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Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 71-95)

ALCUNI SPUNTI DI RIFLESSIONE SULLA COLLEZIONE WURST NEL MUSEO NAZIONALE DEL PALAZZO DI VENEZIA A ROMA

Pierfrancesco Fedi

Nell’ambito delle collezioni museali romane, un’interessante raccolta di oggetti artistici cinesi e giapponesi è conservata presso il Museo Nazionale del Palazzo di Venezia a Roma. I pezzi, ascrivibili a diverse tipologie, e per la maggior parte riferibili alle dinastie Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911), per quanto riguarda la Cina, ai periodi Edo (1615-1868) e Meiji (1868-1912), per quanto concerne il Giappone, s’inseriscono all’interno di un’articolata Collezione d’Arte Orientale, comprendente, comunque, anche altri notevoli manufatti, in metallo e ceramica, espressione delle altissime qualità decorative del mondo musulmano, nonché di tessuti, tra cui degli Ikat, di provenienza centro asiatica. Tale collezione è costituita principalmente, ma non esclusivamente, da due considerevoli lasciti: la donazione Ruffo di Motta Bagnara del 1919 e il legato Wurts del 1933. Grazie a queste donazioni lo Stato ha potuto acquisire, oltre ad un cospicuo numero di opere d’arte occidentale e russa di notevole valore artistico, anche importanti oggetti provenienti da altri ambiti culturali, come appunto quello cinese e giapponese.1

I pezzi confluiti nelle raccolte del Museo, poco oltre il primo trentennio del XX secolo, ma recuperati presso il mercato antiquariale sicuramente tra il tardo Ottocento e il primo quarto del Novecento, vennero scelti e selezionati dagli antichi proprietari e collezionisti secondo il gusto tipico della fine del XIX secolo, seguendo la moda di un rinnovato interesse per il Giappone e contestualmente per l’Asia Orientale. In particolare la collezione del diplomatico americano George

1 Diverse informazioni di carattere generale sulla storia delle collezioni del Museo Nazionale del

Palazzo di Venezia si possono reperire in Museo Nazionale, 1998 (particolarmente sull’argomento in esame, ed anche in relazione alla donazione Ruffo di Motta Bagnara, cfr. pp. 5-7, 19-20, 26-28); ma cfr. anche Nicita, 2000, pp. 36 e ss., 55-56: e Casanova, 2004, p. 3. Alcune notizie su George Washington Wurts, e sullo spirito che informa la composizione delle varie raccolte della sua collezione, si possono trovare in: Casanova – Pacìa – Ciofi degli Atti (a cura di), 1988. Per delle indicazioni generali esclusivamente sulla collezione giapponese cfr. Alabiso, 2003, p. 137. Chi scrive ha affrontato un primo studio sulle porcellane ed i tessuti cinesi e giapponesi del Museo nell’ambito della propria tesi di Dottorato di Ricerca: Temi, motivi decorativi e loro risoluzione compositiva nelle porcellane e nei tessuti serici estremo orientali nel Museo Nazionale del Palazzo di Venezia a Roma, presentata nel 2001. Tenendo come riferimento alcuni dei risultati conseguiti, si è avuta in seguito la possibilità di partecipare, per la parte di competenza, ad alcune iniziative in cui si è potuto ritornare sul lavoro svolto, come la mostra temporanea “Il Museo Nascosto, opere dai depositi”, tenutasi nel 2002, e alla preparazione nel 2004 del nuovo allestimento delle porcellane cinesi e giapponesi (tuttora visibile come esposizione permanente). In relazione a questi due eventi è stata pubblicata qualche notizia, principalmente su alcune porcellane della Cina e del Giappone, ma anche su degli esemplari di tessuti, cristalli di rocca cinesi e metalli smaltati giapponesi; cfr. Fedi, 2002; e idem, 2004. Si ringraziano calorosamente, infine, Maria Giulia Barberini, Maria Selene Sconci e Silvano Germoni del Museo Nazionale del Palazzo di Venezia per la disponibilità e per l’aiuto concessi in più occasioni.

