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Verso l’esperienzialismo attraverso l’auto-consapevolezza emozionale

Nel documento PER/METTERE LE STORIE IN MOVIMENTO. (pagine 115-120)

3.2 Posizionarsi nella ricerca: le radici biografiche di una scelta

3.2.1 Verso l’esperienzialismo attraverso l’auto-consapevolezza emozionale

Come fondare una metodologia coerente con i presupposti sistemici e dinamici fin qui tracciati? A una prima lettura, l’incipit autoetnografico Indent-alter-ity, but still in one place, potrebbe sembrare non pertinente e incompatibile con questa domanda. L’intento di questo paragrafo è illuminare come l’autoconsapevolezza emozionale possa divenire una pratica in uso nella ricerca qualitativa in pedagogia fondata, come vedremo nel corso del capitolo, sull’esperienzialismo (Lakoff & Johnson, 2012). A sollevarsi qui è il complesso e problematico nodo delle dimensioni relazionali sottese alle pratiche narrative, che i vari attori dell’esperienza di ricerca mettono in gioco e che il ricercatore deve poter dipanare in direzione di un riconoscimento dell’intreccio tra ricerca, apprendimento/formazione e vita. Si cercherà di mostrare attraverso la scrittura come il ricercatore sia solo una parte, “una voce”, di un universo incerto e disorientante chiamato ricerca. È attraverso questa posizione “incompleta e mancante” che lo sguardo si fa voce per narrare il processo, più che per evidenziarne i risultati. Questo capitolo si configura complessivamente come un racconto di formazione sul campo, dove il cuore dell’esperienza diviene raccontabile solo se si accoglie il vissuto corporeo e si accetta di fidarsi della propria percezione e comprensione. Per fare ciò, risulta metodologicamente necessario dedicare tempo e cura all’esplorazione delle stratificazioni narrative in cui l’autrice - come tutti i ricercatori e i formatori – è inserita e delle quali non può essere interamente consapevole. Questo significa accogliere e

116 approfondire l’idea che le narrazioni professionali si formano a partire dalle esperienze interiorizzate nel corso della vita.

Il percorso di ricerca prende una forma fluida, una sorta di “deriva strutturale” (Maturana e Varela, 1990) nella quale il racconto di uno studio di caso in-forma e per-forma la costruzione di un metodo di ricerca interpretativo che genera e analizza i dati in quella chiave di riflessività embodied in pedagogia che è stata definita nei precedenti capitoli teorico-epistemologici. In senso generale, la deriva rappresenta una metafora dell’evoluzione biologica, immagine incerta dei possibili tracciati dei rivoli che cadono da una collina, risultato di differenti modi individuali di interagire con le irregolarità del terreno. La metafora del Drift fornisce una chiave di lettura per analizzare l’intreccio tra pensieri, corpo e emozioni e i collegamenti con i contesti culturali e sociali nei quali le biografie incarnate si muovono. Il racconto autoetnografico Indent-alter-ity descrive un’esperienza di sensory ethnography (Pink, 2015) vissuta nel campus universitario di Canterbury, che ha permesso alla ricercatrice di esplorare in un contesto di vita vissuta la metafora della deriva, attraverso l’azione del camminare, e le sue interconnessioni con le storie di vita. In breve, l’esperienza consisteva nel camminare a occhi chiusi, come un “vagabondo senza direzione” cercando di ascoltare la voce di un collega che narrava vicende sconcertanti (uncanny) degli abitanti della cittadina del Kent distrutta dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale (ispirata al film A

