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Conclusioni in cammino: ricercare è affinare il metodo

Nel documento PER/METTERE LE STORIE IN MOVIMENTO. (pagine 148-152)

La metafora del cammino ha attraversato tutto il capitolo poiché, come esplicitato nei capitoli precedenti, il tema del movimento connota non solo l’esperienza formativa di ricerca, ma attraversa anche la dimensione riflessiva in pedagogia in quanto esperienza di un percorso esistenziale, relazionale, intellettuale e affettivo che può condurre ciascuno a diventare quello che è (Madera, 2012). Secondo la pedagogista Mariagrazia Contini,

“la vita è un cammino, odos, perché per dare forma al proprio essere occorre un cammino. Per trovare la direzione di questo cammino, e non smarrirsi nella dispersione vanificante, occorre un metodo: met-odos, cioè il sapere del camminare” (Contini, 2009, p.7)

Il cammino di ricerca è quindi per il ricercatore anche un’esperienza esistenziale che offre apprendimenti personali e, soprattutto, può portare risultati interessanti da offrire alla riflessione della comunità scientifica e delle istituzioni dove lavora. Il lungo processo di analisi della lettera di Adriana va letto in questa direzione. Infatti, in ricerca ci si abbandona alla scoperta come un esploratore. Gli esploratori usano mappe e per un ricercatore la mappa è la teoria da cui muove per guardare il mondo. Le domande sono una condizione necessaria dell’essere in ricerca e proprio queste sembrano orientare sia la storia di Adriana che la mia esperienza di ricercatrice. Secondo Scardicchio (2012b) la postura del ricercatore in movimento tiene insieme le posture del “claudicante” e, insieme, del “saltimbanco”, capaci di conoscere i propri limiti e contraddizioni, ma accogliendoli con l’immaginazione, l’inventiva, i sentimenti, l’intuizione:

149 “Nella ricerca, così come nella formazione, non sono anche io un pezzo di mondo

che sta guardando un altro pezzo di mondo? Allora, forse, ciò di cui abbiamo bisogno è la semiotica del nostro stesso sguardo. L’autobiografia lo è. Epistemologia che muove da, e persino celebra, quello «scomodo diaframma», autotessitura che si interfaccia, si mescola, si ibrida col diaframma di molti altri, scatena ndo una imprevedibile apertura di possibili con la medesima complessità di un rizoma. O di una nuvola.” (Scardicchio, 2012, p. 46, corsivi suoi citando Calvino, 1993)

Questo capitolo dedicato all’esplorazione di direzioni di ricerca qualitativa “nuove” e “non anticipabili” (vedi titolo del capitolo) ha offerto il racconto di un’esperienza che sfidando i metodi di ricerca convenzionali ha portato la ricercatrice a costruire un metodo performativo sensibile alle storie. Un metodo capace di accogliere tensioni, risonanze, contraddizioni e trasformazioni e i cui esiti sono interpretati con una modalità dinamica, che comprende le opacità e continua a interrogarsi sulle dimensioni di senso e sul valore emancipatorio della ricerca in pedagogia.

Il lungo processo di analisi della lettera di Adriana ha messo in azione la “base poetica” della mente della ricercatrice (Calvino, 1993; Hillman 2009) e ha dato forma a una ricerca come esplorazione che ha portato come risultati l’individuazione di quattro nuove aree tematiche connesse al dis/orientamento esistenziale: l’incertezza come consapevolezza della propria forza e, insieme fragilità umana; la persistenza come riconoscimento di una “vena carsica” , di un desiderio profondo radicato nelle biografia che muove ogni individuo verso un particolare interesse; la ri-nascita come disponibilità a una trasformazione di sé e l’apprendimento come via per generare la trasformazione.

Nel prossimo capitolo l’autrice sfiderà la propria metodologia grazie all’incontro autentico con un nuovo campo di ricerca. Il secondo caso di studio ha coinvolto infatti 2 gruppi di donne in presunte situazioni di “vulnerabilità” e le educatrici che lavorano con loro in comunità mamma-bambino. Questo nuovo caso di studio consentirà alla ricercatrice, come vedremo, di continuare a interrogarsi sull’intersoggettività, l’etica e la riflessività embodied in pedagogia e di mettere in discussione le quattro aree tematiche connesse al dis/orientamento individuate nel caso di studio di Adriana, nella consapevolezza che, come ricorda Demetrio:

“In ogni caso il ricercatore qualitativo […] è consapevole del fatto che impara nel corso della ricerca. E questa si configura quindi sempre come un viaggio esistenziale oltre che professionale.” (Demetrio, 1992, p. 12).