Washington Wurts (1843-1928), allestita nella sua residenza romana di Palazzo Antici Mattei (noto anche come Palazzo Antici Mattei di Giove, all’incrocio tra via dei Funari e via Caetani), ultima dimora del diplomatico e della consorte Enrichetta, o anche Henrietta, Tower (1856-1933),2 testimonia un interesse per l’arte e la cultura del Giappone, sia pure confuso con altre testimonianze della creatività cinese, così come veniva sentita e rivissuta dall’alta borghesia fin de siècle.

Pochissimi documenti, purtroppo, rimangono nel Museo a indicare sia il modo attraverso il quale venne composta nel tempo la collezione Wurst, sia il ruolo e la disposizione dei singoli pezzi nelle sale della loro residenza; tuttavia, dall’esame generale delle opere ad esso pervenute e attraverso le scarne testimonianze documentarie dell’epoca è possibile tratteggiare un rapido profilo del clima in cui si consumò l’esperienza culturale dei due americani e delle modalità sottese alla acquisizione dei vari pezzi. I Wurts3 si mossero all’interno di quell’ambito di

2 I coniugi (si vedano le informazioni più dettagliate alla nota 3) possedevano anche Villa Sciarra sulle

pendici del Gianicolo, donata nel 1930 al Capo del Governo, Benito Mussolini e da questi fatta pervenire nel 1932 alla città. Sia la villa, sia le collezioni della residenza romana vennero cedute per volontà della vedova di George Washington Wurts, sia pure in due differenti occasioni, di cui la seconda per legato testamentario. Secondo l’esecuzione del testamento nel 1933 veniva lasciato l’intero patrimonio delle collezioni di “curiosità ed opere d’arte” di Palazzo Antici Mattei allo Stato Italiano, purché fossero esposte nei saloni di Palazzo Chigi, oppure di Palazzo Venezia, come poi effettivamente avvenne. Sempre nel testamento Henrietta Wurts stanziava anche un fondo di 50.000 dollari per la conservazione della collezione; qualora il lascito non fosse potuto pervenire alle sedi designate, il legato sarebbe stato devoluto al Governatorato di Roma. Va notato infine che, quando la munifica donatrice aveva lasciato villa Sciarra (poco dopo la morte del marito, in memoria degli anni felici che vi aveva trascorso), aveva disposto, anche in quel caso, un lascito di 50.000 dollari per la manutenzione; cfr. Page, 1950, pp. 328-334; per quanto riguarda l’esteso e circostanziato resoconto della visita di Mussolini alla villa (ivi, pp. 332-334). Lo stesso Page informa, sia pure fuggevolmente, quale effetto avessero, e in che modo fossero valorizzati, all’interno di Palazzo Venezia (e non solo in sede museale), i lasciti (in questo caso parla delle armature) di Enrichetta, contrassegnati da cartellini con la scritta “dono Tower-Wurts”, lamentando di essere stato escluso dall’eredità dei Wurts (ivi, pp. 482-483). Il legato di Enrichetta dovrebbe aver rispettato accordi già presi in precedenza con il marito. Qualche indicazione sul lascito è contenuta in Casanova, 1998, p. 20; il più cospicuo numero di notizie rimane sempre quello reperibile in Pacìa, 1988. Vedi ancora Cannelli, 2002, pp. 52-53. Wurts, ancora non sposato e all’epoca residente in Palazzo Merighi, fu uno degli esclusivi invitati – tra cui figuravano anche il principe Umberto e la consorte Margherita, o il conte Giuseppe Primoli – al ballo in maschera tenutosi a Palazzo Caetani nel febbraio 1876; una foto lo ritrae come “Cavaliere della quadriglia Van Dyck”; cfr. Gorgone – Cannelli (a

cura di), 2002, foto no 59, pp. 184-185; ma cfr. anche la breve scheda di catalogo di C. Huemer in

Spellbound by Rome, 2005, cat. no 32, p. 138; e Dabel, 2005, p. 83 (p. 89 traduzione).

