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Come ricordato in apertura, è molto diffusa, fra gli storici della lingua,

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 174-181)

E SULLA NOZIONE DI “ NATURALISMO LINGUISTICO ” Stefano Gensini

4. Come ricordato in apertura, è molto diffusa, fra gli storici della lingua,

l’etichettatura in termini di naturalismo delle idee linguistiche del Machiavelli. Nella sostanza, con questo termine essi indicano la primarietà accordata all’uso parlato e popolare della lingua (fiorentina), in contrapposizione sia alle tesi cortigiane sia alle tesi del classicismo bembiano, tutte implicanti una supremazia dell’arte: estrema, quest’ultima, nel caso del Bembo per il quale, com’è noto, sarebbe addirittura svantaggioso esser nati fiorentini “a bene voler fiorentino

37 Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, I 2, 14-15.

38 Ivi, II 5, 2-3.

39 Ma lo stesso tema è presente in altri autori e opere dell’antichità, ad es. nel De architectura di Vitruvio.

Si ricordi inoltre che il testo di Diodoro Siculo era da tempo disponibile in traduzione latina, lingua ben più del greco accessibile al Machiavelli.

40 La questione del possibile “epicureismo” del Machiavelli è indagata in profondità, nelle sue

implicazioni filologiche e nei problemi storico-filosofici che solleva, da Gennaro Sasso, 1986, pp. 202 ss., 390 ss.). Il rapporto privilegiato con Lucrezio ha com’è noto trovato riscontro fattuale nella scoperta del Codice Vaticano Ross. 884, contenente la trascrizione ad opera del Machiavelli del De rerum natura. Cfr. Ridolfi, 1978, p. 426 n.

scrivere”.41 A questo aspetto va aggiunta l’idea che esista una perfezione naturale del fiorentino, che lo rende adatto alla disciplina letteraria, a differenza di altri linguaggi (vedi sopra, § 1.). Così concepito, il concetto di “naturalismo” assume però un senso piuttosto generico, corroborato certamente dagli usi lessicali del segretario fiorentino, ma ambiguo rispetto alle connotazioni teoriche che ogni -ismo porta inevitabilmente con sé. Restano, d’altro canto, le obiezioni del Sasso circa le possibili, infelici implicazioni (ipostatizzazione di una “natura” umana destorificata) dell’etichetta in questione.

Se proviamo, sia pure di scorcio date le limitate ambizioni di questo scritto, a ridiscutere il nostro problema uscendo almeno in parte dalle categorie della “questione della lingua”, è subito chiaro che tre sono i tipi principali di naturalismo di cui si può parlare in sede di storia delle idee e delle dottrine linguistiche: tre tipi che, originati nell’antichità, si sono via via riproposti, in forme e combinazioni differenti, nel corso dei secoli. Il primo tipo fa capo a una concezione magico-essenzialista secondo cui il nome recherebbe nella sua forma fonica la traccia delle cose, ponendosi pertanto in maniera “trasparente” o rivelativa rispetto a esse. È, questo, il modello di Cratilo nel dialogo platonico (il nome come mímesis tês ousías), ma anche è, mutatis mutandis, il modello della “lingua adamica” o dell’ebraico “lingua originaria” che dal libro del Genesi scende il corso della storia fino al mistico tedesco Jakob Böhme (1575-1624),42 alle filologie nazionaliste del Seicento (soprattutto nordeuropee),43 in parte anche alle dottrine delle lingue universali. Il secondo tipo ritiene invece che il linguaggio sia sorto dal

bisogno, e lo vede come appendice immediata della proiezione dell’istinto e dei

sensi in forme foniche: le quali hanno sì, come nello schema cratileo, una componente imitativa, analogica, ma non direttamente nei rispetti delle cose, bensì delle reazioni emozionali dei parlanti verso di esse. Il primo modello presuppone, aldilà delle varianti, una forma originaria di Sapienza, che, quando sia andata perduta nel corso del tempo, soggiace nascostamente nelle strutture linguistiche, dove va recuperata e riletta; il secondo modello presuppone invece che all’origine vi sia una condizione d’irrazionalità o di barbarie, dalla quale gradualmente gli umani escono verso la civiltà, spinti dalla necessità di sopravvivere e di organizzarsi per meglio difendersi dagli attacchi esterni. Di qui una spiegazione laica, immanente del progressivo diversificarsi delle lingue, al netto di ogni considerazione della varietas linguarum in termini di peccato babelico.

Questo secondo modello ha la sua scaturigine, come già detto, in Epicuro e Lucrezio, ma riesce a circolare nei secoli combinandosi a ingredienti e personalità intellettuali diverse (da Orazio a Cicerone, a Vitruvio, perfino ai padri della Chiesa) che smorzano le più dure punte materialistiche della teoria, e ne

41 Com’è notissimo, l’espressione (messa dal Bembo in bocca al fratello Carlo) è contenuta nel I libro

delle Prose della volgar lingua (1525).

42 Che sostiene le sue teorie nel Mysterium magnum, oder Erklärung über das erste Buch Mosis. Celebri le

riserve in proposito di G. W. Leibniz nel III libro, § II, dei Nouveaux essais sur l’entendement humain.