Canterbury Tale del 1944 diretto da Powell, M.). Camminare a occhi chiusi impone di

escludere la fonte visiva di informazioni sensoriali, ovvero di sospendere l’uso della vista, il senso di cui facciamo maggiormente uso nella vita quotidiana, per entrare in un’esperienza altra. Nello scritto autoetnografico si parla più volte della sensazione di perdita d’orientamento e di assenza di direzione. Procedendo a zigzag, i passi dell’autrice, non guidati dalla vista del percorso, si affidano alle percezioni uditive e olfattive generate dai movimenti, dalle voci e dall’ odore delle persone accanto, dietro o davanti, ma non chiaramente distinguibili. Per differenza possiamo notare come, invece, l’esperienza visiva connoti il racconto del disorientamento universitario della studentessa in ingresso all’università proposto nel frammento narrativo 2, estratto dal diario di ricerca. In queste esperienze, il racconto è una via performativa nella quale sono contemporaneamente agiti diversi livelli di lettura e possibile comprensione; tutto ciò che accade avviene dentro una rete di relazioni dinamiche, che cambiano continuamente e sviluppano forme, idee, visioni del mondo, in larga parte inconsapevoli. L’esperienza prende senso sempre e solo in un contesto. Il classico dualismo che separa soggetto e oggetto, centrato sul linguaggio denotativo, viene sfidato per mettere al centro il “pattern che connette” (Bateson, 1972), le relazioni, le (inter)azioni così da

117 celebrarne la complessità e l’intriseca connotatività (Maturana & Varela, 1987). Questo comporta anche il passaggio, ancora più difficile, dalla centralità della visione all’attenzione per il sentire e il contatto corporeo. Premesse, emozioni e posture relazionali del ricercatore, come del pedagogista, possono essere rivisitate grazie all’auto-consapevolezza emozionale (Sclavi, 2003). Infatti siamo tutti, come dice Zambrano “problemi viventi, in un tempo che non smette di passare e con un’esigenza urgente” (1996, p.84), quella di evolvere, senza però che ci sia dato di sapere come questa esperienza non lineare prenderà forma.

Imparare a ricercare in modo autoetnografico, dando valore alla soggettività e all’intersoggettività, significa lavorare in termini di consapevolezza di sé. Questo processo è stato vissuto dall’autrice con entusiasmo e stupore, ma anche con profondo sconcerto (uncanny) e ingarbugliamento quando è stato evidente che il tema di ricerca era profondamente intrecciato con la trama della propria biografia e identità. Nel precedente paragrafo, il focus autoetnografico ha messo in luce le radici biografiche dell’interesse di ricerca, che affonda nell’esperienza relazionale dell’infanzia grazie alla voce di un caregiver significativo, la nonna. Come ricercatrice, assumere la posizione di insider dell’esperienza che si vuole studiare è rischioso; c’è il rischio di incorrere nell’ingenuità di ritenere che “la voce autobiografica sia in qualche modo più trasparente di altri modi di rappresentazione” (Rosiek, 2013, p.160). Diversi studiosi hanno manifestato una posizione critica nei confronti di una teoria naturalistica dell’identità, della narrazione, dell’esperienza (v. ad esempio Butler, 1990; Scott, 1991; Mazzei, Jackson, 2009) In particolare Formenti mi ha sollecitato personalmente più volte ad affrontare questo aspetto:

“L’idea che nulla sia più vero di ciò che è narrato in prima persona porta a ipostatizzare l’identità del narratore e ad espungere la differenza, a partire proprio dalla differenza tra soggetto, autore e lettore del racconto, che non possono e ssere “la stessa persona” […] Una “buona narrazione” nasce dal corpo, dai sensi, dall’attenzione che è innanzitutto esercizio di presenza, un saper guardare, vedere, distinguere. È anche esercizio d’ironia, distacco, curiosità (molto difficili quando la storia che stai raccontando è la tua!). […] ” (Formenti, L. 2015 in Alastra V, Batini, F. (a cura di), p.107)

A differenza di ciò che suggerirebbe un approccio fenomenologico “ingenuo”, il discorso interiore dell’etnografo e la sua consapevolezza di un’emozione emergente, sono l’espressione di una valutazione su ciò che sta osservando, infatti nella sistemica l’osservatore è parte integrante del processo di ricerca. Allo stesso tempo, un certo grado di oggettività