150 CAPITOLO 4

IN CAMMINO: STORIE (DI DONNE) IN MOVIMENTO BEING SINGULAR PLURAL

Convictions, directions, opinions, are of less importance than sensible shoes.

Thomas A. Clark - In Praise of Walking

Being Singular Plural: Racconto auto-etnografico (5)

Ferragosto 2016 e ci sono i migranti in stazione. L’unico appuntamento comasco di oggi, estemporaneo, porta alcuni cittadini a coinvolgersi tramite il passa parola in una serata (S)Concerto che non è un concerto73. Non c’è palco né amplificazione, chi sa suonare suona, chi vuol cantare canta, chi sa ballare balla: come una serata in spiaggia tra amici, cambia solo l’orizzonte.

Ci sono anche io tra loro: cammino in un parco cittadino ormai senza erba, adiacente alla stazione dei treni, che trasuda di terra e degli odori di varia umanità di chi si accampa lì ormai da un mese. A far luce un solo lampione, ma è sufficiente per farmi apparire sconcertante la situazione.

La teoria dice che la musica si prenderà cura di loro e di noi, ma la pratica?

Più mi avvicino alle tende più l’umidità cresce e mi arriva in faccia un’aria calda, fetida come se fossi entrata in un bagno di vapori puzzolenti. Mi viene la pelle d’oca e vorrei andarmene subito, ma allo stesso tempo voglio restare. Affretto il passo per non dare ascolto alle sensazioni o forse per lasciarle alle spalle. In lontananza qualcuno intona: “O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao.”

Qualcun altro nella penombra mi sta seguendo con lo sguardo. Sono in pericolo? Un’ombra

73 L’evento auto-organizzato ha visto la collaborazione di cantanti e musicisti locali. Al (s)concerto hanno suonato: il cantautore Filippo Andreani presente as sieme a Sench e Big Luca dei Potage, Davide Noseda dei Fleurs de Maladives, Sean Bianchi dei Peregrines, ai Three Wheels al completo, a Gabriele Gambardella di Lelecomplici, ad Andrea Parodi, Franco Pandolfo e Sandro Tangredi dei D’Altrocanto, Maurizio Aliffi, Franco D’Auria, Dama dei Croppy Boys, Massimo Olivieri dei Rumori di Gente, elementi degli Alchechengi e una rappresentativa di Musica Spiccia. Presenti anche alcuni “paradisti” della Parada par Tücc. Presenti soprattutto un centinaio di cittadini comaschi per un Ferragosto che “resterà nel cuore” - fonte quotidiano La Provincia di Como. Nel web sono disponibili alcuni video della serata: http://www.laprovinciadicomo.it/stories/como -citta/migranti-alla-stazione-si-suona-con-i-comaschi_1197228_11/.

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mi tocca una spalla. Il cuore batte fortissimo, mi volto di scatto, spaventata e due bellissimi occhi neri mi guardano dritti negli occhi:

“Are you Italian?” mi chiedono “Yes, I am” rispondo.

Già sono italiana e vivo a Como, ma non è che mi senta proprio a mio agio nei luoghi dove sono nata e cresciuta. Forse perché sono vissuta sapendo di stare tra due confini: da una parte quello geografico con il Nord Europa e la ricca Svizzera, a meno di 10 chilometri dalla porta di casa, dall’altra, a Sud, quello culturale con Milano capitale della moda e centro economico d’Italia. Così vivo da sempre come una cittadina con il complesso d’inferiorità di chi non si trova mai all’altezza e non riesce a sentirsi comunque a casa nello spazio che separa questi due confini.

