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S U ALCUNI PARADIGMI DELLA STORIOGRAFIA GIAPPONESE

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 159-163)

Francesco Gatti (†)

Da oltre un decennio, in Occidente – dapprima in Germania e successivamente anche in Italia – all’interno della storiografia è cresciuto il cosiddetto “revisionismo” che in alcune circostanze è sfociato nel “negazionismo”: diniego delle atrocità naziste, dei campi di sterminio, per giungere a mettere in sordina le rappresaglie nei Paesi occupati attuate dai tedeschi e dai loro alleati, nel caso dell’Italia talvolta occultate per alcuni decenni nell’“armadio della vergogna”.

Il “revisionismo” che si è affacciato nella storiografia italiana e tedesca pone allo storico del Giappone alcune questioni, per rispondere alle quali occorre una riflessione preliminare.

Infatti, la epistemologia della maggioranza degli storici giapponesi appare, in molti casi, distorta, sia nella “ideologia”, sia nella metodologia.1 Sul piano “ideologico” è presente tra gli storici giapponesi una consistente corrente di “negazionisti”. È sufficiente pensare alle diatribe sull’Unità 731 operante in Manciuria, sulle comfort women, sul massacro di Nanchino.2 Quando tali eventi non vengono negati o sottostimati, assai spesso il lavorio della maggioranza degli storici giapponesi è pervaso da un atteggiamento “giustificazionista” che fonda le sue radici nel “vittimismo”.

“Vittimismo” che ha origini lontane nel tempo, per es., nella polemica degli esponenti della cosiddetta “destra civile”, quali Kita Ikki, Ōkawa Shūmei e Mitsukawa Kametarō contro l’“imperialismo bianco”: il Giappone nume salvifico dei “Paesi e popoli dell’Asia”, come sarà ripreso nel programma della DaiTōA kyōeiken (大東亜共栄圏) all’atto della sua fondazione nel 1940.

“Vittimismo” che si sostanzia nell’interpretazione più o meno sottesa del Giappone “costretto” all’espansione colonial-imperialista, da un lato, dalla pervicace virulenza dell’imperialismo occidentale e, dall’altro lato, dall’esigenza di conservare l’indipendenza nazionale, in linea con le scelte dell’oligarchia Meiji.3

Talora, Giappone “costretto” al Patto Tripartito – considerato dal ministro degli Esteri, Matsuoka Yōsuke, strumento essenziale per la divisione del mondo in quattro aree di sfruttamento (giapponese, tedesca, italiana e statunitense) – per

1 Per “ideologia” qui si intende il bagaglio socio-culturale dello storico, come è stato messo in rilievo da

Marc Bloch nel Mestiere dello storico. Apologia della storia, (Bloch, 1981).

2 Quando nel 1999, dopo il rifiuto della traduzione da parte di un editore che ne aveva i diritti, venne

finalmente distribuita in Giappone l’edizione in inglese del volume The Rape of Nankin: The forgotten Holocaust di Iris Chang (Chang, 1997) accanto ai negazionisti molti storici assunsero un atteggiamento “relativista” del tipo: i civili uccisi dai militari giapponesi non furono 200 o 300 mila, ma al massimo poche centinaia o migliaia. Come se l’uccisione di un numero inferiore (tutto da provare) di civili fosse una attenuante.

3 Un aspetto assente nella storiografia giapponese è quello del “nodo delle origini” della formazione

FRANCESCO GATTI

1184

pura difesa dall’aggressività soprattutto economica del Paesi stranieri.

Interpretazioni più o meno sottese che emergono con pervicacia dai manuali scolastici, scelti con cura dalla Commissione ministeriale per l’Educazione, composta da studiosi e da funzionari governativi il cui giudizio, inappellabile, è vincolante per la adozione da parte degli insegnanti.4 Testi nei quali le invasioni diventano “avanzate” e nei quali molti attentati a personalità civili nei turbolenti anni Venti e Trenta e molti atti di guerra sono semplicemente indicati come jihen o

jiken (事変, 事件), cioè, “incidenti”. “Incidenti”: eventi inattesi, involontari, casuali.

La casistica dei cosiddetti “incidenti” occorsi all’interno contro gli avversari politici, tanto negli anni precedenti, quanto del periodo successivo alla costituzione del regime del tennōsei fashizumu (天皇制ファシズム) è amplissima; tutti sono occultati, sminuiti, facendo semplicemente ricorso alle date degli eventi stessi. Così, emerge all’attenzione del lettore o dello studente una indicazione asettica.

Sul piano internazionale, alcuni avvenimenti sono citati (Nanchino, Manciuria), altri sono ignorati: per es., le incursioni militari nelle regioni nord-orientali della Cina dopo l’insediamento a Yenan dei comunisti guidati da Mao Zedong i quali lottarono contro l’imperialismo, anche giapponese, considerato, in termini marxiani, la “contraddizione principale” per il popolo cinese.