118 diventa necessario per evitare di “raccontarsela” perché la ricerca narrativa oggi è dominata dai paradigmi fenomenologici e costruzionisti, che in modi diversi e per ragioni diverse esaltano la soggettività “contro” l’oggettività, confermando così una visione dicotomica e scissa del processo di conoscenza. Unire narrazione e pensiero critico significa prendersi cura della polarità semantica che è venuta a crearsi tra sostenitori del realismo e del costruzionismo, tra soggettivo e oggettivo, tra ricerca evidence-based e ricerca di ispirazione umanistica. Un doppio legame che, sempre secondo Formenti (2015), non aiuta il pensiero, né la ricerca, poiché alza inutili barriere e allontana tutti i ricercatori dall’esperienza, nella quale il soggettivo e l’oggettivo sono sempre intrecciati. Le evidence sono “dati” che ci interrogano, e che vanno interrogati, non negati. Ovvero: anche i “dati” raccontano storie, a saperli ascoltare. Lakoff e Johnson (1998) sostengono che sia l’oggettivismo che il soggettivismo forniscono prospettive impoverite rispetto alle aree di comunicazione interpersonale, comprensione reciproca, autocomprensione, rituale, esperienza estetica e politica; queste sono aree di ricerca fondamentali per un pedagogista e più in generale per le scienze sociali. I due studiosi propongono l’esperienzialismo come ricomposizione dei poli:

“Dal punto di vista esperienzialista, la verità dipende dalla comprensione, che emerge dall’agire nel mondo. È attraverso tale comprensione che l’alternativa basata sull’esperienza fa fronte alla necessità oggettivista di una descrizione della verità. È attraverso una strutturazione coerente dell’esperienza che l’alternativa esperienzialista soddisfa la necessità soggettivistica del significato personale”. (Lakoff & Johnson, 2012, p. 282)

Ma come si pratica l’esperienzialismo? E come si fa a mettersi in ascolto e a muoversi all’interno della ricerca tra soggettività e oggettività? Tutto questo ha creato il senso di disorientamento e spiazzamento generativo che accomuna i racconti autoetnografici finora presentati - Identity Card, turn left, please; A mile on my shoes; Drift; Indent-alter-ity, but

still in one place. Tali narrazioni presentano una notevole quantità di informazioni e

percezioni che possono essere ricondotte all’unico tema dell’autoconsapevolezza emozionale nell’esperienza di ricerca. In particolare, intrecciandosi e connettendosi con lo studio e la pratica del metodo di apprendimento corporeo Feldenkrais hanno fornito una base esperienziale per la creazione di un metodo di ricerca incorporato. Il termine consapevolezza (awareness) costituisce una categoria centrale della pratica Feldenkrais: finché non percepisco, non so che cosa sto facendo e dunque non posso neanche fare quello che vorrei fare. Per esempio, finché non conosco il modo in modo in cui mi organizzo quando cammino

119 non lo posso modificare e quindi scegliere come muovermi. Alla complessa domanda posta da un allievo, “come posso accorgermi di non sapere quello che faccio”, Feldenkrais indicò che la consapevolezza nasce dall’attenzione paziente per il modo in cui ci muoviamo (Reese, 2015). Il metodo connette le percezioni sensoriali con l’attività motoria, offrendo un’esperienza concreta di auto-consapevolezza. Ho potuto sperimentare personalmente come sentimenti e pensieri siano creati dall’azione attraverso il movimento (Maturana & Varela, 1990). I miei racconti auto-etnografici sono la narrazione di un processo concreto di deriva strutturale nel quale si sono generate connessioni tra emozioni, sentimenti, pensieri e movimenti nell’interazione tra la mia struttura e il mondo/contesto.