43 Amplissima informazione in proposito in Droixhe, 1978. Com’è noto, allo stesso clima culturale fa

riferimento il mito etrusco-arameo nella Firenze del medio Cinquecento. Si v. in prop. Simoncelli, 1984, con ricca bibliografia.

ripropongono la sostanza, probabilmente, già nel tardo Medioevo, e certamente in epoca umanistico-rinascimentale, preparando (si pensi a Montaigne) quella stagione del libertinismo e del materialismo seicenteschi (da Gassendi e Cyrano de Bergerac fino a Theophrastus redivivus) che, almeno per quanto riguarda i problemi linguistici, non mancherà di sfiorare perfino il grande Leibniz.44

Diverso e più articolato discorso meriterebbe il terzo modello, quello legato alla lezione biologica e zoologica di Aristotele: esso è ben altra cosa dall’aristotelismo delle scuole e innerva, con esiti talvolta davvero “radicali”, ampia parte delle dottrine linguistiche rinascimentali, che corrobora sul piano anatomico (si pensi a quanto il recupero di Historia animalium favorì i primi studi sull’apparato fonatorio umano e degli altri animali) non meno che su quello delle dottrine della conoscenza (De

anima, Problemata ecc.). È probabile, tuttavia, almeno fino a contraria prova, che

questo terzo tipo di naturalismo sia poco pertinente per Machiavelli, dato che esso, mediato dalla scuola padovana e bolognese di Pomponazzi e dei pomponazziani, coinvolgerà gli studi linguistico-letterari grazie al Dialogo delle lingue dello Speroni (1542) e soprattutto alla grande sintesi contenuta nell’Hercolano del Varchi, col quale siamo però ben oltre la metà del secolo.45

Nel complesso, le idee linguistiche che s’incontrano nel Discorso sembrano più imparentate col secondo che col primo e il terzo dei modelli sopra ricordati. Da Epicuro e Lucrezio Machiavelli non eredita l’interesse per il momento genetico del linguaggio – il classico tema delle origini –, mentre appare pienamente in sintonia con l’idea di una fase ferina della storia che in qualche modo sopravvive nella primarietà della sfera materiale e passionale della conoscenza e dell’azione umana. Di grande interesse è anche il fatto che, in questa tradizione, la componente naturale (del linguaggio e della conoscenza) si proietta sull’agire storico, evitando ogni appiattimento metafisico del concetto di “natura”. Quella del linguaggio è insomma una natura dentro la storia, che si esprime nella sfera basilare dell’esperienza: cui pertengono, come abbiamo visto, le caratteristiche strutturanti di una lingua effettivamente “propria” e “d’una patria”, ma anche, inscindibilmente, i livelli di comunicazione elementari cui fa riferimento il teatro, per dilettare e ammaestrare. Sono questi, del resto, gli ingredienti necessari dell’interazione col pubblico, come sono gli strumenti di identificazione “alta” di una comunità nel suo insieme: quelli per cui il povero Dante, strumentalizzato da Trissino, avrebbe secondo Machiavelli dovuto vergognarsi di ripudiare la sua inevitabile, insopprimibile fiorentinità.

Lette in questa chiave, le intuizioni linguistiche del Machiavelli, che è certamente ragionevole rappresentare in termini di “naturalismo”, sembrano

44 Per una breve storia dell’epicureismo linguistico mi permetto di rimandare a Gensini, 1999. Per la

dottrina della varietà delle lingue, un rimando d’obbligo è al monumentale lavoro di Borst, 1995 (1a ed.

1957-1963). Per le implicazioni religiose si v. Céard, 1980.

45 Per una veloce caratterizzazione dell’aristotelismo linguistico del Varchi rimando a quanto ho scritto

in Gensini, 2006. Da questo filone va logicamente distinto (ma senza trascurare la possibilità della circolazione nei due sensi di temi e nozioni) lo studio medico del linguaggio, esemplificato dagli importantissimi lavori di Girolamo Fabrici di Acquapendente (Fabricius, 1533-1619). Per quest’ultima tradizione cfr. l’eccellente vol. di Maraschio (a cura di), 1992.

perdere la loro presunta episodicità e acquistare una coerenza concettuale che da qualcuno, forse, è stata un poco sacrificata. Ciò, è inutile ribadirlo, senza peraltro in alcun modo ascrivere al Nostro una qualifica di “filosofo” ch’egli non volle e che certo non gli si addice.46 Quelle che Machiavelli organizza in un chiaro discorso politico-linguistico sono infatti idee variamente diffuse nella tradizione, cui egli diede, se non andiamo errati, compattezza e forza grazie all’interazione con la sua visione laica e materialistica della natura umana.

Un problema vistosamente aperto è, invece, la visione della lingua (ma anche dello Stato e degli altri istituti umani) come oggetti naturali, biologici, i quali, come ogni organismo vivente, nascono, crescono e lentamente si trasformano. È questo un refrain del dibattito linguistico cinquecentesco, segnatamente nell’area fiorentino-toscana, che ripropone il problema della variegata fortuna di Aristotele in età umanistico-rinascimentale e delle combinazioni teoriche, spesso inattese, in cui la sua eredità giunse a operare. Machiavelli è solo un anello di tale trafila. Di questo problema si occupò sommariamente, ma originalmente, Faithfull in un saggio degli anni Cinquanta che, per quanto mi risulta, non ha trovato continuatori.47 Credo che la sua linea di ricerca andrebbe ripresa e portata avanti oggi, alla luce degli interrogativi e delle difficoltà implicati nel concetto di “naturalismo” di cui qui si è tentato un assaggio.

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46 Indimenticabile l’autodefinizione del Machiavelli quale “historico, comico et tragico”, formulata in

chiusa della lettera a Francesco Guicciardini della fine di ottobre 1525 (Lettere, p. 444).

47 Non pochi elementi sono tuttavia deducibili dal già cit. Simoncelli, 1984, che, dato il suo assunto,

sottolinea in più punti gli esiti linguistici delle teorie biologiche di Aristotele presso numerosi autori fiorentini del medio Cinquecento.

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