3 Stabilitisi dopo il 1893 definitivamente nella Roma umbertina, i coniugi Wurts affittarono un sontuoso

appartamento al primo piano di Palazzo Antici Mattei, in via Caetani, 32 (altro ingresso in via dei Funari 31, dove dal 1936 si trova il Centro di Studi Americani), nei cui saloni collocarono le spettacolari collezioni d’arte, la cui magnificenza ancora oggi rivive nelle pagine del romanzo autobiografico già citato di George Nelson Page (un parente della prima moglie di George Washington Wurts), venato di sarcasmo e di amara, più che pungente, ironia, L’americano di Roma, edito nel 1950 a Roma. Nel romanzo i riferimenti ai due protagonisti della scena romana, a cavallo tra i due secoli sono ricorrenti (tra i più interessanti, cfr. pp. 24, 32-37, 61-62, 78-79, 138-144, 159-160, 328-334, 418, 482-483). Si tratta di commenti sempre abbastanza acidi e velenosi (particolarmente nei confronti di Henrietta, nome usato confidenzialmente in famiglia di Enrichetta Tower Wurts), ma utili per ricavare informazioni. Il Page ricorda spesso Villa Sciarra (che sperava gli toccasse in eredità), dove nel mese di maggio, ogni giovedì, i Wurts ricevevano l’alta società dell’epoca. Nel 1902, infatti, la coppia acquistò Villa Sciarra al

personaggi che coltivavano una passione studiosa – e studiata – per la bellezza e per una perfezione estetica di maniera, almeno così come potevano essere intese nella neonata capitale d’Italia a cavallo tra ’800 e ’900. Roma, all’epoca, si presentava come una città indolente seppure orgogliosa del proprio passato, in cui convivevano tutte le contraddizioni di un centro che tardava ad aprirsi alle istanze culturali internazionali. In questa particolare situazione si scelsero, e si acquisirono, gli oggetti più fini e i pezzi più esclusivi di epoche diverse, come pure di variegate realtà culturali. In tal modo più opere d’arte – in una confusione composta da straordinari ed unici capolavori, insieme ad abilissime falsificazioni – venivano ad essere assorbite indifferentemente nella penombra dei palazzi romani, sottilmente descritta, oltre che da Gabriele D’Annunzio (1863-1938), cantore eccelso di questa società frivola e sofisticata, anche da grandissimi autori americani come Nathaniel Hawthorne (1804-1864) e Henry James (1843-1916).4

Per ciò che concerne gli oggetti orientali, non si giunse ad inflazionare

Gianicolo, delimitata dai bastioni delle Mura di Urbano VIII, da via Calandrelli e da via Dandolo; restaurato l’originario corpo quattrocentesco (sede oggi dell’Istituto Italiano di Studi Germanici), sistemarono lo splendido giardino (che anche oggi – malgrado l’estremo degrado in cui versa – affascina ugualmente per la bellezza del luogo), inserendo meravigliose piante, allevando pavoni (all’epoca la villa era anche conosciuta come la “villa dei pavoni bianchi”) e, come arredo, statue e fontane di un vigoroso “rusticismo” settecentesco, provenienti da una villa lombarda sconosciuta (molto probabilmente del milanese, vista la presenza dello stemma dei Visconti in due fontane) e andata distrutta. Chiamarono, inoltre, nel 1912 Enrico Gennari per realizzare uno spettacolare Belvedere – oggi impraticabile – e da questo luogo, appartato ed allo stesso tempo dominante sulla capitale, condussero la propria esistenza organizzando gli sfarzosi ricevimenti dei giovedì di maggio, cercando di affinare i propri gusti di accorti e selettivi collezionisti ed amanti del Bello; cfr. Pacìa, 1988, pp. 7-9; Finocchiaro, 1988.