In ambito pedagogico c’è ancora molta confusione riguardo alle cosiddette “competenze riflessive” (Finley, 2011). Ho incontrato professionisti, educatori e i ricercatori inconsapevoli del proprio posizionamento corporeo, emotivo e cognitivo in relazione al proprio interesse professionale. La mia motivazione a scrivere in questo modo è che il racconto dell’esperienza possa portare un contributo (seppur embrionale) nel capire come confrontarsi con l’incertezza per considerarla un’occasione di conoscenza. L’incertezza diventa così uno spazio di sperimentazione e scoperta dove il ricercatore può essere curioso e fare domande, scoprire il piacere di mettersi in gioco e portare se stesso in quello che fa. Questo è stato per me il primo passo nella ricerca: camminare, ma anche lasciarmi guidare dalla deriva. La percezione di disorientamento e il vagare senza un obiettivo caratterizzano la ricerca come dimensione fluida e costituiscono un’immagine analoga a quella del “cammino di un vagabondo senza direzione” - the walking of a vagabond without direction - proposta da Maturana e Varela (1987, p.172) al fine di esprimere la partecipazione attiva del ricercatore alla natura dialogica e processuale della propria ricerca. Ciò necessita, secondo gli autori, di competenza, disciplina, esercizio e responsabilità, poiché richiede di riconsiderare i legami tra scienza e etica. La metafora evolutiva del natural drift è un’idea spiazzante dell’esistenza umana e delle dinamiche relazionali:

“l’evoluzione, piuttosto, assomiglia a uno scultore vagabondo che passeggia per il mondo e raccoglie un filo di qui, una latta di là, un pezzo di legno più in là, e li unisce nel modo consentito dalle loro strutture e circostanze, senza altro motivo se non che è lui che può unirli. E così, nel suo vagabondare, si producono forme complesse composte da parti armonicamente interconnesse, che non sono prodotto di un progetto ma da una deriva naturale.” (Maturana e Varela, 1999, p.105)

120 Se la vita nasce ed evolve non da un progetto, ma da una deriva che genera forme impreviste, quali sono le conseguenze per la ricerca e le pratiche professionali in ambito pedagogico e sociale? A ogni passo, o azione, il mondo cambia in qualche aspetto e qualcosa cambia anche in chi lo attraversa. La ricerca si configura come un processo riflessivo, critico e intersoggettivo. Ogni passo emerge dall’incontro con l’altro dove l’autoconsapevolezza percettiva emotiva si genera attraverso l’autoascolto (Feldenkrais, 1991; Gamelli, 2011, Reese, 2015).

Ho cercato di mostrare come le esperienze di disorientamento e la scrittura auto-etnografica si siano rivelate utili per imparare a fidarmi di me e ad usare le sensazioni e le emozioni – lo sconcerto, il disagio, lo stupore – come informazioni da falsificare grazie al confronto con l’altro e l’ambiente per costruirmi quella che Telfener (2011) definisce la “credibilità”. Tale consapevolezza nasce dalla percezione che “la posizione soggettiva ruota intorno al concetto di differenziazione del Sé, oltre che al livello di competenza percepita, vissuta e mostrata” (Gamelli, 2011). Fluttuare con gli altri, lasciarsi andare senza avere l’ansia che debba forzatamente succedere qualcosa, mantenere la fiducia attiva delle proprie emozioni, ma anche della propria ignoranza promuove, con il tempo, la capacità di stare dentro la relazione con l’altro e di saper guardare anche da punti di osservazione diversi per comprendere in modo complesso e sistemico. Il racconto dell’esperienza ci consente di tenere traccia di questa deriva naturale senza necessariamente categorizzarla o cercare di dirigerla al fine di parlare della propria ricerca con lo stesso linguaggio, sensibile ed emotivo, che si userebbe con un amico senza pretendere di ottenere risultati previsti o prevedibili.

Dopo questo approfondimento sulla risorsa dell’autoconsapevolezza emotiva nella scrittura di ricerca proseguirò nel cammino mostrando come sia possibile costruire un metodo performativo di analisi interpretativa a partire dall’esperienzialismo e dall’ascolto delle proprie percezioni, azioni ed emozioni corporee.

Nel documento PER/METTERE LE STORIE IN MOVIMENTO. (pagine 115-120)