Se per il Nankin jihen (南京事変), gran parte della storiografia giapponese, salvo poche eccezioni,5 si è molto impegnata nel “riduzionismo”, nel caso del Manshū

jihen (満州事変) ha spesso sostenuto che le condizioni interne della Cina hanno

posto alla classe dirigente giapponese la necessità di intervenire. Poiché la lotta tra comunisti e nazionalisti fu una rivoluzione e non una guerra civile, il Giappone dovette intervenire dapprima eliminando Zhang Zuolin, poi “avanzando” in Manciuria per imporre il suo controllo in un contesto internazionale che potesse garantire i suoi interessi nella regione e in Mongolia.6 Inoltre, l’“incidente”, stando a certe interpretazioni, ebbe risvolti positivi, non solo perché significarono l’attuazione del “grande disegno di un’economia controllata dal Giappone”7 ma anche perché i componenti del “gruppo per la conoscenza” della Manciuria – operante all’interno della Minami Manshū tetsudō (Mantetsu) – “collaborarono alla formazione dello Stato cinese e allevarono uomini di talento”.8

Alcune interpretazioni dell’azione giapponese in Manciuria giungono a giustificarla, sostenendo le “sorti magnifiche e progressive” dell’intervento. È questo il caso di Kō e Ikeda.9 Secondo questi autori, “all’interno della storia dell’Asia, il problema della Manciuria è estremamente particolare”. Partendo da alcune considerazioni generali, quali il fatto che nell’Ottocento la regione era quasi spopolata, primaria importanza avrebbe avuto la Mantetsu che, con

4 Ben nota è la vicenda del manuale compilato dall’eminente studioso Ienaga Saburō, inizialmente

ricostruita dallo stesso Ienaga, 1969.

5 Tra gli altri, i più noti esponenti di una analisi puntuale dell’invasione della Manciuria sono Fujiwara

Akira, il già citato Ienaga Saburō e Kawahara Hiroshi (vedi ultra).

6 Sejima, 1998, p. 52.

7 Kobayashi, 1996, pp. 104 ss.

8 Ivi, p. 214.

l’approssimarsi del crollo dell’Impero Qing, favorì la migrazione di grandi masse di cinesi. Migrazione che prosegue dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con il risultato che la popolazione è attualmente di 150 milioni. Insomma, la Manciuria, “da regione spopolata ha una popolazione pari a Francia e Germania. Il Manshūkuo costruito dal Giappone è stato fondamentale”,10 per raggiungere il livello demografico di un’area europea che, alla stessa latitudine, un secolo prima, aveva un alto livello di industrializzazione.

Tuttavia, il contributo positivo dell’imperialismo giapponese non si limiterebbe al popolamento. L’azione del Giappone avrebbe un profondo significato ideale. Il Giappone, infatti, avrebbe accostato all’“ideologia colonialista” (maturata in Europa come utopia artificiosa di ampliare il territorio nazionale) la “‘teoria unionista di tipo asiatico’ che avrebbe condotto a unità un grande territorio”.11

Secondo questa teoria, l’unione condurrebbe all’armonia delle cinque razze. A differenza dell’India, in cui vigeva la “segregazione di classe”, il Giappone, pur accettando la “‘ideologia colonialista’ fondò il Manshūkuo permeato dalla teoria antiindiana dell’armonia dei popoli, dell’armonia delle cinque razze. Fu una grande esperienza dal punto di vista umano. Nel Manshūkuo, il sogno e l’entusiasmo per l’Impero del Grande Giappone furono scelte consapevoli”.12

Insomma, il disegno sarebbe stato quello di “una maestosa concezione [cioè…] di pensare a una massa di cinesi con giapponesi quali pionieri, non si sarebbe fondato uno Stato di sola popolazione cinese sotto la tirannia dei giapponesi, si sarebbe fondato uno Stato con la simbiosi di molti popoli. […] Partendo dal flebile significato dell’armonia dei popoli, l’armonia di cinque popoli (giapponese, cinese, manciuriano, coreano e mongolo), oltre a un piccolo nucleo di popolazioni bianche: russi, tsunguri ecc. divenne la politica nazionale”.13

Tuttavia, il trionfo del comunismo e dell’antagonismo di classe in Cina avrebbe impedito ai popoli asiatici di combattere uniti contro il colonialismo occidentale e di prevalere nella Seconda Guerra Mondiale. E la “teoria unionista” avrebbe fallito il suo obiettivo soltanto perché “l’ideale attuato in Manciuria fu troppo avanzato per lo spirito dei tempi”.14 Se parte dell’insuccesso sarebbe stato determinato dall’immaturità dei tempi, sul piano interno manciuriano, il fallimento sarebbe avvenuto a causa dell’impreparazione e del conservatorismo dei militari dell’Armata del Guangdong che “impedì l’amalgama delle popolazioni” e, in sostanza, “finì per predicare bene e razzolare male”.15

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Da questi pochi esempi (ma se ne potrebbero fare molti altri) emergono i paradigmi del “vittimismo”, del “giustificazionismo” e del ”riduzionismo”. Inoltre, si potrebbe sostenere che in Giappone opera un “revisionismo alla rovescia”, nella

10 Ivi, pp. 104-105. 11 Ivi, p. 106. 12 Ibidem. 13 Ivi, p. 113. 14 Ivi, p. 114. 15 Ibidem.

misura in cui contrasta le interpretazioni prevalenti e ampiamente diffuse dell’Impero del Grande Giappone, “vittima” e, per così dire, “apostolo” della liberazione “dei popoli e dei Paesi dell’Asia”. Un’attività di ricerca e di “revisione” che sulle problematiche dell’imperialismo e del fascismo tenta di condurre i giapponesi a “fare i conti con la storia”: un processo che, a differenza di quanto avvenuto in Italia e Germania, non si è mai sostanzialmente avviato in profondità. Questo il merito di alcuni storici quali, tra gli altri e per indicare soltanto i più noti, Fujiwara Akira, Ienaga Saburō, Inoue Kiyoshi, Kawahara Hiroshi e il grande scienziato politico Maruyama Masao.

BIBLIOGRAFIA

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SEJIMA Ryūzō, DaiTōA sensō no jissō [I fatti reali della Guerra della Grande Asia

E SULLA NOZIONE DI

NATURALISMO LINGUISTICO

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 159-163)