È andata così fino a un mese fa, quando in questo spazio “tra due confini” sono rimasti incastrati un gruppo di cinquecento giovani africani che, respinti dalla frontiera elvetica – protetta, o meglio quasi sigillata da un drone senza pilota, con tanto di sensori di rilevamento a calore - si sono ritrovati bloccati nell’intento di raggiungere il Nord Europa. Sono eritrei, somali ed etiopi - ragazzi giovani - molti minorenni, in prevalenza maschi - e dormono qui a cielo aperto alle porte della città, ma Como non li ha mai davvero incontrati prima di questa sera. Loro alla ricerca di trovare una via clandestina per passare il confine, noi lì vicino a tentare di inventarci “qualcosa” - come un “concerto” o una mensa - per sperimentare un’accoglienza che ancora non c’è. Qualcuno chiama i volo ntari auto-organizzati come me la “Bella Como”74, ma io mi sento confinata dentro il mio imbarazzo.

Senza preavviso, intorno alla città si è creato un campo simile a Idomeni o Calais75 e i “fenomeni migratori” sono occhi neri che ti guardano e mani sporche che ti toccano. La musica sale e la notte di Ferragosto ha inizio: altre ombre escono dalle tende alcuni con i tamburi. Le percussioni danno ritmo a canti che non conosco. C’è la bellezza di trovarmi in una terra straniera a casa mia, la paura e l’imbarazzo non sono più emozioni

clandestine, ma hanno pieno diritto di esistere.

“O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao” si mescola alle percussioni e mi accorgo che

74 Le associazioni di volontariato per l’accoglienza e gli attivisti comaschi per la tutela dei diritti dei cittadini migranti creano nel corso dell’autunno 2016 una rete di azioni sinergiche coordinate, da Mensa di Sant’Eusebio, Centro Servizi per il Volontariato e la Comosenzafrontiere. Per approfondimenti: http://www.ecoinformazioni.it.

75 Nel marzo del 2016 ai confini d’Europa si sono verificati importanti movimenti migratori. A Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, centinaia di migranti hanno cercato d i sfondare le barriere di filo spinato e si sono ritrovati a vivere in un centro profughi. Mentre a Calais, nella zona adiacente al tunnel della Manica che collega la Francia al Regno Unito, numerose ruspe che hanno iniziato a smantellare “la giungla”, il villaggio dei migranti accampati da mesi alla ricerca di un passaggio alla sognata Inghilterra.

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intorno alle tende ci sono un gruppo di bambini “bianchi” che agitano palloncini colorati e un altro di giovani “bianchi” – sembrano studenti universitari – che distribuiscono qualcosa da bere. Mi allungano un bicchiere: tè freddo, troppo dolce per i miei gusti. Non so se cantare o battere le mani a ritmo dei tamburi. Provo a fare tutte due le cose contemporaneamente e qualcuno ride dietro di me. Penso di essere buffa da vedere mentre avverto la sensazione del famigliare che sembra nuovo e stonato: il ritmo dei tamburi cresce, mentre le note di “Bella ciao” sfumano. La risata si avvicina ed è la voce di una donna che mi prende per mano. Non la conosco. Indossa un paio di orecchini d’ottone che brillando le illuminano il viso straniero.

È un invito a ballare?

Batto i piedi a terra per tenere il ritmo: è l’esitazione l’esperienza dominante ora. In questa musica c’è una danza nuova che solo chi sceglie di danzare può conoscere. Facciamo dei passi insieme, ci calpestiamo i piedi quando una di noi due perde il ritmo. Ci fermiamo, poi ricominciamo in una dinamica in cui pensieri, emozioni ed azioni non appartengono più a me, ma invece all’insieme di noi due e il mio corpo è uno strumento musicale. Lei canta e io ascolto. È un canto alla vita e stiamo partecipando a una danza rituale. Mi sembra di riconoscere qualcosa di sacro. Nel condividere una danza si stabiliscono legami mutevoli e si trasformano relazioni, affetti e discorsi.

All’improvviso i tamburi si fermano, accade qualcosa che non so bene tra i musicisti e le voci fanno silenzio. Per un attimo ho l’impressione che siamo tutti interconnessi.

Lei si avvicina e porta la sua bocca vicino al mio orecchio, piano mi sussurra: “Ciao, bella!”.

Una risata rompe il silenzio, è la mia.

Nel documento PER/METTERE LE STORIE IN MOVIMENTO. (pagine 148-152)