4 Cogliere l’atmosfera romana nel periodo in cui i Wurts, come tanti esponenti della comunità

anglo-americana, decisero di stabilirsi a Roma, o di muoversi principalmente tra Firenze e Roma, è importante per contestualizzare le scelte di vita operate dai due coniugi. Oltre ai testi che ricostruiscono l’ambiente e le suggestioni, essenzialmente degli “aristocratici” americani di Boston, New York, o Philadelphia, come i Wurts, cfr. almeno Saarinen Bernstein, 1977; Giorgelli 1978; Guth, 1999, pp. 28-43; ma soprattutto Spellbound of Rome, 2005. Ma anche dalla lettura diretta di alcuni scritti, o di importanti romanzi, si possono cogliere, nelle pagine descrittive più intense e felici, le palpabili sfumature della società americana e dei vari ambienti culturali nella capitale del Regno d’Italia. Se la testimonianza dannunziana è, come sempre, tra le più consistenti e scintillanti – dalle più riuscite rappresentazioni del suo capolavoro Il Piacere, del 1889, agli articoli, raccolti in seguito parzialmente in D’Annunzio, 1913; idem, 1948; idem, 1995 – è nella produzione dei più sensibili scrittori americani contemporanei che è possibile ritrovare le atmosfere più suggestive e l’analisi più approfondita delle psicologie degli stranieri americani in Italia. A Nathaniel Hawthorne spetta precorrere i tempi con Il fauno di marmo (The Marble Faun) del 1860, frutto delle sue impressioni su Roma e dell’impossibile conciliazione tra mondo latino e puritanesimo, alla luce del viaggio in Italia di pochi anni prima, intorno al 1857; ma è Henry James l’artista che riesce a rendere, dietro la facciata di nobiltà e di ricercatezza dell’alta società romana e dei suoi illustri ospiti stranieri, il senso di disagio e di precarietà di due realtà culturali estremamente differenti, anche se superficialmente partecipanti di interessi comuni a livello culturale, più che sociale. I suoi soggiorni romani, compiuti a più riprese a partire dal 1869 per un quarantennio ca., sono testimoniati nelle acute annotazioni e nelle penetranti descrizioni delle pagine più intense delle sue opere, da Roderick Hudson (1875) a Daisy Miller (1879), oppure a Ritratto di Signora (Portrait of a Lady) del 1881, fino alla Coppa d’oro (The Golden Bowl) del 1904 e al libro di viaggio Ore italiane (Italian Hours) del 1909.

l’interesse dei collezionisti con paccottiglia di scarso valore, contrariamente a quanto avvenne per il mercato più generico delle antichità, piuttosto si assistette ad una concentrazione di oggetti originali nonché autentici direttamente importati attraverso canali limitati. Ciò fu dovuto alla ristretta disponibilità di luoghi di rifornimento e alla difficoltà di manipolazione e falsificazione dei pezzi, che erano destinati ad un gruppo di esperti, selezionato culturalmente e per mezzi economici. Tuttavia, i preziosi documenti delle Civiltà dell’Asia Orientale, venivano, il più delle volte, snaturati dei loro valori e dei loro significati, per essere “ricreati”, cioè adattati ad un contesto di decoro, secondo il gusto dell’epoca, così come vissuti dall’élite culturale romana, in base a esigenze personali e a una rinnovata sensibilità.5 I coniugi Wurts si inserirono pienamente nell’alta società romana; in questo contesto indirizzarono le loro scelte estetiche ed operarono il completamento delle loro raccolte. Pur non affidandosi alle cure di accorti specialisti, ma guidati, anche se non sempre, da uno spiccato ed innato gusto, portarono a compimento, seppure nei limiti delle tendenze dell’epoca, quello che a ragione può essere definito un “progetto di vita e di cultura” come testimoniato dagli ambienti della residenza a Palazzo Antici Mattei e, successivamente, dalla realizzazione del complesso di Villa Sciarra.6

La varietà e la molteplicità degli aspetti artistici riscontrabili nella composizione delle loro collezioni, pongono George Washington ed Enrichetta Wurts tra quelle figure di collezionisti da rivalutare. Infatti tutte le loro raccolte, meriterebbero, a dire il vero, di essere poste all’attenzione degli specialisti: una vera e propria ostentazione di fasto, lusso ed opulenza muove le azioni degli “aristocratici” americani Wurts nel loro “ritiro romano”.7 Nei loro viaggi, o nelle ricerche per tramite di intermediari, esercitarono ampiamente la loro passione di amateur, e di attenti estimatori. Oltre a un ricchissimo e composito numero di “prodotti d’arte” acquisito in Russia, la raccolta spazia dai dipinti alle sculture lignee, dai tessili alle

5 Cfr. Arzeni, 1987, pp. 44-45.

6 Proprio la stessa villa dove Gabriele D’Annunzio aveva precedentemente scelto di ambientare il duello

tra Giannetto Rùtolo e Andrea Sperelli, il protagonista de Il Piacere (cfr. D’Annunzio, 1990, pp. 122-127); il parco a quell’epoca era ancora parte dei possedimenti del principe Maffeo Sciarra di Carbognano, proprietario del giornale La Tribuna, dove lo stesso D’Annunzio lavorò come redattore fisso, pubblicando, per la maggior parte, le sue “cronache mondane e romane” tra il 1884 e il 1888.

