il connubio fra un tempo “aperto” della storia e un’umanità che non nasce illuminata dalla ragione ma che, da uno stato semibestiale, lentamente si affranca verso la civiltà, formerà l’argomento più eversivo del materialismo e del libertinismo seicenteschi, come gli studi di Paolo Rossi (1979) hanno persuasivamente mostrato.40 Del resto, entrambe queste fonti convergono verso una centralità del problema del linguaggio (visto sorgere “naturalmente”, “spontaneamente”, dagli sforzi umani di esprimere in suoni sensati le loro primordiali passioni) che ci riporta al nostro interrogativo iniziale.

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 170-174)