7 Sulla vita dei coniugi Wurts e sugli avvenimenti che li portarono ad eleggere Roma come sede

definitiva della loro esistenza, vedi ancora Pacìa, 1988, pp. 5-8, dove si analizzano sinteticamente gli eventi della carriera diplomatica di George Wurts, che di famiglia agiata, dalla natia Philadelphia, verso il 1864 giunse in Europa (a Madrid), venendo quindi presto assegnato alla Legazione degli Stati Uniti d’America a Firenze – dove rimase per quattro anni – e successivamente nominato Segretario di Legazione dopo il 1868 a Roma. Il primo soggiorno romano durò quattordici anni fino all’ottobre 1882 ed in questo periodo (1880) morì, non ancora trentenne, la prima moglie Emma Hyde di New York. Dal 1883 al 1892 fu trasferito, ancora come Segretario di Legazione, a San Pietroburgo e, probabilmente in questo periodo o poco prima, sposò in seconde nozze Enrichetta Tower, anche lei proveniente da una delle più facoltose famiglie di Philadelphia, dove il padre aveva creato uno dei più potenti imperi economici degli Stati Uniti. Sfumate le ambizioni di concludere la propria carriera con una nomina di ambasciatore, prima in Svezia, infine – molto probabilmente a malincuore – in Persia, nel 1892 rassegnò le proprie dimissioni ed in seguito scelse Roma e l’Italia come patria elettiva fino alla morte sopraggiunta nel 1928.

porcellane, dagli avori agli argenti, dai mobili ai tappeti, dalle armature alle armi, dalle lacche ai cristalli, e molto altro ancora. In un così eterogeneo patrimonio artistico, veri e propri capolavori vengono a convivere accanto ad oggetti, il cui valore si può supporre di una valenza tutta personale, rientrando così in quel genere di pezzi i quali, secondo un’arguta definizione di Mario Praz, formavano la quintessenza del bric-a-brac, junks, cianfrusaglie di indubbio colore, ma… che significavano anche “polvere”.8

Per quanto riguarda il numero di esemplari appartenenti all’area dell’estremo Oriente, le porcellane cinesi e giapponesi rappresentano il gruppo più consistente (più di trecentocinquanta pezzi ca.).9 Altrettanto rilevante è quello formato dagli esempi dei tessili (più di sessanta pezzi ca.), provenienti in larga parte dal Giappone ed in misura minore dalla Cina.10 Accanto a questi due nuclei fondamentali, si segnala in primo luogo la Collezione di lacche giapponesi (dieci oggetti ca.), che conta pezzi di ottima fattura, seguita anche dalle raccolte di opere

8 Cfr. Praz, 1973, pp. 353-354; idem, 1990, p. 367. Nel secondo lavoro citato lo studioso insiste acutamente

su come in questi interni, in cui convivevano Rinascimento e foresta vergine, Bisanzio e Kyōto, si respirasse uno strano afrore, un’aria che esalava quel misto di profumo e di tanfo che danno i fiori quando non si cambi l’acqua, ossia l’alito della decadenza; e di una decadenza che si atteggia a primavera! (ivi, pp. 68-69). A Roma risultano esemplari le scelte di gusto adottate per l’arredo degli ambienti del Quirinale, o del Palazzo della regina Margherita a via Veneto; cfr. in questo senso Morozzi, 1998, a, pp. 76 e ss. (con particolare riferimento alla “nuova ondata di esotismo, stavolta di marca giapponese”, ivi, pp. 80-81); Morozzi, 2006, pp. 164-173. Tali scelte di “gusto”, erano dettate anche da una folta schiera di testi sull’arredamento e non è un caso che nell’articolata e colorita biblioteca dei Wurts si trovassero tra gli altri il volume di Byng Hall, The bric-a-brac hunter, edito a Londra nel 1875, che indirettamente ci fornisce una testimonianza dei gusti e dei modelli estetici dei due “altolocati americani” in volontario esilio romano. Come, inoltre, suggerisce Finocchiaro: “Possiamo ritagliare nel fondo circa tre momenti significativi. Il primo rivolto alle arti denominate applicate che spazia dagli argenti (Hayden, 1915) ai giardini (Cook, 1911), dalle ceramiche (Bohn, 1857) agli arazzi (Churchill-Candee, 1912) […] Riscontriamo comunque eleganti e singolari libri sul costume (Hibberd, 1870) e la sua storia (Lanandre, 1857) con un certo sapore fin de siècle (Uzanne, 1886)”; cfr. Finocchiaro, 1988.

9 Le porcellane ed i tessuti dell’Asia Orientale nella loro totalità sono già stati fatti oggetto di una

schedatura scientifica promossa dal Museo Nazionale del Palazzo di Venezia di Roma, di concerto con il Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” di Roma, che l’ha inserita, nell’ambito di applicazione della Legge 160, in un progetto di catalogazione di un gruppo di opere d’Arte orientale in Italia; questo progetto è strettamente collegato con l’Archivio delle collezioni d’Arte orientale in Italia. L’operazione di catalogazione è stata affidata a chi scrive ed è stata coordinata, presso il Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, dalla Dr.ssa Maria Selene Sconci, responsabile del settore Arti decorative del Museo romano, unitamente, per quanto di competenza, alla Dr.ssa Luigina Di Mattia. Per quanto riguarda i pezzi Wurst, nell’ambito della mostra “La Seta e la sua Via”, tenutasi a Roma nel 1994 al Palazzo delle Esposizioni, sono state esposte per la prima volta al pubblico due statuine schedate da L. Caterina (cfr. Lucidi, 1994, cat. numeri 197 e 198, p. 286). Sempre queste due statuine

(come cat. no 20), insieme con altre porcellane cinesi e giapponesi, sono state presentate nella mostra “Il

Museo nascosto. Opere dai depositi”; cfr. Fedi, 2002, cat. numeri 1-3, pp. 3-4 e cat. no 18, p. 11

(porcellane cinesi); cat. numeri 9-13, pp. 6-8 [il cat. no 12 era già stato precedentemente riprodotto in

Lombardo – Di Mattia, 2000, p. 144] e cat. numeri 19-20, pp. 11-12 (porcellane giapponesi); ma cfr. anche Fedi, 2004. Alcuni pezzi Wurts della “Compagnia delle Indie” sono pubblicati in Casanova, 2004, pp. 436-437, 443-445.

in metallo (una ventina di pezzi ca.),11 realizzate anche con decoro in smalti

cloissonné,12 ed una piccola selezione di armi, di mobili, statue lignee e paraventi giapponesi. Concludono questo panorama due altre piccole, ma interessanti, collezioni: la prima (una dozzina di pezzi) di avori giapponesi, è composta da

netsuke e okimono (“oggetto da porre”); la seconda è formata da una diecina di

opere cinesi in cristallo di rocca.13 Ulteriori pregevoli pezzi isolati, sia cinesi, sia giapponesi, completano il numero delle “cose d’Arte” dell’Asia Orientale.

In quale modo tale consistente patrimonio delle grandi civiltà dell’Estremo Oriente trovasse collocazione nelle residenze in Roma dei coniugi americani, è difficile da stabilire con esattezza. Certamente ci vengono in aiuto le descrizioni degli ambienti di Palazzo Antici Mattei, più a carattere generale che di dettaglio, fornite da George Nelson Page nel suo romanzo L’americano di Roma, ma queste non possono che offrirsi come uno specchio distorto delle modalità attraverso le quali vennero vissuti gli oggetti. Si può, tuttavia, tentare di ricostruire la fisionomia di questa collezione, tenendo in considerazione il clima e le tendenze di gusto pertinenti al fenomeno del Japonisme, o meglio della Giapponeseria in Italia.14

Ancora una volta si può far ricorso alla preziosa ed attenta testimonianza di Gabriele D’Annunzio, rispetto a quella di George Nelson Page che, pur citando le raccolte Wurts, non entra molto nei particolari;15 praticamente ne indica gli aspetti di ricchezza, di copiosità e di abbondanza, tendendo implicitamente a sottolineare il “cattivo gusto” dell’eccesso. Il giovane D’Annunzio, con abile e consumata capacità evocativa, pur non offrendo ancora sensazioni al livello del Proust della maturità,16 in occasione del matrimonio tra Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao,

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